Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi). Il piano massonico «sulla rinascita democratica» e la ve

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Da Gelli a Renzi

(passando per Berlusconi)

Il piano massonico sulla ÂŤrinascita democraticaÂť e la vera storia della sua realizzazione

Aldo G iannuli PONTE ALLE GRAZIE


inchieste 3 8


Presentazione Licio Gelli, capo indiscusso della P2, la più potente e controversa loggia massonica italiana, non è stato semplicemente un grande co­ spiratore, appartenente a un’epoca ormai superata. Al contrario, le idee promosse dal «maestro venerabile» sono progressivamente confluite nella cultura politica dei partiti che avrebbero governo l’Italia dagli anni Ottanta in poi. In questo saggio-inchiesta, che ri­ costruisce la parabola della P2 al di là del mero piano giudiziario o cronachistico, si mettono a nudo - attraverso un’accurata analisi della sostanza del programma gelliano - i tanti elementi di continu­ ità con la situazione attuale. Ne emerge un quadro sconvolgente: il famigerato Piano di Rinascita Democratica, sequestrato nel 1985, appare oggi come una sorta di prontuario delle «riforme» che sa­ rebbero state attuate nel trentennio successivo, e insieme un docu­ mento profetico in grado di descrivere i processi degenerativi avve­ nuti nello stesso periodo sul piano sociale, culturale e dell’informa­ zione; una lenta e inesorabile discesa verso forme di autoritarismo «dolce», che dal piduismo (attraverso il lungo intermezzo domi­ nato dalla figura di Silvio Berlusconi) conduce a Matteo Renzi e in particolare al suo disegno di riforma della Costituzione, lasciando presagire nuovi e infausti sviluppi.

Aldo Giannuli è ricercatore in Storia Contemporanea all’Univer­ sità degli Studi di Milano. G ià consulente delle Procure di Bari, Milano (strage di piazza Fontana), Pavia, Brescia (strage di piazza della Loggia), Roma e Palermo, dal 1994 al 2001 ha collaborato con la Commissione Stragi, contribuendo alla scoperta dei documenti non catalogati dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’In­ terno, nascosti in quello che poi è stato definito come l’«archivio della via Appia». Per Ponte alle Grazie ha pubblicato: Come fun­ zionano i servizi segreti (2009), 2012. La grande crisi (2010), Come i servizi segreti usano i media (2012), Uscire dalla crisi è possibile (2012). Ricordiamo, inoltre, l’inchiesta Papa Francesco fra religione e politica (2013), Guerra all’ISIS (2016).


Aldo Giannuli

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P O N T E A L L E G R A Z IE


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Redazione e impaginazione: Emiliano Mallamaci Progetto di copertina: Marco Figini Art direction: ushadesign © 2016 Adriano Salani Editore s.u.r.l. - Milano ISBN 978-88-6833-629-5

Prima edizione digitale 2016 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.


Da G e l l i (p a s s a n d o

per

a

Re n z i

Be r l u s c o n i )



Introduzione L a P2 fra letteratura, cronaca giudiziaria e storia

La P2 è stata certamente la loggia più importante della storia della massoneria italiana in epoca repubblicana e ha avuto un ruolo di primissimo piano nelle vicende politiche del no­ stro Paese fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta. Essa è, forse, l’organizzazione più controversa della storia della Prima Repubblica. Basti elencare alcuni dei casi in cui, direttamente o indi­ rettamente, è stata coinvolta come loggia o per il tramite del suo maestro venerabile o ancora per il ruolo svolto da suoi componenti di rilievo: -

il golpe Borghese; la strage dell’Italicus (1974); il golpe «bianco» (1974); il crac Sindona; il caso Bergamelli-OMPAM e l’omicidio Occorsio; il caso Moro; la morte di Giovanni Paolo I e il relativo Vatican Connec­ tion; - l’omicidio di Piersanti Mattarella; - la strage di Bologna e la connessa opera di depistaggio (caso super SISMI)


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- il caso conto «Protezione»; - il caso RCS - Bruno Tassan Din; - il crac del Banco Ambrosiano e la connessa morte di Ro­ berto Calvi; - l’omicidio di Mino Pecorelli; - l’omicidio di Olof Palme; - lo scandalo ENI-Petromin; - il caso Teardo. Senza dire di altri casi di traffico d’armi, di corruzione po­ litica, ecc. Si tratta di un elenco sicuramente incompleto, ma sufficiente a dare una idea del lato oscuro di questa organiz­ zazione. Va detto che, dai relativi processi, gli uomini della P2 (e in particolare il suo maestro venerabile) sono perlopiù usciti prosciolti, ma spesso con formule dubitative, oppure per l’intervento della prescrizione. In altri casi ancora, sono stati condannati imputati non appartenenti alla loggia (ad esem­ pio, per la strage di Bologna), oppure è stato riconosciuto il coinvolgimento di membri della P2 relativamente a un pe­ riodo successivo allo scioglimento della organizzazione. Tracciare una mappa delle vicende giudiziarie in qualche modo connesse alla P2 e ai suoi componenti richiederebbe uno spazio che qui non abbiamo e, soprattutto, poco ha a che fare con l’analisi che intendiamo svolgere. Infatti, questa centralità dell’aspetto giudiziario nella vicenda P2 ha avuto la conseguenza di distrarre dall’aspetto più politico della stessa e quindi dall’esame del suo lascito culturale. Ovviamente, gli elementi inquietanti dell’azione della P2 sono emersi con evidenza, e malgrado ciò riteniamo che non sempre le sentenze assolutorie abbiano chiarito i fatti. Tut­ tavia, non è di questo che ci occuperemo nelle pagine che seguono, preferendo concentrarci su altre dimensioni della vicenda. 8


Introduzione. La P2 fra letteratura, cronaca giudiziaria e storia

Sul piano storico, il problema del ruolo svolto dalla P2 negli anni Settanta resta tutto da risolvere. Ci sono stati pe­ riodi dell’Italia repubblicana in cui la P2 ha avuto un certo peso, ma privo di rilievo penale. In questa ottica, dunque, essi non sono stati oggetto di ricostruzione da parte degli storici. Ci riferiamo, ad esempio, alla costituzione di Demo­ crazia Nazionale, alle vicende interne al PSI, alla formazione del sistema di emittenza televisiva ecc. Sin qui, i testi dedicati alla P2 e a Gelli si sono divisi nettamente fra un’area minoritaria di autori schierati a di­ fesa della loggia1 e una ben più abbondante area ostile alla stessa,2 la quale l’ha indagata come soggetto criminale piut­ tosto che come soggetto politico. Poche le eccezioni.3 Chi scrive queste pagine non è certo un difensore della P2, su cui, in altra sede, non ha mancato di esprimere giu­ dizi aspramente negativi. Tuttavia pensiamo che, dopo trent’anni di processi penali, commissioni parlamentari, in­ chieste giornalistiche ecc., le quali hanno giustamente pri­ vilegiato il dark side della vicenda, sia arrivato il momento di lanciare uno sguardo d’insieme su di essa per coglierne gli aspetti più propriamente politici. Per cui soffermeremo la nostra attenzione sulla cultura politica della P2 e sul pro­ getto di rifondazione dello Stato avanzato dalla loggia, sul contesto politico in cui essa nacque e sul suo lascito cultu­ rale, che incide ancora oggi. Questo studio vuole essere una retrospettiva storica sulla P2 al di fuori da una dimensione, per così dire, complottistica.Il

Il progetto della P2 e il suo lascito Le critiche della repubblica parlamentare e le proposte di passaggio al presidenzialismo sono precedenti alla forma­ zione della P2, in quanto si manifestarono già sul finire degli 9


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anni Cinquanta. Nessuna di esse, però, superò mai la soglia delle riflessioni di singoli studiosi o, al massimo, di movi­ menti ultra-minoritari, privi di incidenza reale.4 Fu la P2 a trasformare quei conati presidenzialisti in opzioni politiche concrete e capaci di influenzare il dibattito istituzionale. Nella vulgata corrente, si identifica quel progetto nel Piano di Rinascita Democratica (d’ora in poi PRD), scritto nel 1976 ma che emerse solo nel 1981 e venne accolto come la riprova della vocazione eversiva della loggia. Per la ve­ rità, si tratta di un testo più citato che letto e conosciuto, e ci sono altri documenti, forse ancora più espliciti, che, insieme al PRD, formano un unico contesto documentale: il discorso introduttivo alla riunione del 5 marzo 1971 (che conosciamo attraverso il resoconto fattone da Gelli al gran maestro Lino Salvini), il Regolamento organizzativo della P2 approvato il 12 ottobre 1971, lo «Schema R» del 1975, ossia l’immediato antecedente del PRD, cui, ovviamente, vanno aggiunte le successive dichiarazioni ed interviste dello stesso Gelli. Questo blocco va inserito nel contesto storico cui appar­ tiene, distinguendo nettamente i due periodi di vita5 della P2: il primo va dalla conquista della loggia da parte di Gelli al 1974; il secondo va dal 1974 allo scandalo del 1981, che avrebbe portato allo scioglimento dell’organizzazione. Oc­ corre inoltre considerare il periodo posteriore nel quale l’in­ fluenza della cultura politica piduista sopravvisse giungendo sino ai nostri giorni, pur fra contaminazioni e modificazioni imposte dal trascorrere del tempo e dalle evoluzioni della lotta politica. Questo non significa che ci sia stata un’unica trama oc­ culta, durata trentacinque anni, che, forse, ora sta trovando coronamento: è probabile invece che diversi dei principali attori di questa trama non siano stati neppure coscienti, del tutto o in parte, del suo svolgimento di lungo corso. Ciò che ci preme affermare è che la questione non va posta in termini 10


