Dotato di un incipit promettente, che ha il raro pregio di permettere al lettore di orientarsi subito in quanto sta accadendo, Dall’ombra di Juan José Millás (traduzione di Paolo Collo, Einaudi, pp. 152, euro  17,00) è un piccolo congegno romanzesco perfettamente funzionante, senza smagliature né cadute, senza una pagina di troppo, e vibrante di una leggera tensione, che si estende lungo tutta la nervatura del libro rendendone la lettura difficilmente abbandonabile. Ha per protagonista Damían Lobo, un uomo brutalmente licenziato dalla ditta di «beni strumentali» dove lavorava come addetto alla manutenzione, riparando tutto ciò che necessitava di essere aggiustato, finché le sue abilità manuali e le sue competenze tecniche non erano diventate superflue in questo mondo che tende a sostituire ciò che si rompe piuttosto che a ripararlo.

Della sua iniziazione sessuale, che si sospetta non avere fatto progressi con l’entrata nell’età adulta, è responsabile la sorella adottiva, una bambina cinese inopportunamente amata anche dal padre; ma su questo Damien Lobo non intende indugiare mentre racconta al suo alter ego immaginario le proprie vicissitudini, nel corso di una trasmissione televisiva che è in onda, anch’essa, solo nella sua testa.
È con grande sollazzo, accompagnato da scroscianti applausi di un pubblico virtuale, che Sergio O’Kane – proiezione mentale di Lobo – accoglie i racconti del protagonista sulle sue incursioni nella pornografia asiatica quale conseguenza naturale della fissazione per la sorella cinese, finché l’autore delle confessioni (nonché del suo intervistatore e della claque che ne scandisce le battute) non si stufa per la trivialità delle proprie invenzioni e scaricato l’interlocutore, oramai reo di troppa volgarità, ne sceglie un altro, che – sempre nella sua testa – entrerà in competizione con O’Kane, cedendogli, ogni tanto, qualche minuto di ritorno alle fantasie più indecenti.

Mentre si compie questo passaggio, ovvero mentre insoddisfatto delle sue proiezioni mentali Damian Lobo provvede a una ulteriore dissociazione della sua psiche, la frustrazione per il licenziamento si traduce in una azione fino a un minuto prima impensabile: ruba un fermacravatte d’oro in un centro commerciale. L’oggetto porta le iniziali del suo alter ego e questo è quanto basta a infilarselo in tasca, poi Damian Lobo se ne va cercando di non dare nell’occhio; ma alla periferia del suo sguardo si materializza un addetto alla sicurezza, perciò Damian scappa, e imbattutosi in un armadio – anch’esso esposto per la vendita – ci si infila dentro intenzionato a svignarsela subito prima dell’orario di chiusura.

Il mobile, tuttavia, è stato comprato, e proprio un attimo prima che Lobo metta in atto il suo piano di fuga viene caricato, con l’ospite al suo interno, e recapitato alla inquilina di una villetta perferica, sposata con figlia, che alla fiera lo aveva individuato come l’armadio della casa dei nonni in cui aveva passato la sua infanzia. Per Damian non c’è più scampo: di lì poco a poco comincerà a calarsi convintamente nella sorte che gli è capitata e alla quale velocemente si adatta. Ricava una nicchia profonda nell’armadio e vi si accomoda, uscendo dal suo nascondiglio non appena la coppia abbandona la casa per andare a lavorare. A lui, uomo abituato a mettere ordine e porre riparo dove qualcosa non funziona, l’aspetto della casa nella quale è capitato appare insostenibile: si arrotola dunque le maniche e lava, stira, aggiusta, spolvera, rigoverna la cucina. Così ogni giorno, finché la padrona di casa ipotizza la presenza di uno spirito benefico, e avvia con lui un ammiccante dialogo mentale.

Poi, un giorno, la donna parte per visitare la madre e mentre è via lo sqallido maritino, che è proprietario di un negozio di giochi elettronici, introduce nel suo letto la commessa. Damian Lobo, acquattato nell’armadio, ascolta i loro miagolii erotici, e fra un amplesso e l’altro il piano di lei per far fuori l’ingombrante mogliettina. Prenderà i suoi provvedimenti, è un uomo ingegnoso e a suo modo leale, una volta di più saprà come mettere a posto le cose. Quanto a Millás, la sua felicità narrativa è tale che può permettersi persino un happy ending, a coronamento di un intreccio che non teme di esibire la sua vocazione alla leggerezza, realizzata peraltro con una scrittura impeccabile.