Resta presidente del senato per quel poco tempo che ci separa dallo scioglimento delle camere, ma si dimette dal Pd perché evidentemente mettere la faccia su questa ingloriosa pagina parlamentare è stato un prezzo troppo alto da pagare. E forse un partito così ridotto gli fa anche un po’ schifo.

Pietro Grasso, ha risposto con forza a chi, come i 5Stelle e Sinistra italiana, gli chiedeva di dimettersi piuttosto che ammettere i voti di fiducia. Ha replicato, si è difeso («può essere più duro resistere che abbandonare con una fuga vigliacca»), ma non ha potuto evitare che gli schizzi di una maionese impazzita gli arrivassero addosso. E’ una scelta dignitosa che va apprezzata, un gesto coerente per chi, come lui, recentemente si era definito «un ragazzo di sinistra».

Vedremo quali saranno le sue determinazioni. Ma qualunque sarà il futuro politico dell’ex magistrato (che ha rifiutato la candidatura per la Sicilia), queste dimissioni segnano una distanza dal pantano del Nazareno e indicano una libertà personale.

Molti deputati e senatori hanno votato questa pessima legge elettorale perché i pochi mesi che mancano alle elezioni suggeriscono più miti consigli a chi vuole essere rieletto. Pochi tra i rappresentanti del popolo hanno avuto la dignità di esprimere il loro no in aula, criticando il metodo prima ancora che la sostanza. Non hanno votato la fiducia in dissenso dal Pd, mentre chi ne era già fuori è uscito dalla maggioranza.

Singole personalità, come Giorgio Napolitano, pur votando la fiducia, hanno pronunciato discorsi di aperta polemica contro le indebite pressioni sul governo, per l’inaccettabile condizione di essere al tempo stesso chiamati a votare una delle leggi più politiche della legislatura senza avere tuttavia neppure il diritto di discuterla e di emendarla.

Altri ancora, ed è questo il caso del presidente del senato, Pietro Grasso, hanno affrontato il passaggio parlamentare mettendoci la faccia, subendo il duro giudizio dei senatori contrari alla legge, e si è visto ridotto al ruolo più del vigile urbano che dell’arbitro, destinatario di insulti e contumelie, fatto oggetto di un metaforico lancio di ortaggi sulla seconda carica della Repubblica, spinto sul palcoscenico di una rappresentazione politica con i toni della sceneggiata.

Le istituzioni escono dal tunnel della legge elettorale come protagoniste piuttosto ammaccate di un brutto spettacolo, testimonianza dello stato comatoso in cui versa il nostro sistema democratico. Che ormai si esprime con forzature successive e sempre più laceranti nelle conseguenze che produce tra eletti e elettori. La sberla del referendum costituzionale non sembra aver insegnato nulla. Lo spettacolo della fitta sequenza di voti di fiducia, inversamente proporzionale sia alla caratura della legge che hanno prodotto, sia alla credibilità del governo che l’ha imposta, lasciano sul terreno, politico e istituzionale, altre macerie.

Un giovane leader in disgrazia e un vecchio leader riciclato hanno scritto una pessima sceneggiatura mandando in scena uno schema elettorale utile a cementare le proprie alleanze, riottose ma tenute insieme con la camicia di forza imposta dal Pd al governo in nome e per conto delle future spartizioni. E pazienza se c’è una forza che rischia di essere il primo partito italiano che, proprio per questo, viene tagliato fuori perché non fa alleanze.

Una volta raggiunto l’accordo trovare il modo di silenziare il parlamento non è stato un problema.

Renzi conquista Verdini e perde Grasso. Una conclusione che esprime perfettamente la deriva di un uomo solo allo sbando.