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«complottistici»: semplicemente, c’è una cultura politica di fondo che accomuna quell’antico progetto e le iniziative di revisione costituzionale che si sono succedute sino ai nostri giorni. Paradossalmente, la centralità dell’aspetto penale, che (come abbiamo detto) ha fatto scivolare sullo sfondo quello propriamente politico, ha nel contempo indebolito l’azione di contrasto alla cultura piduista, la quale si è avvantaggiata di questa disattenzione. Per quasi trent’anni, ci si è esercitati nella ricerca di punti di contatto fra le proposte contenute nel PRD e quelle avanzate dai soggetti politici che si vole­ vano delegittimare:6 si è trattato di un esercizio tanto sterile quanto inefficace, considerato che non basta dimostrare l’e­ sistenza di qualche punto di contatto fra due diversi discorsi politici per decretarne con ciò l’identità, l’affinità o la deri­ vazione (peraltro, può benissimo capitare che il soggetto più squalificato dica ogni tanto una cosa condivisibile). Per non urtare le suscettibilità altrui, riporto un esempio che mi riguarda personalmente: nello «schema R», è conte­ nuta la proposta di abolizione del servizio di leva (poi effetti­ vamente realizzata dal governo D ’Alema nel 1998). Ora, nel 1989 fondai una lega per l’abrogazione del servizio militare e pubblicai un libro in proposito (L’ultima corvée, Edizioni Associate, Roma, 1990), eppure posso affermare, senza ti­ more di essere smentito, di non aver mai avuto nemmeno la più lontana affinità politica con Licio Gelli o con Massimo D ’Alema e di aver sostenuto l’iniziativa in questione con mo­ tivazioni diametralmente opposte a quelle che animavano la P2. Dunque, le occasionali convergenze non sono sufficienti a stabilire la coincidenza fra due posizioni politiche. Di fatto, l’atteggiamento inquisitorio, giustissimo sul piano del giornalismo di indagine o della battaglia politica contingente, risulta poco utile sul piano storiografico. Una storia della P2 a tutto tondo, che tenga cioè conto delle sue 11


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molteplici facce, deve ancora essere scritta, e questo libro non intende colmare tale lacuna.

Il libro che state leggendo Dunque, in questo libro non troverete scoop relativi alla vicenda della P2, all’azione di Gelli dopo il suo ritorno in Italia, o tantomeno alla folgorante carriera di Matteo Renzi (altro nome che figura nel titolo), passato in soli quattro anni dalla poltrona di serie C del comune di Firenze alla poltro­ nissima di Palazzo Chigi. Non è di tali argomenti che ci interessa parlare, in giorni in cui è in questione l’assetto costituzionale della Repub­ blica. Quando ci si batte su temi di tale importanza, è neces­ sario affrontare la discussione al livello più alto dello scontro politico: tutto il resto conta poco o nulla. Non troverete neppure un’analisi completa e sistematica della proposta di revisione renziana, compresi gli aspetti meno rilevanti e, per certi versi, condivisibili, come l’abo­ lizione del CNEL. Ci concentreremo solo sui punti salienti della riforma e sul modello di governo che ne viene fuori, confrontando lo stesso con il modello proposto a suo tempo da Licio Gelli. Soffermeremo la nostra attenzione sul nocciolo del pro­ blema che riguarda il rapporto fra governo e parlamento, il ruolo dell’opposizione nei processi decisionali e i meccani­ smi di controllo e garanzia della Repubblica. Marginalmente, toccheremo anche il tema del decentramento regionale. Ciò di cui più ci preme parlare è la formazione di una ege­ monia culturale che ha finito per imporsi anche a sinistra. Pertanto, tracceremo un rapido schizzo dell’evoluzione della cultura politica dagli anni Ottanta in poi, a cominciare dal de­ clino della centralità del parlamento. Ripetiamo: non segui­ 12


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remo la traccia dei punti oscuri della vicenda P2, ma quella della cultura politica retrostante e della collocazione storica della loggia fra vecchio e nuovo anti-parlamentarismo. E molte risposte le troveremo nel contesto storico del tempo, non solo italiano ma anche esteso al mondo occidentale.

Centralità del governo o del parlamento Non se ne abbia il lettore non specialista se lo conduciamo lungo le vie di un excursus storico abbastanza lontano nel tempo: spesso nodi di grande attualità vengono sciolti nell’a­ nalisi delle loro origini, che possono essere anche remote. Confidiamo che il lettore se ne renderà conto nel corso della nostra indagine. Centralità del parlamento o del governo? La questione è praticamente coeva alla nascita della democrazia moderna; conviene quindi fare una digressione preliminare per inqua­ drare il tema. Le premesse sono già presenti nelle quattro grandi rivoluzioni politiche che hanno segnato la moder­ nità (l’olandese del 1579, l’inglese del 1642, l’americana del 1776, la francese del 1789). Il governo rappresenta il vertice della statualità, che coordina e dirige burocrazia, esercito, polizia, giurisdizione e diplomazia. Ed è, pertanto, il contral­ tare della società civile, la quale, invece, trovò espressione attraverso il Parlamento, l’antagonista del potere regio. Ini­ zialmente, la rappresentanza parlamentare aveva solo poteri di controllo e approvazione delle leggi sulla spesa, mentre su tutto il resto era autorizzato ad avanzare petizioni. La divisione dei poteri nasce dalla contrapposizione fra re (cui appartiene il potere esecutivo) e popolo (che si esprime attraverso la rappresentanza parlamentare); fra i due guada­ gna una sua posizione terza il potere giudiziario. Il potere regio tentò a lungo, con successo, di limitare la crescente in­ 13


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fluenza della Camera Bassa (quella eletta dal popolo) con la persistenza di un senato (in Inghilterra, la Camera dei Lord) da esso stesso nominato. Man mano la Camera conquistò in via esclusiva il potere legislativo (mentre al senato restava solo un parere con­ sultivo) e, in un secondo momento, quello di esprimere la fiducia al governo. Il punto delicato da comprendere è la distinzione fra legis latio e legis executio che fonda la di­ visione dei poteri. La legge, intesa come norma generale e astratta, esige una sua caratterizzazione diversa dal decreto regio7 e fonda il principio dello stato di diritto, per il quale ogni autorità è sottomessa alla legge. Questo ha senso solo nella misura in cui la legge deriva da un organismo colle­ giale e rappresentativo (appunto, il Parlamento) e non da un soggetto monocratico, più o meno elettivo: se l’attività legislativa dipendesse dal vertice monocratico (re o presi­ dente che sia), il principio di sottomissione alla legge sa­ rebbe inoperante, perché l’interessato cambierebbe la stessa a piacimento e quando gli fosse comodo. Stiamo par­ lando ovviamente del meccanismo della legge ad personam che dovrebbe essere troppo noto per meritare qualche riga di illustrazione.8 Dunque, il primato della legge esige come sua premessa logica il primato del parlamento. E l’atto della legiferazione, nella cultura liberale, non è un atto individuale, come sa­ rebbe nel caso di una norma ottriata,9 ma il prodotto di una discussione per quanto possibile libera, senza maggioranze precostituite e che coinvolga anche l’opposizione. Dal di­ vieto del mandato imperativo al voto segreto e alle prescri­ zioni regolamentari sulla presentazione di emendamenti e votazioni per parti separate della legge (per non dire del sistema elettorale proporzionale che è la garanzia princi­ pale del primato del parlamento), si tratta sempre di norme pensate esattamente per garantire una dialettica libera che 14


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permetta anche alla minoranza di incidere efficacemente nel processo legislativo.10

La critica del sistema parlamentare, l’antiparlamentarismo e il presidenzialismo A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, andò manife­ standosi una estesa critica di destra al parlamentarismo, cui venivano rimproverate molte disfunzioni, come il carattere falsamente democratico che nascondeva solo i giochi di una classe politica orientata al proprio profitto, l’incomprensibi­ lità della dialettica interna, ridotta a puro bizantinismo, la lentezza del processo decisionale, il prevalere degli interessi particolaristici territoriali o sociali, e soprattutto l’eccessiva debolezza rispetto alle pressioni della società civile, oltre che la tendenza alla corruzione. Questo filone ideologico nacque in Francia, dove (recu­ perando alcune idee di Victor Cousin e Auguste Comte) fu soprattutto il «socialista monarchico» e razzista Maurice Barrès ad avanzare una critica organica del parlamentari­ smo. Questa fu la base teorica su cui operò Charles Maurras, fondatore del gruppo parafascista dell’Action frangaise.11 La critica antiparlamentare si estese ad altri Paesi fra cui l’Italia, dove trovò autorevoli interpreti in esponenti poli­ tici e autori inizialmente liberal-conservatori come Sidney Sonnino, Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto, Ruggiero Bon­ ghi, Luigi Palma, Angelo Majorana; essa però, via via, andò colorandosi in senso antiliberale e antidemocratico con D ’Annunzio (ma in parte anche con Alfredo Oriani), e i na­ zionalisti Enrico Corradini, Luigi Federzoni ecc. Come nel caso francese, nella svolta antiparlamentare italiana incise la corrente che richiedeva un governo forte a capo di un re­ gime militarista, imperialista e autoritario. È questo il vero 15


