«Il mio tentativo non è riuscito, ma non sono venute meno le ragioni che lo hanno ispirato». E alla fine, dopo più di un anno di offerte e ripensamenti, di stop and go, di aperture entusiastiche e improvviso arroccamenti permalosi, Giuliano Pisapia batte in ritirata: nessuna coalizione con il Pd, almeno non in suo nome. Lo ha deciso ieri alla fine di una riunione drammatica al Centro Cavour, a Roma, andata avanti fino a metà pomeriggio. La tardiva presa d’atto che lo ius soli non diventerà legge in questa legislatura, che la maggioranza ha paura anche di portarlo in discussione in aula è stato il colpo finale di una trattativa, quella con il Pd, anemica e stentata sin dall’inizio, nonostante la propaganda di rito. Niente ius soli, «impossibile proseguire il confronto», dice alla fine Pisapia. Il capogruppo al senato Luigi Zanda continua nel minuetto delle ipocrisie che il Pd ha portato avanti fino alla fine: «Sia il fine vita che lo ius soli sono stati calendarizzati per l’aula del Senato, come auspicato da Campo progressista, su iniziativa del Pd, con l’obiettivo di farli approvare nelle prossime due settimane». Ma ormai nessuno più ci crede.

Ironia feroce della sorte, Pisapia annuncia il suo no a Renzi nello stesso giorno in cui anche Angelino Alfano, l’alleato più indigesto per gli arancioni, decide di non candidarsi. Leva un problema ai dem, ma ormai è troppo tardi.

Da Campo progressista i segnali di allarme verso il Nazareno erano stati parecchi nelle ultime ore. Ma Piero Fassino, l’ambasciatore di Renzi, aveva risolto «con pacche sulle spalle» e confidato in un happy end che sembrava già scritto. Poi nella giornata di martedì anche Lorenzo Guerini e Ettore Rosato erano stati informati del piano inclinato che era stato imboccato al lato sinistro delle trattative. Infine Renzi.
E Renzi si mette in moto in effetti. Ma solo ieri nella tarda mattinata, quando da dentro l’assemblea arrivano le prime voci della rottura che si sta consumando. Il segretario telefona all’ex sindaco di Milano e manda sms a molti dei presenti. Così fa anche il presidente Paolo Gentiloni.

Perché se Atene piange, anche Sparta non ride. Se per Pisapia la ritirata è una figuraccia senza aggettivi – persino Bersani, invitandolo a unirsi a Liberi e uniti, ricorda impietosamente che l’ipotesi di un accordo con il Pd presentava «già in partenza dei problemi difficilmente superabili» – per il Pd siamo alla Caporetto della coalizione prima ancora del giudizio degli elettori. Resiste la lista dei moderati di Casini e Lorenzin, ma con i radicali italiani di Emma Bonino le trattative sono ancora per aria: sono in rivolta per l’eccesso di firme da raccogliere per una presentazione autonoma. Campo progressista invece non si schiera con Renzi. Restano fedeli all’idea dell’alleanza i Verdi, i centristi di Tabacci e alcuni ex Sel come Luciano Uras, Michele Ragosta, il sindaco di Cagliari Zedda. Ma in queste condizioni la agognata «benedizione» di Prodi diventa un miraggio.

Renzi va in pressing sui vicinissimi a Pisapia, fa sapere di aver già convinto Massimiliano Smeriglio. Che però frena: «Prendiamo atto della decisione di Giuliano, il Pd non ci ha mai preso sul serio. Ma adesso fermiamoci a riflettere». Dal Nazareno giurano che «perlomeno ora c’è chiarezza» e che «si va avanti». «Il Pd avrà comunque una forza alla propria sinistra e una al centro in coalizione. Ci presenteremo in tutti i collegi e supereremo il 30 per cento in tutti i collegi», cerca di alzare il morale la sottosegretaria Maria Elena Boschi. Ma la realtà dei fatti è un’altra: la gamba di sinistra della coalizione si sgretola e il Pd resta un partito di centro che guarda a destra.

Stamattina la riunione di Campo progressista, o di quel che ne resta. L’area nel frattempo si è fatta in tre: quelli che «con il Pd a prescindere» e che accusano gli altri di «tradimento» e di «lavorare per una poltroncina», come Michele Ragosta; quelli che propongono una pausa di riflessione (come Smeriglio); e infine quelli che da settimane si sono avvicinati alla presidente Laura Boldrini, che a sua volta prepara il suo sì a Grasso.
Non che il rientro «a casa» con gli ex sia in discesa. Nella lista «Liberi e uniti» ormai ci si avvicina al momento della stretta delle candidature, il momento peggiore per dimostrarsi generosi. A Radio Radicale Pier Luigi Bersani spalanca le porte al figliol prodigo: «Noi abbiamo preso una strada chiara, per tempo e ci teniamo molto aperti, anche a Pisapia».

Ma da Sinistra italiana trapelano toni e accenti diversi: «Prendiamo atto che l’esito di questa vicenda dimostra che avevamo ragione e che quello di Cp era un progetto campato per aria. Se ora qualcuno di loro vuole sostenere la lista di Liberi e uguali ben venga». Non è precisamente un «bentornati compagni».