Difficile trovare le parole per Rio, a meno che non ci si limi alla patina delle cartoline. D’altro canto, anche quando nel 1502 i primi europei sbarcarono qui, lo spettacolo deve averli disorientati. Nell’imbarcazione portoghese che attraccò su una delle spiagge oceaniche oggi chiamate Copacabana o Ipanema i primi colonizzatori diedero a Carioca (da kara’i oka, nel linguaggio indigeno casa dei carijó, popolazione nativa) il nome Rio de Janeiro, fiume di gennaio.

La dicitura riprende il mese del loro arrivo e l’unico elemento naturale che manca a questa città. Il grande corso d’acqua che sfocia nell’oceano, scambiato per fiume, è infatti una baia. Ciò non sminuisce certo questo luogo baciato dal mare, che contiene un grande lago e un’immensa foresta, piccole isole rocciose che spezzano la linea dell’orizzonte, e spazi piani fittamente punteggiati di ripidissime colline di pietra. Le due più alte sono colonizzate col famoso Cristo Redentor e una funicolare turistica. Il resto delle cime è invece stato conquistato da os pobres, che ne hanno fatto abitazioni e grattacieli naturali.

GRANDI CONTRASTI

Tutte le città sono territori in tensione, le loro pietre sono pregne della memoria di continue contese. Sin dalle antiche polis Platone parla delle città come campi di conflitto tra ricchi e poveri. Ma se oggi il pendolo di questa lotta millenaria tende dalla parte dei primi, coi secondi spesso relegati nelle periferie o ghettizzati, Rio racconta un’altra storia. Un contrasto non risolto, più che mai attuale. La costante spinta dei poveri all’appropriazione di parti centrali è una lotta aperta. Nelle favelas vive il 22% della popolazione (quanti gli abitanti di Roma). Basta uno sguardo per vedere il contrasto tra le colline ricoperte di case auto-costruite e le parti basse della città fatte di grattacieli e palazzi. Lo si comprende alla collina Providência, la favela più antica, dove i bambini giocano tra squadre di polizia militare coi fucili spianati. Si chiamano, involontaria ironia dal sapore orwelliano, Unidade de Polícia Pacificadora. Forse è anche per questo che è difficile trovare le parole adatte per Rio: c’è bisogno di concetti divisi, esagerazioni, di tagli.

Gli antichi romani insegnano: è possibile «fare il deserto e chiamarlo pace». Aggirandosi per Porto Maravilha quando, in queste giornate di inverno tropicale, cala presto il buio, si rimane colpiti dall’assenza di persone.

Nessuna traccia dei vecchi abitanti. L’area è al centro del più grande progetto di «rigenerazione urbana» di tutta l’America Latina.

Le nuove architetture firmate da archistar hanno fatto da sfondo alle Olimpiadi del 2016 e accompagnato il decennio di globali risvolti a Rio a partire dai Giochi panamericani del 2007, il lungo decorso del wannabe gobal city col quale, dice Humberto, Lula «ha venduto Rio al mondo».

Luiz mi spiega che questo «sogno» ha iniziato a costruirsi da quando nel 1994 venne introdotta una nuova moneta per stoppare l’inflazione impazzita. «La stabilità così acquisita ha consentito di pianificare una dimensione futura prima impossibile», poi «il petrolio ci ha portato tantissimi soldi», e quindi «si pensava che si potesse fare tutto»: si inizia a progettare il salto. «Girava davvero molto denaro, il problema è che oggi non ce n’è più». La crisi che attraversa il Brasile secca lo sviluppo urbano con gli steroidi che hanno gonfiato la città. O meglio: la crisi c’è già da anni, segnalata dalle piazze del 2013. Ma la vetrina internazionale era servita a nasconderla.

«Oggi stiamo abitando le macerie del sogno che ci hanno venduto per anni, ma è stata solo una grande economica del saccheggio. Il Parco olimpico dopo aver chiuso è rimasto deserto e decadente» dice Alexandre. Un po’ come il Maracanã, che per i costi di manutenzione insostenibili è all’abbandono.