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humus dell’antiparlamentarismo, principale incubatore del fascismo. Di tale umore, che crebbe nel tempo, fu formidabile am­ plificatore il «romanzo parlamentare», un genere letterario inaugurato sin dal 1862 da Ferdinando Petruccelli della Gattina12 e al quale contribuirono anche firme celebri come Antonio Fogazzaro e Matilde Serao. Il più importante di questi lavori fu L'Imperio13 di Federico De Roberto, scritto nel 1909, ma mai finito (uscirà postumo, nel 1929): è il ri­ tratto più incisivo della decadenza del sistema parlamentare, esprimendo al massimo livello la delusione per gli esiti del Risorgimento e riflettendo fedelmente gli umori ormai dif­ fusi nella società italiana. Il romanzo parlamentare sparse a livello popolare la cri­ tica della corruzione diffusa, e creò il sostrato su cui si svi­ lupperà con successo l’antiparlamentarismo del movimento fascista. Sarebbe sicuramente sbagliato identificare ogni forma di antiparlamentarismo con il fascismo (c’è anche una critica di sinistra del parlamentarismo, come quella di Lenin, di Bordiga o degli anarchici), ma sicuramente il fascismo non è pensabile senza una robusta dose di avversione ai «ludi cartacei» e all’«aula sorda e grigia». L’antiparlamentarismo è una delle strutture portanti del fascismo e questo ha un si­ gnificato per la materia che stiamo trattando. Dopo la Prima guerra mondiale e il passaggio di molti Paesi al regime repubblicano (Germania, Austria, Unghe­ ria, Polonia, Cecoslovacchia, mentre il Portogallo era già repubblica da diversi anni e la Spagna lo sarebbe diventata dopo poco), si pose il problema del tipo di regime da adot­ tare, in particolare in presenza della spinta rivoluzionaria seguita all’ottobre russo. Si cercarono quindi soluzioni di compromesso che rafforzassero il governo preservando il re­ gime parlamentare. In Germania, per esempio, si mantenne 16


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il cancellierato nel quadro repubblicano, ma con un presi­ dente eletto direttamente dal popolo e dotato di forti poteri di intervento. Man mano che il principio del primato dell’esecutivo andò separandosi da quello monarchico, si iniziò a guardare a una forma di governo intermedia fra la monarchia costitu­ zionale e la repubblica parlamentare, ispirata alla repubblica presidenziale, sorta negli USA subito dopo l’indipendenza (non a caso, si parla del presidente americano come di un «re repubblicano»). In essa il presidente, eletto direttamente dal popolo, accentra i poteri di governo e di capo dello Stato e non è sottoposto al voto di fiducia, però il parlamento ha estesissimi poteri di controllo. Questa originale forma di governo si impose per le particolati caratteristiche della federazione americana, composta da diversi (e sempre più numerosi) Stati locali, dotati di larga autonomia, che impo­ nevano un forte coordinamento centrale. L’elezione diretta del presidente (per la verità, attraverso l’elezione di una spe­ ciale assemblea di delegati con mandato imperativo) forniva la risposta cercata, oltre che una figura in cui identificare la nazione. In Europa venne sperimentata per la prima volta in Francia, dopo la rivoluzione del 1848, con l’esperimento di Luigi Napoleone Bonaparte.14 Scriveva Marx già nel 1852: D a una parte 750 rappresentanti del popolo, eletti a suffra­ gio universale i quali costituiscono un’Assemblea Nazionale incontrollabile, indissolubile, indivisibile, un’Assemblea na­ zionale che gode di una onnipotenza legislativa, che decide in ultima istanza della guerra, della pace [...], che possiede il potere di amnistia ed essendo permanente occupa con­ tinuamente la ribalta politica. D all’altra il presidente, con tutti gli attributi del potere regio, con la facoltà di revocare e nominare i suoi ministri indipendentemente dall’Assemblea nazionale, con tutti i mezzi del potere esecutivo concentrati nelle sue mani [...]. Egli ha ai suoi ordini tutte le forze ar­

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Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi) mate. [ . ] L’iniziativa e la direzione di tutti i trattati con l’e­ stero gli sono riservate [...]. La Costituzione si distrugge da sola facendo eleggere il Pre­ sidente da tutti i francesi a suffragio diretto. Mentre i voti della Francia si disperdono sui 750 membri dell’Assemblea nazionale, qui, invece, si concentrano su un solo individuo. Mentre ogni singolo rappresentante del popolo rappresenta solo questo o quel partito, questa o quella città, o anche sem­ plicemente l’esigenza di eleggere un settecentocinquantesimo qualunque, senza considerare troppo per il sottile la cosa, né l’uomo, egli (il Presidente) è l’eletto della nazione15 e l’atto della sua elezione è la briscola che il popolo sovrano gioca una volta ogni quattro anni. L’Assemblea nazionale eletta è unita alla nazione da un rapporto metafisico, il presidente eletto è unito alla nazione da un rapporto personale. È ben vero che l’Assemblea nazionale presenta nei suoi rappresentanti i mol­ teplici aspetti dello spirito nazionale, ma nel presidente que­ sto spirito si incarna. Egli possiede rispetto all’Assemblea una specie di diritto divino; egli è per grazia del popolo.16

In questa citazione (della cui lunghezza ci scusiamo) sono già racchiusi i nuclei tematici della questione: il presidente eletto dal popolo come sostituto del re, vertice dell’esecutivo e garante della sua autonomia decisionale dal Parlamento; la doppia legittimazione popolare di presidente e assemblea elettiva e conseguente potenziale conflitto fra i due; la debo­ lezza del legislativo di fronte a un presidente direttamente eletto dal popolo. In termini attuali, non si potrebbe descri­ vere meglio questa dinamica. I fautori del presidenzialismo sostengono la preferibilità del loro modello vantandone la maggiore stabilità di governo, la capacità di resistere alle pressioni della società civile data dall’assunzione, quando necessario, di provve­ dimenti impopolari. L’esperienza storica, tuttavia, dimostra che l’esempio statunitense è rimasto piuttosto isolato e fa, in qualche modo, parte dell’eccezionalismo americano. 18


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Il presidenzialismo ha avuto notevole espansione nell’A­ merica Latina, in Europa orientale (dopo la caduta del Muro), in Africa e in parte dell’Asia, mentre l’Europa oc­ cidentale è rimasta piuttosto refrattaria all’esperimento ri­ petuto (con differenti versioni, tendenzialmente deboli) in Portogallo, Irlanda, Finlandia, Austria e Francia. Di fatto, i risultati dei regimi presidenziali diversi da quello statunitense, nella maggior parte dei casi, sono stati piuttosto fallimentari:17 la durata fissa del mandato ha intro­ dotto un elemento di rigidità; la capacità di assumere prov­ vedimenti impopolari si è spesso tradotta nella assunzione di provvedimenti antipopolari, non di rado all’insegna del più dilettantesco avventurismo (un esempio da manuale fu la decisione di stabilire un tasso di cambio fisso fra il peso argentino e il dollaro USA da parte del governo di Carlos Menem nel 1990, con la conseguente, catastrofica, crisi eco­ nomica di qualche anno dopo). Soprattutto, la doppia legit­ timazione popolare di presidente e assemblee legislative, in molti casi, si è tradotta in rudi interventi militari. Così come l’assetto complessivo delle istituzioni ha spesso finito per portare anche il potere legislativo sotto le insegne presiden­ ziali e l’inadeguatezza dei controlli è sfociata in aperti abusi costituzionali da parte del presidente. Nel complesso, si tratta di un sistema più fragile proprio perché più rigido. Ma, al di là del giudizio storico su questa forma di governo (che non è certo l’argomento del presente libro), qui ci interessa sottolineare la vocazione antiparla­ mentare del presidenzialismo e, perciò stesso, il suo infe­ riore tasso democratico: il popolo paga il potere di «giocare la sua briscola ogni quattro anni» con la totale esautorazione nei quattro anni successivi.

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Il problema del bicameralismo In questo quadro sorge la questione del bicameralismo, introdotta per la prima volta in Inghilterra (con la «glo­ riosa» rivoluzione del 1689), dal compromesso fra borghe­ sia emergente (rappresentata dalla Camera dei Comuni) e principio di nomina regia (difeso dalla Camera dei Lord). La Rivoluzione francese, portatrice del principio monistico della sovranità popolare, ovviamente, abbatterà ogni ipotesi bicameralista, affermando la centralità dell’Assemblea N a­ zionale, poi abbandonata dopo il Termidoro, che riaprirà la porta all’autonomia dell’esecutivo attraverso il Direttorio prima e il Consolato e l’Impero dopo. Con l’avvento delle repubbliche in gran parte dell’Eu­ ropa, nel 1918, la logica avrebbe voluto che il Senato spa­ risse, non avendo più il suo referente fondativo, ma le cose non andarono così, perché l’ala moderata dei nuovi sistemi politici ottenne di conservare il bicameralismo, diffidando del parlamento monocamerale nel quale vedeva l’incarna­ zione dell’assemblearismo giacobino. Una seconda camera, eletta con accorgimenti differenti (diversa base elettorale, caratterizzazione territoriale, di­ versa età di eletti ed elettori, presenza di membri di diritto o di nomina presidenziale ecc.) avrebbe diviso il Parlamento, dando più spazio sia al capo dello Stato che all’esecutivo. E questa fu la soluzione adottata in Italia dalla Costituente, che rispondeva all’idea moderata di democrazia in essa prevalente, nella quale incise anche la tradizione munici­ palistica del partito cattolico, la quale esaltava il ruolo delle autonomie locali (il riferimento al Senato eletto «su base regionale»). Per di più, con una concessione alla vocazione notabilare propria della vecchia guardia liberale: il collegio uninominale, poi riassorbito nel sistema proporzionale con l’apposita legge elettorale. I DC Emilio Tosato e Costantino 20


Introduzione. La P2 fra letteratura, cronaca giudiziaria e storia

Mortati, contrari al monocameralismo, furono espliciti nel richiamare i rischi di una «dittatura dell’Assemblea» e sul ruolo di mediazione che avrebbe dovuto svolgere il governo nel caso di conflitto fra le due Camere. Nel quarantennio della Prima Repubblica, la funzione del bicameralismo fu abbastanza limitata e, nel complesso, si ri­ solse in un rallentamento dei lavori parlamentari, ma ebbe an­ che un effetto forse non previsto: per l’esigenza di ottenere la maggioranza in entrambe le Camere, si determinò una spinta ulteriore ad allargare la base delle coalizioni parlamentari, in modo da coprire eventuali margini di rischio in una delle due assemblee. E, infatti, quando, come nel caso del secondo go­ verno Andreotti (1972-73), i margini al Senato furono troppo ristretti, il governo ebbe vita breve e difficile. È nella «Seconda Repubblica» che il Senato ha acquistato una funzione diversa. Sino al 1992 il parlamento era eletto con il metodo proporzionale, che determinava governi di coalizione basati su maggioranze autosufficienti in entrambi i rami. Ma quando, con il referendum del 1993, si passò al modello maggioritario (con una contenuta quota proporzio­ nale), le cose mutarono. Di questo parleremo più avanti.

