«Prima di me, solo Biscardi». In questa tragicomica frase è racchiusa la figura di Tavecchio, e delle ultime disastrose stagioni del calcio italiano, da lui a degnamente rappresentate a capo della Figc. Ottenute le sue dimissioni, ora il presidente del Coni Malagò, sfruttando la Giunta straordinaria di mercoledì, potrà commissariare la Federcalcio. E le elezioni per il nuovo presidente, che da statuto si sarebbero dovute tenere entro novanta giorni, potrebbero slittare: almeno fino a primavera, quando il nuovo Governo deciderà il da farsi. Perché su alcune cose Tavecchio ha ragione: la pressione per le sue dimissioni è stata politica; come «sciacalli», gli amici si sono negati nel momento del bisogno; se il pallone di Darmian fosse entrato, invece di finire sul palo, lui sarebbe ancora in sella.

Il fatto è che Tavecchio non sarebbe mai dovuto essere eletto la prima volta, nel 2014, quando il sistema era già in piena crisi. Eliminato al primo turno in due Mondiali consecutivi, perdeva posizioni in Champions League e, soprattutto, non reggeva il passo con altre leghe europee in termini di introiti, stadi, tifoserie, sviluppo sul territorio, produzione di contenuti eticamente ed esteticamente accettabili. Perché era chiaro fin da subito che Tavecchio era un semplice burattino, messo lì dal potere del cane che da anni tiene in ostaggio il pallone: una confluenza d’interessi, coagulata intorno al potentissimo advisor Infront, che fa di tutto perché i soldi dei diritti tv, come la polvere bianca nei romanzi di Don Winslow, rimangano l’unica risorsa a disposizione.

Tutti ne hanno bisogno: chi la muove, ha il potere. E invece, dimenticate le sue battute omofobe, razziste e antisemite, ignorati i suoi palesi conflitti d’interessi con società che fanno campi artificiali, luci per illuminare quei campi, libri pubblicati per poi essere riacquistati dalla Figc, uno scellerato Patto del Nazareno in salsa calcistica tra Malagò, Lotti (ministro, per conto Renzi) e Letta (consigliere, per conto Berlusconi) lo scorso marzo lo ha addirittura rimesso in sella. Non mente Tavecchio quando in conferenza stampa rivendica i suoi successi: dall’introduzione del Var (da cui il suo riferimento a Biscardi), al ritorno dei quattro posti in Champions, fino al sostegno ai vittoriosi Infantino (Fifa) e Ceferin (Uefa). Questo spiega la sua rielezione.

In Italia siamo sempre pronti a correre in soccorso del vincitore. Ma non può certo nascondere il declino di un intero sistema: leghe di A e B commissariate, asta dei diritti tv andata deserta, fallimenti a catena di club, stipendi non pagati e libri contabili in tribunale. Eppure, se il pallone di Darmian fosse entrato, oggi saremmo tutti qui a magnificare le sorti del calcio italiano. Come hanno fatto fino a ieri Malagò, cui nessuno chiede conto dei disastri dell’intero sport italiano, il ministro Lotti, che oggi si riposiziona tatticamente, come ieri mattina hanno fatto nel Consiglio Federale Gravina (Lega Pro) e Sibilia (Dilettanti), costringendo Tavecchio alle dimissioni. E a candidarsi per sostituirlo sono proprio loro, insieme a una variegata corte dei miracoli sempre pronta a cadere in piedi.

Come in una tragedia shakespeariana, cospirazioni e tradimenti servono solo a preservare il potere, non certo a cambiare lo status quo che regala briciole sempre più minuscole. Ecco gli «sciacalli» evocati da Tavecchio. Sacrificati i capri espiatori più accettabili, la primavera del calcio tarda ad arrivare: sulle macerie del calcio, satolli della carne dell’ennesimo cadavere, gli sciacalli sono di nuovo pronti per andare a comandare.