LA FUNICOLARE

Incontro Roberto, attivista nero per i diritti lgbtq e all’abitare, ai piedi di Providência, poco oltre la funicolare per la cima della collina. Per costruirla hanno sgomberato decine di famiglie e abbattuto molte case. Ma la funicolare ha funzionato solo pochi mesi, mi dice con un sorriso amaro mentre chiacchieriamo in un capannone col tetto di lamiera mezza accartocciata sotto al quale vivono sei famiglie che hanno eretto, con pochi materiali di fortuna, una provvisoria abitazione. Di fianco c’è un edificio per feste Funk, tipica musica della favela. All’interno, si sentono rumori di seghe e saldatori. Stanno costruendo grandi scheletri di tubi su basi a quattro ruote: le strutture dei carri per il futuro carnevale. La sua organizzazione è una delle principali attività delle favelas durante tutto l’anno.

Lo capisco quando una notte incontro un bloco con una netta maggioranza di donne, negro blanco e mestizo. Una pazza orchestra di strada di centinaia di persone che si muove facendo le prove (in anticipo!) per il carnevale. Fiati timpani tamburi acrobati canti percussioni coordinati da un fischietto. Il coinvolgimento della danza sprizza un’empatia che le strade faticano a contenere. Gizela: «queste attività sono una rivalsa», fino a pochi decenni fa il samba o la capoeira, espressioni della cultura popolare e dei neri («non dei poveri! Noi siamo impoveriti. Non siamo marginali, ma marginalizzati, non siamo criminali, siamo criminalizzati!») erano vietate. Questa sonorità accompagna la vita di molte comunità, fino a trasformarsi in tripudio collettivo nel Carnevale (quando il Comune distribuisce gratiscinque milioni di preservativi).
Incontro il presidente dell’ente che gestisce il progetto Porto Maravilha. «Sa che molte iniziative analoghe hanno prodotto debito pubblico e spazi solo per turisti, al prezzo dell’espulsione dei ceti popolari?». «Non conosco gli altri progetti simili a livello globale, e sì, quel rischio esiste»… La maggior parte delle rimozioni nella metropoli sono state promosse per fare spazio a nuovi circuiti di trasporto. Muoversi ora è semplice se si hanno soldi e si vive nelle aree che Rolando chiama «la bolla», le zonas sul, dall’oceano a downtown. Qui però arrivano ogni giorno due milioni di lavoratori in treni sgangherati e affollatissimi, dove a volte bisogna abbassarsi per schivare i proiettili.

Rio funziona come una spugna, assorbendo persone di giorno per rilasciarle la sera. Le più povere trascorrono le notti all’aperto, tornano a casa solo il week end. Le due metropoli in cui è divisa Rio. Non è un caso che proprio sui trasporti si legittimi la militia, paramilitari che controllano molte favelas, gestendo piccoli bus e i moto-taxi. X, poliziotto della Polícia Civil: «Il punto è che militia e Upp sono la stessa cosa. La militia rappresenta il governo, sono gli imprenditori delle favelas. Controllano i traficantes, gestiscono i trasporti e il real estate delle favelas, le forniture di gas…».

A Rio la costitutiva molteplicità dei punti di vista che caratterizza le città esplode in una miriade di frammenti. Nella sede del municipio c’è una mostra sulla cultura black con un ritratto di Malcom X, fuori un homeless nero accasciato in un angolo.

Da un appartamento borghese sui promontori di Gloria degli accademici fumano marijuana guardando la favela sulla collina opposta, commentando il problema del trafico nella favela . Sono i «comunisti Nutella», la sinistra cool. Si passa per zone hipster a Botafogo o per localini e atelier artistici della favela gentrificata di Santa Teresa, nei morbidi paesaggi ricchi di Leblon, nelle distese di mattoni con botti blu per contenere l’acqua sul tetto di Marée. Il palazzo della Petrobras, fatto di vuoti e tagli, un grattacielo di vetro che riflette i colori di una favela. La curva di Copacabana sembra quella degli occhi di una donna che raccoglie mozziconi per strada, mentre la piazzetta europea di Laranjeiras si riempie di universitari per l’aperitivo. Una mendicante mulatta passa sotto i cavi elettrici che serpeggiano sulle strade attraversate da frotte di taxi, vicino a ragazzi gangsta con tatuaggi e magliette del Flamengo e professionisti bianchi in smoking e ventiquattr’ore.

