Gli anniversari sono un passaggio complicato specie se segnano l’inizio di un nuovo percorso come nel caso di questa edizione di Cinéma du Réel, con cui si inaugura la direzione di Andrea Picard, che è anche quella del quarantennale del festival parigino dedicato al documentario.
Come festeggiare dunque questi primi quarant’anni di lavoro sulla realtà, e sul suo «immaginario» senza lasciarsi intrappolare dal rito della celebrazione ma in un rapporto fertile tra il patrimonio importante legato alla rassegna e le tendenze del cinema del reale contemporanee?

La retrospettiva, «Che cosa è il reale? 40 anni di riflessione» a cura di Nicole Brenez e di Nicolas Klotz – dedicata «con amore e ammirazione» a André S. Labarthe e a Angela Ricci Lucchi, a partire dalla lezione di Jean Rouch, cofondatore del Cinéma du Réel, raccoglie dei classici sempre impertinenti – Ice di Kramer, Appunti per un’Orestiade africana di Pasolini, Cile memoria ostinata di Guzman, D’Est di Chantal Akerman … e li mette in dialogo con registi (Eric Baudelaire, Lech Kowalski, Valérie Massadian, John Gianvito …) che lavorano sul sentimento del nostro tempo, nelle cui immagini il limite del «genere» viene continuamente messo in discussione.

Questo confronto sembra anche la prima scommessa del «nuovo» Reel, che riguarda l’intera programmazione e più in generale (almeno un po’) cosa significa fabbricare un festival oggi – un festival indipendente, non troppo generalista o «grossa macchina» tipo Cannes – a fronte di una fruizione «individuale» su altri supporti sempre più estesa e a una erosione del pubblico in sala. Ovvero: i film, con un buon programma internazionale (Fotbal Infinit di Porumboiu, Unas Preguntas di Kristina Konrad, Waldheims Waltz di Ruth Beckermann…) che guarda al pubblico – pure se qualche novità in più specie nel programma francese sarebbe stata meglio – e molti incontri, non «bla bla» noiosi ma un dialogo, appunto, che lascia circolare intorno all’evento idee, energie, esperienze, che permette al pubblico di scoprire metodi di lavoro, e al festival di diventare uno spazio comune di «work in progress».                                

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La situazione ideale per scoprire un lavoro altrettanto in corso quale 128 semaines au collège Dora Maar a cui Eric Baudelaire sta lavorando dal 2015, e che dovrebbe andare avanti ancora per un anno, con una destinazione finale ancora aperta – film, serie – che non sembra nemmeno la preoccupazione principale. Conta di più, per ora, mettere alla prova questo dispositivo che muta insieme ai ragazzi che ne sono al tempo stesso protagonisti e autori.

Siamo nella scuola Dora Maar a Saint Denis, dalla presentazione dell’edificio all’inizio del lavoro, aule, punti di incontro, luoghi di punizione – la detenzione la chiamano – il cortile, gli accenni alle prepotenze dei più grandi, l’entrata, l’uscita, i discorsi del preside si entra pian piano a contatto più stretto con un gruppo di ragazzini e di ragazzine che saranno i protagonisti; sembrano a proprio agio davanti alla macchina da presa, inventano dibattiti e campagne elettorali, improvvisano talk televisivi o show canori.

Si parla degli attentati al Bataclan e allo Stadio Francia, perché li hanno fatti, in che modo sono entrati nelle loro vite, cosa hanno cambiato. Una ragazzina piccola spiega che li hanno fatti perché la Francia ha bombardato la Siria e alcuni che stanno in Siria si volevano vendicare ma sono gli stessi da cui i siriani scappano. Un’altra dice di sentirsi «osservata» quando è insieme al padre che ha la barba. Siamo in banlieue, molti dei ragazzini sono africani o maghrebini, le loro frasi rimandano a quanto sentono a casa, e raccontano con precisione quel razzismo dilagante che nutre il Front national – scivolando più subdolamente nel «nuovo» di Macron.

Col tempo la vita quotidiana si fa più cinema, sono loro a tenere le digitali in mano, a scegliere cosa filmare e come. La veritè du son, che è e il materiale più recente, li mostra alle prese col suono e le sue possibilità. Questo è un film dichiara categorica una ragazzina. No, è un documentario risponde un’altra. Entrambe hanno ragione, è un film e un documentario, inventa e si confronta con la realtà senza voce-off e teste parlanti, e nemmeno selfie e youtuber.

Ciascuno diviene personaggio in un luogo e in una situazione specifica, il tempo della scuola. Ciò che le immagini mostrano però, almeno nella progressione in cui sono state proiettate nella giornata di Atelier è anche qualcos’altro: il modo in cui ognuno dei ragazzini, chi rimane nel quadro e chi ne è uscito, cambia rispetto alla relazione con la propria immagine. E non è soltanto una questione di abituarsi alla macchina da presa, le immagini parlano dei corpi, mostrano i passaggi dell’adolescenza, timidezze e spavalderie, spesso inconsapevoli. Fare cinema come crescere insieme.