Il racconto di Drame e Fofana, i due sopravvissuti all’agguato di San Calogero, costato la vita a Soumayla Sacko, ha prodotto un primo risultato. C’è un indagato. Nel pomeriggio di martedì, mentre il corteo della rabbia e dell’orgoglio migrante defluiva verso il campo di San Ferdinando, i carabinieri di Tropea e di San Calogero hanno notificato a un 43enne del posto, A. P., un avviso di garanzia con contestuale notifica di accertamenti tecnici non ripetibili. A emettere il provvedimento, che è mirato a eseguire sull’indagato l’esame dello stub per capire se abbia sparato di recente, è stata la procura di Vibo, guidata dal Procuratore Bruno Giordano, che coordina le indagini.

IL 29ENNE È STATO UCCISO da una fucilata alla testa sparata da lunga distanza mentre era assieme ai due connazionali nell’area dell’ex Fornace Tranquilla, una fabbrica di laterizi posta sotto sequestro per l’interramento illecito di rifiuti tossici. I due testimoni hanno riferito che a sparare sarebbe stato un uomo di carnagione chiara con una maglia scura e pantaloni grigi sceso da una Alfetta bianca, della quale avevano fornito anche le lettere iniziali della targa. La persona che ha sparato i quattro colpi di fucile da una settantina di metri, sarebbe stato già sul posto quando la vittima è arrivata nella fabbrica.

SECONDO QUANTO FILTRATO da ambienti della procura vibonese si tratterebbe del nipote di uno dei soci della ex Fornace, un agricoltore di San Calogero. Non legato ad ambienti di ‘ndrangheta, ma con alle spalle qualche precedente relativo a liti e controversie per questioni di confini e proprietà. Una testa calda, si sintetizza in ambienti investigativi, che sull’impianto avrebbe più di un interesse. Un suo parente in passato sarebbe stato coinvolto nello scandalo legato alla struttura, sequestrata dopo il ritrovamento di oltre 135 mila tonnellate di fanghi radioattivi. Gli inquirenti non formulano ancora un’ipotesi precisa, e si attendono sviluppi a breve.

INTANTO, LA VITA NEL campo procede. Nella serata di martedì il prefetto di Reggio, Michele Di Bari aveva incontrato i migranti promettendo un cambio di rotta. «Nessuno vuole la baraccopoli in questo stato, non è questa l’accoglienza che vogliamo dare. Il nostro obiettivo – ha aggiunto – è chiudere la baraccopoli, tutelare i lavoratori e la legalità». Ma le tende ci sono ancora. Quelle nuove, inaugurate meno di un anno fa, in un campo monitorato e controllato, con badge e identificazione all’ingresso, container docce e cucina. Quelle nuovissime, messe su dalla prefettura a ridosso delle prime come soluzione tampone dopo l’incendio. E quelle più nuove ancora, ricostruite dai migranti dopo il rogo doloso che qualche mese fa ha distrutto mezza tendopoli, portandosi via la vita di Becky Moses. Adesso sono in lamiera, per evitare che il fuoco se le porti via. E il rischio c’è, sempre.

ACCENDERE UN FUOCO È l’unico modo per cucinare. E costruire dei piccoli rifugi in lamiera, l’unico – spiega chi ci vive – per evitare che si propaghi. E pazienza se d’estate diventano un forno dalle temperature impossibili. La soluzione non sono gli sgomberi coatti ma l’assegnazione delle case sfitte ai raccoglitori. «Perché ci si continuano a proporre tende e tende. Quante case sfitte ci sono nella Piana? Perché il tavolo convocato su istanza dell’Usb con Inps, datori di lavoro, Regione, ispettorato del lavoro è stato disertato da molti? – si chiede Aboubakar Somahoko, il leader della protesta- Noi siamo i primi a voler uscire dalla gabbia del caporalato, creata da leggi come la Bossi -Fini, ispirate all’apartheid. Questa era la lotta di Soumayla. E questa è la lotta che anche per lui vogliamo portare avanti».