Se c’era ancora qualche dubbio sulle caratteristiche pop- politiche di Matteo Renzi, è stato dissolto dalla sua comparsa in veste di conduttore nel documentario in onda sabato sera, per quattro puntate, su canale ‘Nove’ e dedicato ai luoghi e alle storie dell’arte fiorentina. Ma in Firenze secondo me, (titolo del documentario), il conduttore più che l’arte sembra promuovere se stesso, con un talento innato che bisogna riconoscergli, anche se deve guardarsi, come sempre gli accade, dagli eccessi di cui al solito rimane vittima. Come anche in questo caso: eccesso di battute, piacioneria, riferimenti diretti e indiretti alla sua vicenda politica e familiare. Come per esempio insistere su un quadro del Botticelli, La Calunnia, presentato come assai moderno perché parlerebbe delle fake news, ma sottotraccia si capisce che pensa a babbo Tiziano.
Renzi e la tv sono una coppia indissolubile. Quando era al vertice del consenso è stata la sua arma più forte. Anche perché era proprio il piccolo schermo il mezzo in fondo più adatto ad esaltare molti dei connotati della sua comunicazione: gestualità, narcisismo, gag, abbigliamento. La sua stessa leadership, sia l’ascesa che il declino, si sono costruiti soprattutto nei formati del piccolo schermo. Più ancora che con Berlusconi. In questo Renzi è stato un pioniere, e ha fatto indubbiamente da battistrada ai leader oggi al potere.
Tornando al programma, che Discovery ha messo in onda dopo il rifiuto di Mediaset, in un primo tempo interessata (sic transeat gloria mundi!), l’ex premier in versione Alberto Angela, aveva come concorrente, in onda in contemporanea sulla Terza rete, un Augias impeccabile che raccontava Londra con un dire sontuoso. Senza mossette.