Ipartiti regionali e il «partito toscano» Da ultimo, c’è un argomento che merita di essere spiegato preventivamente, perché ritornerà a più riprese in seguito: la questione dei «partiti regionali».18 Subito dopo l’Unità d’Italia, non esistevano, ovviamente, agenzie nazionali di riferimento: banche, formazioni politi­ che, imprese, classi dirigenti, apparati amministrativi e mi­ litari, ecc., avevano tutti dimensione e ottica locale. D ’altro canto, l’unificazione comportò un riassetto di poteri che avrebbe prodotto un secco ridimensionamento nelle ex ca­ 21


Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi)

pitali, le quali, perdendo peso e rendita burocratica, si sareb­ bero impoverite e marginalizzate. È sintomatico che il feno­ meno abbia colpito anche Torino, con il trasferimento della capitale a Firenze e poi a Roma. Iniziò, pertanto, la ricerca di un diverso progetto per le ex capitali nella nuova comunità nazionale. Peraltro, le particolari modalità con cui venne costruita l’unità nazionale, con il loro contraddittorio intreccio di centralizzazione e localismo, determinò la sopravvivenza di grumi di interesse dei precedenti Stati preunitari, che si tra­ sformarono in una sorta di «partiti regionali» favoriti dal ne­ fasto sistema elettorale uninominale, il quale avrebbe sem­ pre costituito il maggiore ostacolo alla formazione di forti partiti nazionali. Il processo non avvenne nella stessa misura e con gli stessi esiti in ciascuna delle capitali preunitarie, ma ebbe sviluppi differenziati dando vita a partiti regionali caratterizzati sia per la composizione originaria, sia per il diverso atteggia­ mento nei confronti del processo unitario. Ci furono: un partito «egemonico-nazionale» (Torino), tre partiti «federativo-integrazionisti» (Firenze, Napoli, Roma), quattro con­ federativi (Genova, Venezia, Sicilia e Sardegna) e un caso particolare, con più anime in conflitto fra loro (Milano). Di fatto, i tre partiti che ebbero più peso furono quello nazionale egemonico e due della corrente federativo-integrazionista (Firenze e Roma, mentre Napoli e tutti gli altri furono marginalizzati). Il «partito torinese» coincise per una lunga fase, immedia­ tamente successiva all’unità, con il fortissimo nucleo piemon­ tese presente nella politica, negli alti gradi dell’esercito, della burocrazia (soprattutto i prefetti) e della magistratura. Suc­ cessivamente, esso sviluppò una forte vocazione industriale. Il «partito romano» fu quello con la storia più complessa e nel tempo assorbì nuovi pezzi. La base originaria era rap­ 22


Introduzione. La P2 fra letteratura, cronaca giudiziaria e storia

presentata dall’apparato ecclesiale e dalla «nobiltà nera» (cioè papalina) che non sparirono certamente con Porta Pia, ma, anzi, colsero l’occasione per avviare lauti affari, a ini­ ziare da quelli legati alla speculazione edilizia. Fu proprio il grande affare edilizio della nuova capitale a saldare gli interessi della antica «nobiltà nera» con quelli di una parte della nuova borghesia statuale italiana: Roma, negli anni Settanta dell’Ottocento, crebbe da 220.000 a 272.000 abitanti, con un incremento del 24 per cento; poi, nel ventennio successivo, crebbe di un ulteriore 55 per cento raggiungendo i 424.000 abitanti dei primi anni del Nove­ cento. Nacquero interi quartieri come Prati, il Celio, l’Esquilino. Espressione di questo dinamismo affaristico della nobiltà nera fu la nascita del Banco di Roma, che affiancò la «Banca romana» (ex Banca dello Stato pontificio che, dopo Porta Pia, tornò all’antico nome e fu protagonista dell’omonimo, celeberrimo scandalo). Questo blocco sociale, più tardi, diede origine alla solida componente burocratico-ministeriale del nuovo Stato. Il partito toscano (sarebbe infatti errato dire «fioren­ tino» dato il peso che ebbero nello stesso Siena, Arezzo e Pisa) trovò la sua base in una ricca e avanzata agricoltura (come dimostra l’esistenza dell’Accademia dei Georgofili) e in una fortissima caratterizzazione bancaria che si intrec­ ciò con una spiccata vocazione massonica, quest’ultima pro­ dotta dalla frequentazione inglese delle città toscane. Come è noto, gli inglesi hanno una vera passione per Firenze e la sua regione, non dipendente, però, solo dall’amore per l’arte e il dolce paesaggio: dal Seicento, infatti, si era sviluppata un’acuta tensione fra lo Stato Pontificio e l’Inghilterra, la quale temeva le trame «papiste». Ciò produsse una intensa attività spionistica che avrebbe trovato un angolo di osserva­ zione privilegiato nell’accogliente e confinante Granducato 23


Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi)

di Toscana. L’inseminazione libero muratoria ne fu, in qual­ che modo, una conseguenza diretta.19 Nell’Italia liberale, il partito toscano si strutturò sta­ bilmente assorbendo in buona parte anche le élite umbre (come il partito romano assorbì quelle abruzzesi, in partico­ lare nell’ambito dell’edilizia). Nel periodo fascista, che rap­ presentò il tentativo più spinto di centralizzazione del Paese, i partiti regionali dissimularono la loro azione sotto l’egida di potenti gerarchi locali, che, nel caso della Toscana, furono Costanzo Ciano e Giovanni Gentile. Peraltro, le logge non furono mai del tutto «assonnate» nel ventennio e qualche utile contatto, soprattutto con l’estero, restò, per poi rinvi­ gorirsi con il passaggio degli eserciti alleati durante la guerra. Con il nuovo assetto repubblicano, l’ordinamento re­ gionale ridette fiato ai «partiti regionali», ma in Toscana, in Emilia e in Umbria questo poneva problemi particolari, trat­ tandosi di regioni con uno stabile insediamento comunista, cioè del «partito antisistema». Non era possibile ignorare il potere locale di comune e provincia prima e della regione poi, e nemmeno non avere rapporti con il potere centrale. Inoltre, se la Democrazia Cristiana aveva in Toscana autore­ voli esponenti come Giovanni Gronchi o Amintore Fanfani, ciò non era sufficiente a soddisfare lo sviluppo degli interessi locali. La rinascita del sistema delle logge (al quale non fu­ rono del tutto estranei tanto i comunisti quanto alcuni ec­ cellenti democristiani)20 fu la soluzione naturale per ricucire la necessaria rete di rapporti, ma anche una camera di com­ pensazione dei diversi interessi locali. E notevole fu l’intreccio fra le logge e l’articolatissimo sistema che affiancava a una delle maggiori banche italiane come il Monte dei Paschi di Siena (attiva già nel XVI secolo) una fitta rete di banche popolari, banche di credito coope­ rativo, casse rurali e artigiane ecc. La Toscana, infatti, grazie alla fiorente agricoltura, al turismo e alla accumulazione di 24


Introduzione. La P2 fra letteratura, cronaca giudiziaria e storia

una persistente nobiltà d’origine comunale e rinascimentale, è sempre stata una delle prime regioni d’Italia per raccolta bancaria. Questa rete di raccolta però era di dimensioni medio-pic­ cole, salvo il Monte dei Paschi, che tuttavia non raggiunse mai le dimensioni e la struttura di una banca d’affari. La par­ ticolare dispersione del sistema toscano, a fronte di un’im­ portante raccolta di capitali, ha creato una situazione di rela­ tiva emarginazione della regione dal grande potere finanzia­ rio e, per converso, una diffusa frustrazione e la conseguente aspirazione a esprimere un polo capace di penetrare nell’e­ sclusivo «salotto buono» della finanza italiana. Molte delle vicende bancarie toscane dell’ultimo quarantennio, sino alla recente questione della Banca Etruria, trovano una spiega­ zione in questa chiave di lettura.

Su tali premesse tenteremo di leggere il cammino quaranten­ nale che ha portato alla situazione attuale. Giudichi il lettore se ci siamo riusciti.