CLASSISMO DA SPIAGGIA

A Providência, alla fine di una scalinata ripidissima e variopinta, una donna nera sale sul tetto della sua casa inerpicata in cima alla collina. Smuove un panno steso al sole. Provo a guardare col suo punto di vista: si vedono tutti i grattacieli, il Cristo e l’oceano. Uno spettacolo, la vista dal grattacielo dei poveri. La metropoli incendiata dal tramonto si accende di energia elettrica in una sostituzione secca e mozzafiato, le luci oscillano creando un movimento magnetico che ispira il silenzio. Giù si vede la baia non balneabile per l’inquinamento, da qui le onde illuminate dai fari delle spiagge sembrano ferme come un quadro. Le promesse olimpiche contemplavano una mai avvenuta bonifica, atto profondamente ingiusto. Gabriel mi spiega che le spiagge non sono ancora state racchiuse e separate per le diverse classi sociali, sono le vere piazze, i luoghi più democratici di Rio.

I punti di vista di Rio, dunque. Infiniti brandelli. Tra loro non equivalenti. Disposti in gerarchie, composti come geroglifici terremotati. Ana Paula: «non vorrei risultare una sciocca donna bianca middle class, ma preferirei davvero tu non andassi in certi posti». Adriano mi racconta che è stato rapinato da ragazzini che ti puntano la pistola in faccia, ma sempre Ana spiega che è della polizia che bisogna avere più paura. O Globo aggiorna sul numero di poliziotti uccisi: oltre 100 da inizio anno a Rio, uno ogni 57 ore. André dice però di guardare «dentro la notizia»: molti non sono morti in servizio, ma in una delle attività sottaciute: la vendita di armi. Quando qualche banda scopre che un poliziotto le dà a un gruppo avversario, lo uccide. Ma per ogni poliziotto ammazzato c’è una rappresaglia di 1 a 20. A voi il calcolo totale dei morti.

A Jacarezinho ci sono check point ovunque. «C’è una guerra in corso» afferma Junior.

Mi presentano un insegnante elementare di Pavuna, dicendo «lui sta al fronte». Racconta di due suoi studenti ammazzati dalla polizia. È una logica di occupazione militare del territorio quella della polizia, che rende il Brasile uno dei paesi con più omicidi al mondo (60mila nel 2016 – 154 di media al giorno, più della Siria). È il continuo «genocidio della gioventù negra e favelada», raccontano più voci. Le favelas sono tenute così, dice André, perché la classe media non vuole i suoi figli a scuola coi favelados. Ha paura che salti il confine tra favelas e il resto di Rio. César mostra la foto della Corte di giustizia: 40 membri. Tutti bianchi. In uno dei paesi più mezclados del mondo. «È uno dei lasciti della dittatura, questa democrazia autoritaria impiantata dai militari», riflette Talita. «Il razzismo istituzionale struttura la storia dello Stato brasiliano», continua César.

VIVERE E MORIRE
Lo Stato devolve più fondi alla polizia che in educazione, sanità e abitazioni. In uno di questi luoghi sotto assedio, splendidi e degradati, vedo scritto su un muro: «i ricchi chiedono la pace per continuare a essere ricchi, noi chiediamo la pace per continuare a essere vivi». Si arriva qui dopo aree residenziali con palazzi cinti da inferriate e filo spinato, l’urbanesimo-fortezza simbolo della divisione tra mondi popolari e la global class che possiede le zone pianeggianti parlando della violenza endemica come fastidioso rumore di fondo.

Rio, infine, è un quartiere pazzesco della metropoli planetaria nella quale viviamo. Riesce a contenere in forma instabile una quantità spasmodica di contraddizioni. Ha passioni forti e molto da insegnare: perché è giusto amare, nelle sue notti; perché è giusto tagliare le sue complessità in chi lotta contro le sue violente ingiustizie; fa capire perché la polizia è odiata da piazza Indipendenza a Roma fino a Jacarezinho, svolgendo lo stesso ruolo di schiacciare le povertà, tentando di cancellare lo sguardo molteplice dal volto delle città.