Una sera all’anno il presidente statunitense ha a sua disposizione 90 minuti di diretta tv per raccontare al Paese dove sta andando e come, auto-incensare il proprio operato e dichiarare i propri intenti. Donald Trump questi 90 minuti, che solitamente arrivano a metà gennaio, se li è dovuti sudare: a causa del blocco delle attività governative, lo shutdown più lungo della storia Usa, si è visto negare l’uso del Congresso, dove tradizionalmente si svolge il discorso, dalla speaker della Camera, la democratica Nancy Pelosi, con cui ha un rapporto di sincero odio reciproco.

Vista la sospensione dello shutdown, necessaria per far respirare gli impiegati governativi che avevano lo stipendio bloccato, Trump ha potuto tenere il suo discorso sullo Stato dell’Unione, il primo davanti a un Congresso poco docile.

Con una platea divisa anche a colpo d’occhio, tra uomini bianchi vestiti di scuro e donne di diverse gradazioni cromatiche, vestite di bianco, il colore delle suffragette, The Donald ha invocato l’unità e l’essere bipartisan, anche se poche ore prima, in una conversazione rimasta privata solo per poco, aveva definito l’ex vice presidente Biden «un cretino» e il senatore Chuck Schumer, leader democratico al Senato, «un brutto figlio di puttana».

Tutto l’intervento è stato all’insegna della contraddizione: ha chiesto unione, ma non ha offerto aperture; ha invitato al Congresso reduci della seconda guerra mondiale ma ha parlato della Nato solo per ricordare che gli alleati europei abusano economicamente della generosità Usa; ha parlato dei pericoli che corrono i bambini se immigrati irregolari, nonostante sia stato lui a ordinare di separarli dai genitori e metterli nelle gabbie; ha promesso leggi per investire in «industrie all’avanguardia», ma ha citato solo guadagni nel settore manifatturiero, nelle esportazioni di petrolio e gas e non ha mai menzionato la parola «tecnologia», né alcun altro problema di politica tecnologica, privacy, banda larga o antitrust.

Nessuna contraddizione, invece, sui suoi cavalli di battaglia: l’Iran è il nemico mentre la Corea del Nord è il nuovo amico con cui si incontrerà a fine febbraio; il socialismo, specialmente quello americano che si sta diffondendo sempre più, va combattuto. E più di tutto il muro con il Messico va costruito ad ogni costo.

Sul muro Trump ha speso molta della retorica che ha consolidato nei comizi di questa eterna campagna elettorale che è la sua presidenza, facendo pensare che quando l’armistizio con i democratici finirà, il 15 febbraio, dichiarerà lo stato d’emergenza per sorpassare il Congresso e finanziarlo.

Anche sul Venezuela Trump non ha espresso dubbi: Maduro non è più presidente e senza di lui arriverà la democrazia, affermazione che ha suscitato qualche debole applauso anche tra i democratici, inclusa Pelosi, mettendo in luce come ancora ci siano differenze di vedute tra l’establishment del partito e la nuova onda di sinistra, da Sanders a Ocasio-Cortez, dichiaratamente non interventisti.

La tradizionale risposta dell’opposizione al presidente è stata affidata alla ex candidata afroamericana a governatore della Georgia, Stacey Abrams, diventata un’icona del partito. Abrams ha parlato di antirazzismo, ha definito lo shutdown una mossa «orchestrata solo da Trump» e sul muro ha affermato che «intese bipartisan potrebbero disegnare un piano sulle migrazioni per il 21esimo secolo, ma questa amministrazione mette in carcere i minori e li strappa alle famiglie». Ha concluso rivolgendosi alla base del suo partito: «Con un rinnovato impegno per la giustizia sociale ed economica, insieme creeremo degli Stati uniti più forti».