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Capitolo primo L'uomo e la loggia

Quando il Venerabile non era ancora venerabile Licio Gelli è un personaggio unico nella storia dell’Italia re­ pubblicana. C’è chi ne ha parlato come di un nuovo Caglio­ stro e chi lo ha paragonato ad altri avventurieri più o meno celebri.1La cronaca giornalistica tende talvolta ad appiattire e banalizzare, e così è accaduto anche con Gelli, rappresen­ tato, in maniera un po’ caricaturale, come un eterno intri­ gante, un faccendiere-spia, un golpista alla fine sconfitto. Ma questo non descrive a sufficienza un personaggio che, al di là di ogni giudizio negativo, ha svolto un ruolo storico rilevante in Paesi come Italia e Argentina. Non di un sem­ plice faccendiere si tratta, dunque, ma di qualcosa di ben più pesante. È stupefacente come, nonostante la modesta prepara­ zione culturale, Gelli abbia potuto manipolare, e quasi plagiare, interlocutori autorevoli, così come sono sorpren­ denti la sua capacità di auto-accreditarsi, l’ampiezza del suo campo d’azione a livello internazionale, la rapidità della sua carriera massonica. Ma più di tutto meraviglia come sia stato in grado di fare tutto ciò partendo da origini niente affatto elevate. Il pa­


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dre Ettore era un agiato possidente terriero, appartenente a quella borghesia di campagna toscana assai distante dagli ambienti delle classi dirigenti e dalla quale non sono emersi astri della politica, della finanza o della cultura. A sottrarre il giovane Licio al destino di qualsiasi giova­ notto di provincia fu la guerra di Spagna. Lui e il fratello maggiore, Raffaello, si arruolarono nel corpo di spedizione fascista a sostegno dei falangisti di Franco. Raffaello morì in combattimento. Al ritorno in patria, Licio fu ricevuto da Mussolini, insieme a un gruppo di familiari di altri caduti, e alla domanda del duce, che gli chiedeva cosa desiderasse come risarcimento per la perdita del fratello e per la sua par­ tecipazione al conflitto, rispose: «Un posto dove poter es­ sere ancora utile al Partito». Mussolini fu colpito dalla de­ terminazione e dall’ambizione del giovane.2 Licio fu prima funzionario del Partito Nazionale Fascista a Pistoia, quindi ispettore dei fasci di combattimento all’estero. Pochi anni dopo, durante la Seconda guerra mondiale, gli si presentò una nuova occasione che colse con ancor mag­ giore prontezza. Nel corso dell’invasione della Jugoslavia, i soldati italiani si erano impossessati del tesoro della banca di Stato: una considerevole massa di lingotti d’oro che faceva gola anche ai tedeschi. Il comandante del corpo di spedi­ zione italiano, Mario Roatta, per ingannare almeno momen­ taneamente i tedeschi, fece uscire sulla stampa la notizia che dell’oro jugoslavo, al pari di quello greco, si erano impos­ sessati gli inglesi, che lo avevano trasferito presso la Banca egiziana. Ma era evidente che l’oro non sarebbe stato al si­ curo finché non fosse giunto nei forzieri della Banca d’Italia. Far varcare ai lingotti i confini sorvegliati dai tedeschi era tutt’altro che semplice, ed è qui che entrò in scena Gelli, il quale all’epoca rivestiva un incarico di partito a Cattaro, in Montenegro. A lui venne affidato il compito di far giungere quell’oro in Italia. 28


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Lo stratagemma ideato da Gelli funzionò: nascose i lin­ gotti sotto le traversine di legno di un vagone che traspor­ tava soldati colpiti da malattie infettive e mise davanti alla locomotiva la canonica bandiera gialla.3 Al posto di confine i soldati tedeschi, comandati, secondo Pier Carpi,4 da un giovane sottufficiale austriaco di nome Kurt Waldheim (fu­ turo presidente della Repubblica austriaca e poi segretario generale dell’ONU) non ebbero animo di controllare scru­ polosamente un treno carico di ammalati infettivi. Inoltre, approfittando del fatto che il sottufficiale non conosceva l’i­ taliano, al momento di rilasciare la necessaria dichiarazione sull’ispezione compiuta, Gelli e i suoi riuscirono a fargli fir­ mare due lasciapassare. Il futuro Venerabile e l’oro giunsero così a Trieste. Nel prosieguo del viaggio, un terzo dei lingotti sparì, per motivi mai chiariti ma, secondo alcuni, non estranei a Gelli. Si trattava di varie tonnellate d’oro, e se anche Gelli fosse riuscito a trafugarne una parte, questo basterebbe a spie­ gare la sua prima base economica e di potere. Sul fatto che le cose siano andate effettivamente così, tuttavia, non sono mai state trovate prove.

All’indomani dell’8 settembre, Gelli si schierò con la RSI, diventando federale di Pistoia. Ciò nonostante, comprese subito che la guerra era persa e che occorreva pensare al dopo. Iniziò pertanto a collaborare con i partigiani e a con­ durre uno spregiudicato doppio gioco. Di questo nel 1981 fu accusato, seppure in tono bonario, da Giorgio Pisanò, che aveva fatto parte del battaglione NP della X MAS ope­ rante nella zona di Pistoia.5 Comunque stiano le cose, aver collaborato con i partigiani fruttò a Gelli un attestato fir­ mato dal presidente del CLN pistoiese Italo Carobbi, comunista,6 che valse a mitigarne la prigionia, che fu brevissima, e 29


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successivamente a favorirne l’inserimento nella vita sociale dell’Italia repubblicana. Già da queste vicende giovanili si può notare come Gelli dimostrasse doti come l’intraprendenza, l’attivismo, la rapi­ dità nel cogliere ogni occasione di promozione sociale, ca­ pacità organizzative e, soprattutto, l’assoluta mancanza di scrupoli. A questo proposito, si pone un problema che sarà utile a capire il seguito: Gelli era fascista? Da parte sua, pur non smentendo mai la collaborazione con partigiani e servizi alleati, si è dichiarato sempre fascista. Tecnicamente parlando, non c’è dubbio che fosse un tradi­ tore. In epoca repubblicana, collaborò disinvoltamente con esponenti democristiani, liberali, socialdemocratici, repub­ blicani e persino socialisti, che trovarono accoglienza nella sua loggia. Ma anche con missini come Giulio Caradonna e Mario Tedeschi, non disdegnando frequentazioni con gli ambienti della destra giovanile extraparlamentare (si pensi a Valerio Fioravanti). Fu in rapporti molto stretti con i gene­ rali argentini, ma non si fece mancare neppure contatti con la Romania comunista. Insomma, un uomo con relazioni a 360 gradi. Ma allora qual era il Gelli falso: quello che ostentava la fede fascista o quello che si sarebbe mosso, perfettamente a suo agio, dietro le quinte dell’Italia democristiana? L’indi­ viduo legato agli ambienti della destra repubblicana USA o quello che trafficava con gli uomini di Ceausescu? A tirare linee troppo dritte si rischia di non capire un personaggio così ambiguo e complesso. Il punto da cui partire è la sconfitta totale del fascismo, una di quelle sconfitte che i giuristi chiamano «per debellatio», ovvero che non lasciava nessuna speranza di rivincita. Le probabilità di restaurazione di un regime fascista in Eu­ ropa erano pari a zero. In Paesi marginali potevano instau­ 30


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rarsi regimi castrensi di destra (come in Grecia o in Ame­ rica Latina), o rimanenze (come in Spagna), ma non veri e durevoli regimi fascisti. Una tale sconfitta definitiva pose ai sopravvissuti il problema di come continuare a fare politica nel nuovo quadro storico. Una parte minoritaria dette luogo a nicchie di resistenza, dove coltivare il culto della memoria, nella speranza di un ritorno, mentre la maggioranza decise di integrarsi nei partiti esistenti: quelli che passarono al PCI o (in misura minore) al PSI furono decine di migliaia, ma molti di più aderirono alla DC. Nella maggior parte dei casi, abbandonarono (del tutto o quasi) la propria identità fasci­ sta, abbracciando le ideologie dei nuovi partiti di apparte­ nenza. Una piccola parte coltivò disegni entristi, pensando di realizzare un regime autoritario a vocazione sociale (que­ sto riguardò in particolare chi aveva scelto il PCI). Ma i più optarono per i partiti di centro in nome dell’anticomunismo e, pur restando legati alla memoria del passato regime, si ac­ contentarono di partecipare al gioco, cercando di far passare il più possibile della propria cultura politica. L’MSI, in qual­ che maniera, raccolse entrambe le anime: la base - a modo suo illusa - continuò a sperare in una nuova marcia su Roma che avrebbe riportato al potere il fascismo, mentre il vertice era perfettamente consapevole che una simile eventualità era impossibile e, pur blandendo le nostalgie della base (non mancarono mai saluti romani e relativi inni), cercò in tutti modi di inserirsi nella vita parlamentare, sebbene in maniera marginale. Da Michelini ad Almirante, da De Marsanich a Pisanò, da Romualdi a De Marzio, dallo stesso Rauti a Fini, ognuno cercò di adattarsi, non nutrendo alcuna illusione ri­ guardo a una restaurazione del regime. Fu Almirante a in­ ventare lo slogan: «Non rinnegare, non restaurare». Del re­ sto, ogni sistema politico tende ad assorbire nella propria lo­ gica anche le opposizioni antisistema, esercitando una sorta di attrazione gravitazionale. 31


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Gelli in cuor suo era certamente fascista e, fosse dipeso da lui, non sarebbero mancati stivali e fez, ma, non reputando at­ tuabili le sue speranze di restaurazione, puntò a entrare nel gioco per condizionarlo, come si vedrà in seguito, mediante la massoneria. Prendendo realisticamente atto che l’orbace non andava più di moda, fondò una ditta per la produzione di im­ peccabili gessati, diventando socio dei Lebole, ex partigiani. Ed è giusto dire che dimostrò di saperci fare, come accadrà in seguito anche con la fabbrica di materassi Permaflex. Altri eventi sopraggiunsero ad alimentare l’immagine ambigua del personaggio, come il coinvolgimento in alcuni casi di sequestro di persona, fra il 1946 e il 1947, e una sor­ prendente segnalazione, nei primissimi anni Cinquanta (ma di cui si saprà molti anni dopo), da parte del servizio se­ greto militare, che lo annoverava come sorvegliato in quanto «agente del Cominform» legato alla Romania. La vicenda non è chiara, né si può del tutto escludere l’eventualità che i documenti siano un falso prodotto molto tempo dopo la data indicata. Al quesito sulla sua fede fascista, è legata un’altra que­ stione: che genere di massone fu Gelli? Per tutti gli anni Quaranta e Cinquanta, non mostrò al­ cun particolare interesse per il mondo delle logge, anzi il suo unico impegno politico, per quanto se ne sa, fu quello di organizzatore, per due legislature, delle campagne eletto­ rali di Romolo Diecidue, deputato democristiano del colle­ gio Firenze-Pistoia, di cui non risulta una coeva affiliazione massonica. Poco dopo, Gelli stabilì (per il tramite di Diecidue) proficui rapporti con Giulio Andreotti, all’epoca sotto­ segretario di Stato al Ministero per l’Industria, che presen­ ziò all’inaugurazione dello stabilimento Permaflex, diretto da Gelli, il 28 marzo 1963. Nei riguardi di Andreotti, Gelli poteva contare su un altro canale di comunicazione: Maria Luisa Muzi, una delle segretarie dello statista democristiano, 32


