La nostalgia di un sogno per il futuro che si sente sconfitto prima di essere espresso, il confronto sbilanciato per costituzione tra la monumentalità di opere che sfidano il passare del tempo e la fragilità dell’uomo, individuo di una collettività che finirà per soccombere, nonostante lo sforzo e l’affanno tra un presente effimero e terreno e una utopica visione armonica, spudoratamente splendida e celeste. Questi alcuni temi che scorrono in Built to Last, spettacolo inaugurale della Biennale Danza 2018 di Venezia diretta da Marie Chouinard a firma del Leone d’Oro alla carriera, Meg Stuart.

Titolo non nuovo che risale al 2012 e che innesca con ciò che significa, «costruito per durare», una immediata sensazione di irrealtà: cosa mai può davvero resistere alla fine, alla distruzione, al disfacimento? Stuart, americana di origine, classe 1965, con la sua compagnia Damaged Goods (merce avariata), fondata nel 1994, lavora da anni in Europa, tra Bruxelles e Berlino, un cammino di ricerca che ha valore, certo più in sordina e soprattutto ancora in fieri rispetto a quello di maestri premiati negli anni a Venezia con analoghi Leoni alla carriera, da Pina Bausch a William Forsythe, Steve Paxton, Maguy Marin, Lucinda Childs. Un Leone che sentiamo più una scommessa aperta sul presente più che il riconoscimento di un arco artistico dall’apice già assodato.

Ma veniamo allo spettacolo. Built to Last, in scena al Teatro alle Tese, si origina dal desiderio di confrontarsi con grandi partiture musicali, «monumenti» artistici, come l’Eroica di Beethoven, affiancata a titoli quali Hymnen Region II di Stockhausen, con cui si apre lo spettacolo, e altri pezzi di compositori da Ligeti a Xenakis, Bruckner, Schönberg, Meredith Monk. Un viaggio che corre nei secoli e che scaglia i cinque interpreti-coautori della coreografia, focosi quanto disarmati, fragili, con i loro corpi volutamente differenti e tutto fuorché esteticamente perfetti, dentro la musica in un testa a testa che li stravolge.

Coreografia da «Solos and Duos» di Marie Chouinard

Un’umanità spronata dalle note all’eroismo, spinta a fare i conti con oggetti e situazioni in movimento: un tirannosauro di legno scomponibile, una sorta di planetario che ruota sopra le teste, visioni di città e stanze piene di scatole vuote da riempire (nelle proiezioni in un box di vetro): come archivieremo tutto quello che l’uomo ha fatto? La monumentalità delle nostre opere ci salverà o schiaccerà? I cinque si muovono come automi sulla musica di Stockhausen, il loro movimento ora è meccanico, ora espressionista, modern, postmodern. Come accadrà più volte nel corso dello spettacolo il viaggio tra le epoche musicali e la reazione in movimento dei cinque subisce delle brusche interruzioni, nelle quali un danzatore, uscendo da quanto accade in scena, si mette a parlare al pubblico.

Lo fa per citazioni da Beethoven, da Haydn, sue personali: «non posso dire nulla finché non ho il quadro completo». Ma la comprensione del tempo in cui corriamo sfugge e, a dispetto del titolo, la durata è a termine. Alla fine si muore. Corriamo dentro le cose, ma non le penetriamo, non le scalfiamo. Due ore di spettacolo che se fatica all’inizio a decollare, poi afferma il suo spessore interpretativo e di scrittura.

Tra gli altri  titoli visti nel primo weekend di Biennale, si interroga sulla memoria anche Radical Vitality, Solos and Duos, 150 minuti in cui la direttrice Marie Chouinard monta una collezione del suo repertorio di assoli e duetti nati a partire dagli anni Settanta. Una carrellata sterminata con titoli cult come S.T.A.B. del 1986, assolo femminile sull’impulso primigenio, animale al movimento. Sempre magistrali le interpretazioni di Carol Prieur, danzatrice musa di Chouinard, e in gran forma tutta la compagnia.

Curioso il liberatorio pezzo d’insieme, To come (extended) della danese Mette Ingvartsen su sessualità e pornografia, travolgente il flamenco rivisitato di Israel Galván in Fla.co.men. Nei giorni scorsi riflettori sul Leone d’Argento Marlene Monteiro Freitas, stasera Le Sacre du Printemps di Xavier Le Roy e, con il Cullberg Ballet di Stoccolma, Figure a Sea di Deborah Hay, nome storico della postmodern dance. Chiusura domani con la californiana Faye Driscoll e i risultati di Biennale College.