«Il futuro è una pagina bianca». È il massimo che Matteo Renzi concede ai suoi critici, interni ed esterni al Pd. Un’immagine, la storia ancora da scrivere. E una promessa, che però è la stessa sentita quando, sconfitto nel referendum, promise di «passare dall’io al noi». «Non sarà una leadership solitaria, anche questa è una pagina bianca», dice nella sua relazione alla direzione. Sulla trama della storia però non si discute. E non si cambia. Non accetta «abiure» il segretario, e considera tali le richieste di modificare la rotta. «Si può migliorare, non rinnegare». Vale innanzitutto per il lavoro (Jobs Act) e per l’immigrazione (linea Minniti), cioè i due punti di attacco della minoranza interna e di chi all’esterno ancora crede a una svolta possibile. «Svolta» è parola che non esiste nel racconto renziano. E se pure si apre una pagina bianca, le premesse sono tutte già scritte. Nel libro citato come un breviario. «In un capitolo di Avanti ho già spiegato che non voglio fare il Macron italiano». Renzi si cita per rassicurare.

Eppure è costretto a fare l’elenco delle piccole sigle con le quali il Pd può cercare un’alleanza elettorale. «I Verdi, Italia dei valori, i radicali», partiti che la foga rottamatrice a vocazione maggioritaria neppure nominava. Deve poi voltarsi a sinistra: «Vogliamo il dialogo in primis con Campo progressista (Pisapia) e non poniamo veti neppure nei confronti di Mdp, Sinistra italiana e Possibile». Figurarsi veti al centro: «È cruciale che sia coinvolta l’ala centrista che altrimenti rischia di essere risucchiata nel centrodestra».

La disponibilità alla coalizione dovrebbe essere la novità della direzione. Annunciata, arriva assai poco credibile. La sfilata delle sigle – anche se Renzi ha visto i radicali italiani e il segretario Magi parla di un percorso aperto – non sostituisce il vuoto di iniziativa politica. Anzi, quando il segretario fa una mossa sembra una provocazione. Per trattare con la sinistra di Campo progressista e Mdp indica Fassino, dirigente attualmente senza incarico ma assai poco adatto per condotta politica e caratteriale a fare pace con Bersani e D’Alema. Non sono passati venti giorni da quando ha definito la scissione «senza senso» e i suoi antichi compagni in preda a «una regressione politica». E infatti la scelta di Fassino viene vissuta come una provocazione da Mdp. Che tiene alzati i ponti. «Tutti ameremmo avere una coalizione larga – è la replica di Bersani – ma chiamarla e dire che abbiamo fatto tutto bene non sta in piedi».
Del resto non è a quella sinistra che Renzi si rivolge sul serio. Ma a Pisapia, fronte dal quale si replica con più prudenza. Non però con maggiore entusiasmo di Bersani. Rispetto alla disponibilità di Campo progressista, che l’ex sindaco domenica scorsa aveva legato ad alcune richieste, non arrivano risposte chiare. Non sulla manovra economica, una generica disponibilità «nei limiti di quanto è possibile fare». Non sullo ius soli: «Cercheremo di farlo senza creare difficoltà alla chiusura ordinaria della legislatura», chiarisce Renzi. Che significa: la cosa più importante è chiudere al più presto la legislatura. E non è piaciuta a Campo progressista neppure l’insistenza – si direbbe fuori tempo massimo – di tenere legato al Pd Alfano, alleato che invece Pisapia considera improponibile. Il senso puramente tattico dell’apertura a sinistra di Renzi lo spiega bene anche il coro dei renziani. Un minuto dopo il discorso del segretario già scaricano sui bersaniani la responsabilità della rottura «unilaterale».

I numeri della direzione Pd sono quelli stabiliti dalle primarie e quindi nessun problema per il segretario. Si astengono solo gli orlandiani, mentre Franceschini dà un’altra spinta verso il burrone: «Un applauso convinto alla relazione di Renzi che apre alla costruzione di un’alleanza di tutto il centrosinistra». L’unica apertura, invece, sta nel fatto che il segretario ha rinunciato a insistere sulla legge anti vitalizi, che del resto non ha i numeri nel gruppo Pd al senato. Per questa omissione però è stato subito attaccato dai 5 Stelle.

Neanche rispetto ai grillini, il segretario intende cambiare strategia. Li considera «sopravvalutati» dai sondaggi e battibili grazie al Rosatellum che privilegia la gara nei collegi. Almeno questo è quello che dice. Eppure un ridimensionamento delle ambizioni appare evidente, quando spiega che l’obiettivo del Pd è «essere il primo gruppo parlamentare». Niente più 40%, insomma, né ambizione a governare da soli. Ma la premessa alle larghe intese che il ministro Orlando vede con terrore: «Prego ogni sera perché non si debba scegliere una maggioranza con Berlusconi». E allora propone: «Io preferisco non essere il primo gruppo, ma stare nella coalizione più grande». Servirebbe però una coalizione.