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che aveva conosciuto presso le corporazioni fasciste e di cui era restato amico.7 L’iniziazione massonica di Gelli avvenne quasi contem­ poraneamente ai primi rapporti con Andreotti, nel 1963. Non risulta da nessuna parte che la sua famiglia vantasse fre­ quentazioni massoniche. Né si ha notizia di saggi o di articoli di Gelli in materia di libera muratoria. Ben poco incline a spendersi in tenzoni teoriche, Gelli era assai più interessato alle questioni pratiche. È infatti nota la sua scarsissima (pra­ ticamente nulla) attenzione per gli aspetti rituali nella vita della P2, e anzi non sono mancate frasi un po’ irridenti del Venerabile che non riusciva a immaginare i suoi importanti ospiti «tirarsi su la gamba sinistra dei pantaloni e fare dei giri intorno al tavolo». Forse aveva ragione a non prendere sul serio quel cerimoniale, ma questo non toglie che nella mas­ soneria il simbolismo sia parte integrante dell’esoterismo che la impregna. Per quanto quella cultura, i simboli, i riti e il codice che ne deriva possano sembrare anacronistici, essi fondano l’identità di gruppo che è alla base del reciproco riconoscimento di «fratello», al di là di quanto siano indi­ vidualmente condivisi. L’adepto che se ne mostrasse troppo poco informato o interessato sarebbe considerato un corpo estraneo (perlomeno, così era ancora negli anni Sessanta e Settanta). E difatti Gelli, che palesemente non ebbe mai al­ cun interesse verso quelle pratiche e verso la stessa lettera­ tura massonica, fu un corpo estraneo nell’ambiente che, alla fine, lo avrebbe rigettato. In Italia, la Toscana è storicamente una delle regioni a massima densità massonica e sicuramente Gelli ebbe rap­ porti personali con esponenti di loggia ben prima di varcare la soglia della loggia Romagnosi.8 Proprio per la pervasività delle logge nella società e nelle istituzioni di quella regione, va anche detto che non poche adesioni sono sempre state dettate più dai vantaggi offerti dalla «solidarietà dei fratelli» 33


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che da sincera adesione ideologica. Gelli apparteneva esat­ tamente a questo segmento sociale della provincia toscana e aveva già dato abbondanti prove di spregiudicatezza per porsi problemi di ordine ideologico. A un certo punto della sua vita gli si prospettò l’occasione di entrare in un’antica organizzazione che, per quanto decaduta e nella quale era rimasto ben poco dei vecchi allori, gli avrebbe permesso di incrementare la sua già consistente rete di rapporti, di ac­ crescerla in modo esponenziale. I contatti internazionali di cui il Grande Oriente era al centro gli avrebbero consentito di raggiungere le logge B. Franklin, di cui facevano parte gli ufficiali massoni di stanza nelle basi americane e NATO in Italia, e utilizzarne il residuo potere di penetrazione nelle istituzioni del Paese. Un elemento dovrebbe far riflettere: per cultura e col­ locazione politica, Gelli era uomo di destra e per nulla in­ teressato all’anticlericalismo di Palazzo Giustiniani (cui apparteneva la loggia Romagnosi). La sua collocazione più congeniale sarebbe stata semmai nella massoneria scissioni­ sta di piazza del Gesù9 o, più tardi, nella loggia degli Alam (distaccatasi da piazza del Gesù quando iniziò a prospettarsi la fusione con i giustinianei), con la quale le affinità erano perfino maggiori. In effetti, Gelli non disdegnò rapporti con i fratelli di piazza del Gesù (e poi di Alam) ma, al momento del suo ingresso nella massoneria, scelse Palazzo Giustiniani. Come mai? Semplicemente perché quella confessione gli era più utile: per la maggiore irradiazione di contatti internazio­ nali, per il maggior numero di seguaci, per l’immagine più forte. Ma perché i giustinianei accolsero un fratello così ano­ malo, che aveva militato nella RSI, aveva organizzato la cam­ pagna elettorale di un democristiano e non mostrava grande interesse per la cultura massonica? In effetti, il suo ingresso nella Romagnosi suscitò diversi dubbi,10 così come in seguito vennero accolte con altrettanta perplessità dal gran maestro 34


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aggiunto Roberto Ascarelli11 le sue proposte in materia di ri­ organizzazione interna. D ’altra parte, la carriera massonica di Gelli fu fulminante: in un sol giorno, il primo settembre 1966, ottenne i gradi di compagno e di maestro, dopo appena tre anni del blando apprendistato12 che lo aveva visto assai poco coinvolto.13 Ciò nonostante godette subito di grande autorevolezza: Il 3 giugno 1967 Ascarelli riferì a Gamberini che Gelli insi­ steva per promuovere l’intesa fra il Grande Oriente d ’Italia e l’obbedienza massonica incardinata su Aldo Sollazzo e lo invitò a prendere posizione esplicita a favore dello Stato di Israele [...]. Il 2 settembre gli sottopose la minuta di una let­ tera da inviare a Walter Bruno, della segreteria del Presidente Saragat, che fa parte del gruppo che mi ha presentato Gelli.14

La cosa più curiosa è che fosse l’ex salotino a perorare la causa di Israele presso Ascarelli, il quale era ebreo e, in qualità di avvocato di parte civile, aveva rappresentato la co­ munità ebraica romana nel processo a Kappler, il boia delle Fosse Ardeatine. Evidentemente, il neomaestro rappresen­ tava già un rapporto più diretto con Tel Aviv di quanto non potesse essere Ascarelli.

Come si è accennato, la massoneria italiana negli anni Cin­ quanta era in forte decadenza: nell’Italia governata per la prima volta dai cattolici non c’era grande spazio per «i figli della vedova» (come i massoni amano spesso definirsi), che ancora non si erano ripresi dalla repressione durante il pe­ riodo fascista. Gelli portava alla massoneria il suo attivismo e la sua non comune capacità organizzativa, a cominciare dalla riconosciuta abilità nelle pubbliche relazioni (come di­ mostrano i rapporti con uomini della segreteria della Presi­ denza della Repubblica). Gelli è stato soprattutto un grande 35


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PR. La P2 stessa fu la costruzione e l’organizzazione di una rete di relazioni, cosa di non poco conto in un Paese come l’Italia dove vige un modello di capitalismo di relazione e dove la struttura sociale è costituita da una rete di corpo­ razioni e cordate regionali. Per questa ragione, Gelli attirò l’attenzione del gran maestro Giordano Gamberini, che ebbe molta influenza nel Grande Oriente d’Italia (GOI) an­ che dopo la fine del mandato maestrale e che ne fu sempre il nume tutelare. Poco dopo la sua iniziazione, venne trasferito a un’altra loggia del Grande Oriente d’Italia, la Hod (una sorta di promozione, dato il particolare prestigio di questa organizzazione), dove iniziò a fare opera di proselitismo re­ clutando personaggi di spicco. Si trattò dell’immediata pre­ messa del passaggio alla P2.

La nascita della P2 Il momento di maggior fulgore di Gelli fu certamente quello che va dal 1968 al 1981, che coincide esattamente con la sua maestranza nella P2. Già nella seconda metà dell’Ottocento, la massoneria isti­ tuì una speciale loggia, detta Propaganda, i cui affiliati erano «iniziati all’orecchio del Gran Maestro», quindi sottratti all’obbligo di affiliazione territoriale e protetti da un parti­ colare segreto in relazione alla delicatezza delle cariche rico­ perte. La loggia aveva come suo maestro venerabile il gran maestro del GOI e sede a Roma, dove confluivano soprat­ tutto i fratelli parlamentari. Con il fascismo, la loggia seguì la sorte del resto della massoneria e venne sciolta. Alla fine degli anni Quaranta, venne ricostituita (con il nome di Pro­ paganda 2, appunto P2) dal gran maestro Ugo Lenzi, ma per molti anni ebbe scarso seguito e scarso successo. A metà de­ gli anni Sessanta, il gran maestro Giordano Gamberini potè 36


