Il Brasile sprofonda nello stato d’eccezione. L’ennesimo strappo arriva dal decreto, firmato da Temer e approvato lunedì da Camera e Senato, con cui il governo – per la prima volta dall’entrata in vigore della Costituzione nel 1988 – trasferisce alle forze armate, fino al 31 dicembre prossimo, il controllo della sicurezza pubblica nello Stato di Rio de Janeiro.

UNA MISURA GIUSTIFICATA con la necessità di combattere il crimine organizzato, ma il cui vero scopo è stato quello di evitare il voto sull’impopolarissima riforma previdenziale – nella votazione il governo sarebbe stato sconfitto – non essendo permesso in Brasile votare un emendamento costituzionale con un intervento federale in corso.
Scongiurata, almeno in questa legislatura, una riforma delle pensioni che avrebbe avuto effetti devastanti sulle fasce più povere, l’allarme provocato dall’intervento dell’esercito a Rio de Janeiro non è però meno serio, andando a rafforzare l’idea che la via militare sia la soluzione per ogni cosa.

«Questo film – ha commentato il leader del Movimento dei lavoratori senza tetto Guilherme Boulos – lo abbiamo già visto e non è finito bene».

NON SI CONTANO, del resto, le critiche al provvedimento, considerato un nuovo punto messo a segno dallo Stato penale contro lo Stato sociale. Perché è chiaro che, premendo l’acceleratore in direzione di una militarizzazione della lotta alla criminalità, lo Stato abdica nuovamente al compito di affrontare le cause strutturali della violenza, optando invece per un brutale intervento nelle favelas, da sempre viste come uno spazio ostile semplicemente da reprimere.

Come se non fosse già bastato il fallimento della strategia di controllo del territorio messa in atto attraverso le cosiddette «Unità di Polizia Pacificatric», rivolta più a proteggere la città dalle favelas e dai loro abitanti che a garantire a tutti il diritto alla sicurezza.

Quanto agli effetti pratici del decreto ai fini di una concreta riduzione della criminalità, gli esperti concordano che saranno nulli. Anche solo per il fatto che le forze armate, addestrate per combattere i nemici in guerra, non sono preparate ad affrontare i problemi che si troveranno di fronte.
A meno, per l’appunto, di non considerare il popolo come un nemico e di volergli scatenare contro una guerra.

MA ALL’INTERNO della popolazione, rimasta sostanzialmente passiva dinanzi al golpe contro Dilma Rousseff – non ritenendo evidentemente il suo governo qualcosa che valesse la pena difendere -, inizia a farsi strada la consapevolezza della reale posta in gioco.

Perché, dopo il congelamento per 20 anni delle spese per i servizi pubblici, dopo una riforma del lavoro che ha riconosciuto valore di legge a qualsiasi accordo stipulato dal datore di lavoro con i suoi dipendenti e dopo il tentativo di smantellare il sistema previdenziale, giusto per fare qualche esempio, è diventato chiaro, come spiega il leader del «Movimento dei senza terra» João Pedro Stédile, quale fosse il vero obiettivo del golpe: consentire all’oligarchia di «scaricare tutto il peso della crisi economica sulle spalle della classe operaia».

ED È PER QUESTO che il vero scontro si gioca ora attorno alla difesa della candidatura di Lula, come simbolo di una politica a favore dei diritti del popolo, ben oltre, è chiaro, l’effettiva natura del suo governo, tutto nel segno della conciliazione di classe. Ma anche sul versante di quel «golpe dentro il golpe» promosso dai giudici contro l’ex presidente (condannato in appello a 12 anni e 1 mese di reclusione al termine di un processo-farsa), i segnali sono tutt’altro che buoni.

Per quanto – infatti – la Costituzione non preveda l’arresto prima che la sentenza passi in giudicato, il Supremo Tribunale Federale ha disposto che l’esecuzione della pena possa iniziare già dopo la condanna in secondo grado, prima, cioè, che sia concluso il ricorso a istanze superiori, dando seguito a tale controversa decisione con l’ordine di arresto immediato contro il deputato João Rodrigues, condannato in appello a 5 anni e 3 mesi per frode. Un chiaro segnale di avvertimento all’ex presidente.

E QUANTO IL CERCHIO si stia stringendo attorno a Lula, lo dimostra anche la recente dichiarazione del nuovo presidente del Supremo Tribunale Elettorale Luiz Fux, deciso a impedire anche la stessa registrazione della candidatura di chi sia stato condannato in secondo grado, permessa invece dalla legge in vigore. Tutto sempre, ovviamente, in funzione anti-Lula, ancora nettamente in testa in tutti i sondaggi.