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contare su un valente collaboratore: Giancarlo Elia Valori, massone decisamente atipico. Da giovane, aveva militato nell’Azione Cattolica, allacciando preziosi rapporti nell’am­ biente della curia. Tramite il padre, entrò in contatto con il fiorentino Ettore Bernabei, assai vicino all’aretino Amintore Fanfani che lo designò direttore generale della RAI, presso la quale Valori lavorava. Insomma, l’espressione «partito to­ scano» significherà pur qualcosa... Valori, per la verità, era nato in provincia di Venezia, ma da padre toscano. E fu quest’ultimo a introdurlo negli am­ bienti vicini al «focoso pony toscano», come Fanfani amava definirsi. Da giovane, aveva compiuto una missione in Ar­ gentina per conto di Enrico Mattei (che, come è noto, aveva in Fanfani un importante interlocutore politico). Questo spiega forse la sua amicizia con Perón e le sue vaste relazioni con le classi dirigenti di quel Paese. Meno chiaro è come e perchè riuscisse a stabilire rapporti con il presidente rumeno Nicolae Ceausescu e il suo entourage. In questo periodo, la loggia iniziò a crescere e nel 1969 si diffuse la notizia (tut­ tora non certa) dell’affiliazione di quattrocento ufficiali delle forze armate al GOI. Molti sostengono che il fatto corri­ sponda a verità; altri, al contrario, dicono che si sia trattato solo di una sorta di spot pubblicitario della massoneria. È probabile che la verità stia nel mezzo. Nel 1970, il gran maestro Lino Salvini delegò a Licio Gelli la gestione della loggia e il potere di iniziare nuovi fratelli. Ini­ zia da qui la parabola della P2 e dello stesso Gelli che, per via della sua intraprendenza, e forse in grazia dei suoi rapporti con gli ambienti dell’intelligence, riuscì prima ad affiancare e quindi a prevalere su Valori, che continuò tuttavia a collabo­ rare con lui. Tra i due ci fu sempre un rapporto ambivalente di collaborazione-concorrenza. E rimane oscuro come Gelli riuscisse infine a rimpiazzare Valori. Ad ogni modo, non sap­ piamo se i rapporti di Gelli con la Romania siano nati con 37


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Valori o, come sostiene il (sospetto) documento del SIFAR, risalgano invece ai primi anni Cinquanta. Come era prevedibile, Gelli si dimostrò attivo ed effi­ ciente, reclutando centinaia di nuovi adepti. Quanti? Si tratta di un punto irrisolto. Nelle liste trovate a Castiglion Fibocchi, nel marzo del 1981, ci sarebbero state 962 per­ sone, delle quali 49 «in sonno», 22 passate ad altre logge e alcune (come l’onorevole DC Publio Fiori) riconosciute estranee con sentenza del tribunale. Però sono poi confluiti ulteriori elenchi, forniti da altri affiliati, complessivamente per 550 nomi, dei quali 180 coincidenti con la lista di Castiglion Fibocchi. Tuttavia, la stessa commissione parlamen­ tare di inchiesta sulla P2 (che ha ritenuto attendibili i nomi della lista di Castiglion Fibocchi) ha sempre avanzato il dubbio che l’elenco non fosse completo. E non mancano ra­ gioni per crederlo. Dalle stesse audizioni della commissione si ricavano nuovi nomi. Ad esempio, durante la sua audizione (22 novembre 1983), il generale Siro Rossetti15 disse: «Io ho conosciuto Gelli soltanto quando sono entrato nella P2, dopo questo contatto, su invito di Salvini, al quale ero stato presentato da Francesco Boschi» (non parente dell’omonimo ministro). Richiesto da Antonio Bellocchio (PCI) di fare alcuni esempi di componenti della P2, il generale citava Francesco Boschi e l’onorevole Luigi Mariotti. Dunque, Boschi sarebbe stato organico alla P2, ma il suo nome non risulta nell’elenco. Così come non risulta che egli abbia mai smentito il generale Rossetti. In quei primi anni, la loggia incrementò velocemente an­ che la sua influenza politica. Gelli si vanterà con Giovanni Leone di aver fatto confluire sul suo nome i voti di diversi fratelli, determinanti per la sua elezione, e sosterrà di aver consegnato al presidente, in quell’occasione, un documento sulle riforme necessarie per il Paese. Leone smentirà di aver 38


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ricevuto alcun documento, malgrado Gelli sia stato spesso ospite del Quirinale in quegli anni. Nello stesso tempo, Gelli guarda con particolare atten­ zione al mondo militare e alle sue turbolenze, come sostiene Elisabetta Maria Cesqui nella sua requisitoria.16 Nell’inchie­ sta di Guido Salvini sull’eversione in Lombardia, emerge un possibile coinvolgimento quantomeno personale di Gelli nel golpe Borghese: l’ex capitano del SID Antonio Labruna so­ stenne che sarebbe stato lui l’incaricato di arrestare il presi­ dente della Repubblica Saragat o indurlo a nominare il go­ verno dei golpisti.17 Ne derivò la riapertura del fascicolo processuale sul golpe Borghese presso la Procura di Roma, che si concluse però con un’archiviazione che proscioglieva tutti gli accusati, Gelli compreso. Tuttavia, va anche ricordato, su un piano storiografico, che nell’inchiesta sulla strage di Brescia18 sono emersi molti documenti e attestazioni testimoniali dalle quali si evince uno stretto e continuo intreccio fra la P2 e il «Noto Servizio», cioè il servizio segreto clandestino e pa­ rallelo a quello militare, pesantemente coinvolto tanto nel golpe Borghese quanto nelle stragi di quegli anni, nonché nei casi Kappler e Moro.19 In questa fase, sino al 1974, Gelli e i suoi uomini sembra­ rono attendere la soluzione dei problemi del Paese (e, pa­ rallelamente, l’affermazione del proprio progetto di Stato) da un pronunciamento militare. È certamente uno dei punti più scabrosi dell’intera vicenda. Sarebbe ancora necessa­ rio acquisire prove per stabilire, in primo luogo, sino a che punto la loggia sia stata semplice spettatrice - limitandosi magari ad auspicare una svolta di tipo militare - oppure sia stata coinvolta attivamente nell’attuazione del progetto. In secondo luogo, occorrerebbe capire sino a che punto un eventuale coinvolgimento riguardi la totalità della loggia o solo un gruppo interno. È ragionevole supporre che almeno 39


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una parte degli affiliati non fosse al corrente di un progetto eversivo e che alcuni fossero contrari.20 Come si sa, il processo alla loggia si è concluso con una pronuncia che esclude l’ipotesi della cospirazione politica, mentre accoglie la tesi di un sodalizio di tipo carrieristico e affaristico. Non è questa la sede per affrontare il problema, per cui mi limito all’ipotesi, sommaria, secondo cui nella P2 erano presenti diverse anime (come vedremo più avanti). Certamente molti ne facevano parte per scopi, appunto, carrieristici o affaristici, altri per scopi politici non eversivi. Non mi sentirei affatto di escludere, tuttavia, che vi fosse un nucleo di natura dichiaratamente eversiva che puntava, in un modo o nell’altro, al sovvertimento delle istituzioni re­ pubblicane. Tornando all’asse principale della nostra ricostruzione, oc­ corre fare un’ampia digressione sull’argomento delle risorse finanziarie della P2 che, come sottolinea Elisabetta Maria Cesqui nella citata requisitoria,21 erano cospicue già nel 1974, al momento della svolta di cui tratteremo. E questo ci porta alla fondazione della Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio nel 1971, attraverso la fusione fra la Banca Mutua Popolare Aretina, la Banca Popolare Senese e la Banca Popolare di Li­ vorno. L’anno successivo sarà assorbita anche la Banca Po­ polare di Montepulciano. Il salto definitivo avverrà nel 1988 dopo la fusione con la Banca Popolare dell’Alto Lazio. Vale la pena di spendere qualche parola in più su questo istituto. Una prima particolarità riguarda la specialità del core businnes della banca: l’oro. Come si sa, normalmente i clienti di banca acquistano oro finanziario, cioè certificati di credito attestanti che il signor tal dei tali ha comprato tanti lingotti di oro che, però, non verranno mai convertiti in oro fisico lingottato, ma ceduti ad altri sulla base delle quotazioni del giorno. A poter vendere materialmente oro sono solo pochissimi istituti espressamente autorizzati dalla 40


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Banca d’Italia. Arezzo, con Vicenza e Valenza Po, è una delle «capitali» dell’industria orafa del Paese, ed è per tale ragione che la Banca Popolare dell’Etruria ha questa speciale au­ torizzazione, che gli ha permesso di costituire la principale riserva aurea dopo quella di Bankitalia. Essa può vendere tanto un generico quantitativo di lingotti, quanto un deter­ minato lingotto indicato con un numero di matricola. Il lin­ gotto può restare nella cassaforte della banca, se l’acquirente non lo ritira. È facile comprendere il motivo delle particolari cautele che disciplinano la compravendita dell’oro: si tratta infatti del bene rifugio per eccellenza, e quando infuria la crisi, si in­ veste in oro, che sale di valore. Il concetto di base è che l’oro, dopo l’acquisto, può anche perdere valore, ma quest’ultimo non si riduce mai a zero. Ciò però vale per l’oro fisico, e sem­ pre che se ne sia materialmente in possesso, mentre l’oro finanziario è un’obbligazione come un’altra il cui valore sfuma completamente in caso di fallimento del debitore. Per converso, l’oro fisico è difficile da rivendere, e comunque a un prezzo nettamente inferiore a quello di mercato, per cui i risparmiatori ripiegano inevitabilmente sull’oro finanziario, che è sempre rivendibile. Perciò, nella maggior parte dei casi è solo oro finanziario quello che si compra, salvo da parte delle imprese che lo usano per le loro produzioni (gioielli, protesi di vario tipo, soprattutto odontoiatriche, farmaci, ar­ redi sacri, oggetti industriali, elettronici ecc.). Nel trading, una speculazione in oro fisico sarebbe ri­ tenuta una metodologia primitiva per i suoi stessi limiti (la produzione di questo bene è ovviamente molto limitata). Ma occorre considerare le cose anche da un altro punto di vi­ sta. Ad esempio, non è detto che l’oro si estragga solo dalle miniere. Magari si ricava anche dai «compro oro». Si estrae anche dal prestito usurario che utilizza spesso la garanzia di qualche oggetto in oro. Poi c’è da considerare il riciclaggio 41


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degli oggetti di furti in appartamenti, o di scippi, o il caso di caveau svaligiati, più raro ma, in compenso, fonte di grandi quantitativi. C’è anche da considerare il caso di un grande produttore di oro che si trovi momentaneamente in diffi­ coltà riguardo alla sua capacità di esportazione, ad esempio la Russia di Putin che, in seguito alle sanzioni per la que­ stione ucraina, ha dovuto subire delle restrizioni. Pertanto, esiste un mercato «grigio» o, se vogliamo, nero in cui l’oro viaggia alla ricerca di un modo per emergere nel «mercato bianco». Dunque, per quanto primitivo, anche il trading dell’oro fisico dà i suoi profitti. Si comprende, di conse­ guenza, la ragione delle tante cautele, come quella di con­ sentire il trading dell’oro fisico solo ad alcune banche. C’è poi una seconda particolarità della Banca Etruria: i molti punti di contatto con la P2. Già nel suo primo consi­ glio di amministrazione troviamo il Francesco Boschi di cui si è detto sopra. Nell’elenco della loggia, figurano altri due membri del suo CDA (Mario Lebole e Renato Pellizzer) e il suo direttore generale Giovanni Cresti. Ed è proprio presso la Banca Etruria che la P2 aprì il suo conto «Primavera», su cui affluivano le quote associative in relazione alle quali occorreva essere ben sicuri che non si verificassero fughe di notizie tali da svelare i nomi degli iscritti. Una curiosità: nell’asset della banca fa bella mostra di sé la collezione pri­ vata (oltre diecimila pezzi fra monete, libri antichi, mobili di pregio, tele ecc.) lasciata in donazione da un importante antiquario aretino, Ivan Bruschi, anche lui iscritto alla P2. Una banca, dunque, non lontana dalla loggia. Del resto, è ri­ saputo che il «partito Toscano» ha i suoi punti di forza nelle logge e nelle banche. Va rilevata inoltre una strana affinità fra la banca e il Ve­ nerabile: l’interesse per l’oro. Come abbiamo visto, all’ori­ gine delle fortune di Gelli c’è la storia dell’oro jugoslavo e perciò, quando una mattina del 1992 la Guardia di Finanza, 42


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nel corso di una perquisizione a Villa Wanda, trovò nume­ rosi lingotti d’oro, nascosti nelle fioriere, molti pensarono che facessero parte del bottino scippato ai tedeschi. Ignoro come sia finita la faccenda ma, riflettendoci, mi sembra che l’ipotesi jugoslava non regga molto: che senso avrebbe avuto nascondere l’oro in casa per quasi mezzo secolo? Per farne cosa? L’ipotesi più ragionevole è che si trattasse di altro oro destinato a chissà quale operazione e di cui il Venerabile non voleva si conoscesse l’esistenza. Il curioso nascondiglio delle fioriere lascia immaginare che Gelli fosse stato informato dell’imminente perquisizione e che, non avendo il tempo di far uscire il tesoro dalla villa, avesse tentato di nasconderlo in un posto che sperava passasse inosservato. Anche nella vicenda OMPAM, di cui diremo, per un momento, balena il movimento di una quantità di oro. Insomma, la storia ci racconta di un «particolare senso di Licio per l’oro» emerso a più riprese. Che poi è il campo d’azione privilegiato della Banca Etruria. Il grande salto Gelli (e con lui la P2) lo compì nel 1974 con l’«operazione Gianoglio» che vide il ritorno di Perón al potere in Argentina. Come si ricorderà, il generale venne estromesso nel 1955 da un colpo di Stato militare che inau­ gurò una lunga stagione in cui, a rarissimi e brevi momenti di ritorno alla democrazia (come il quadriennio della pre­ sidenza Frondizi nei primi anni Sessanta), si susseguirono continui rivolgimenti militari. Tuttavia, i regimi castrensi non riuscirono né a risollevare l’economia argentina né a fer­ mare il malessere sociale, mentre iniziavano i primi fuochi di guerriglia che preoccupavano molto gli USA (l’Argentina era il Paese natale di Che Guevara). All’inizio degli anni Settanta, iniziò a circolare l’idea di riportare al potere il vecchio generale Juan Perón che, nel frattempo, era in esilio in Spagna, dove aveva trovato una se­ conda moglie, Isabelita. Tale prospettiva era però ostacolata 43


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da alcuni fattori, fra cui l’ostracismo nei confronti del gene­ rale, che non si sarebbe potuto ripresentare alle elezioni. Per aprire le porte al suo ritorno sarebbe stato prima necessario eleggere un altro presidente che revocasse le disposizioni contro Perón. Si trattava di un’operazione che richiedeva una convergenza fra le diverse anime del peronismo. Fra queste, c’era la massoneria che, almeno dalla fine dell’Otto­ cento, ha in Argentina un considerevole peso politico e tra­ dizionali buoni rapporti con la massoneria nostrana, anche per la forte presenza di fratelli italiani là emigrati. Di questa complessa operazione venne incaricato proprio Licio Gelli. A dire il vero, si è spesso detto che il regista dell’opera­ zione sia stato Giancarlo Elia Valori. Anche se ciò non ap­ pare probabile, è tuttavia certo che quest’ultimo abbia par­ tecipato all’operazione, perché a bordo dell’aereo che ripor­ tava Perón in Argentina c’erano sia lui sia Licio Gelli.22 L’i­ niziativa fu coronata da successo: eletto il peronista Hector Campora alla presidenza, vennero revocate le disposizioni contro il generale e, dimessosi Campora in ossequio alla sua promessa di assumere quella carica solo per consentire il ri­ torno di Perón, quest’ultimo venne rieletto presidente e sua moglie Isabelita vicepresidente, nell’evidente tentativo di resuscitare il mito di Evita, la prima moglie, eroina dei descamisados, morta di cancro nel 1952. Sfortunatamente, Isabelita non assomigliava neppure lontanamente a Evita, non aveva la minima capacità politica e, per giunta, Perón morì nel 1974, un solo anno dopo la rielezione. Dopo essere subentrata al marito, Isabelita, di fatto, cadde nelle mani del suo consigliere José López Rega, un personaggio sinistro, regista della AAA (Alleanza Antico­ munista Argentina), protagonista dell’uccisione di migliaia di oppositori, torturati e fatti sparire, e grande amico di Licio Gelli che, per qualche tempo, continuò a fare da con­ sigliere di Isabelita. Nel 1976, entrambi persuasero l’inetta 44


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Isabelita a dimettersi, aprendo la strada a una nuova ditta­ tura militare. Al di là del poco brillante esito finale, l’operazione Gianoglio rappresentò il maggiore successo nella carriera poli­ tica di Gelli, che cominciò a pensare a un suo ruolo di primo piano nella politica internazionale, mettendo a frutto l’av­ ventura argentina in una nuova iniziativa: l’OMPAM.

L’OMPAM e l’inizio della fine Con il successo argentino, si concludeva il primo periodo di vita della P2, quello in cui il reclutamento si era incen­ trato in larga parte negli alti gradi dell’esercito, dei servizi segreti, della polizia, oltre che in politici e magistrati. Fu il periodo, come si è accennato, dei tentativi di eversione a cui non furono estranei vari esponenti della loggia. L’ultimo di questi tentativi fu il golpe bianco di Edgardo Sogno che, per l’appunto, apparteneva alla loggia gelliana. I tempi erano cambiati: la strategia della tensione in Italia era fallita e l’e­ voluzione politica internazionale contribuiva ad archiviare le velleità golpistiche. Gelli quindi mutò strategia: il Piano di Rinascita Democratica nacque proprio da questa esigenza di cambiare passo, ma di ciò parleremo nel prossimo capitolo. D ’altro canto, il successo dell’Operazione Gianoglio schiu­ deva nuovi orizzonti e così, nel 1974, dopo l’insediamento di Perón, Gelli annunciò la costituzione dell’Organizzazione Mondiale del Pensiero e dell’Assistenza Massonica. Fu il suo gioco più spericolato. Sulla carta, il progetto doveva consistere in un organismo in grado di essere interprete della filantropia massonica, soc­ correndo le popolazioni in caso di disastri,23 aiutando i Pa­ esi in via di sviluppo ecc., ma che si proponeva anche come mediatore di crisi internazionali, come punto di riferimento 45


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per gruppi di nazioni, come veicolo di accordi commerciali internazionali. Il progetto registrò qualche successo iniziale: oltre alla scontata disponibilità argentina, offrirono la loro adesione il presidente egiziano Anwar al-Sadat, quello liberiano Wil­ liam Tolbert, il vicepresidente ivoriano Anet Lilè Clèment.24 Nello stesso tempo, Gelli concludeva lucrosi accordi com­ merciali con la Romania, mentre l’addetto culturale presso l’ambasciata in Italia, Ciobanu, aderiva alla P2. A proposito della Romania, è forse utile aprire una parentesi: nel 1968 il capo di fatto dell’Ufficio Affari Riservati, Federico Umberto D ’Amato (affiliato della P2), dette vita al Club di Berna, il coordinamento dei servizi di polizia occidentali. L’unico Pa­ ese del blocco orientale che fece parte del coordinamento fu proprio la Romania. È inevitabile sospettare che a favorire la convergenza sia intervenuto un qualche tramite massonico. Ma sullo speciale rapporto fra P2 e mondo dei servizi torne­ remo più avanti. Si trattava dunque di un progetto ambizioso, che Gelli spesso presentava come una sorta di interfaccia fra la P2 e il mondo delle personalità internazionali. Con le adesioni di importanti esponenti di Argentina, Liberia, Egitto, Costa d’Avorio e con gli agganci in Romania, la P2 cessava di es­ sere un fatto nazionale per diventare un punto di riferimento internazionale nella massoneria. È interessante notare come le resistenze più nette ven­ nero dalle gran logge di USA e UK. È ben noto che i rap­ porti fra le due massonerie di lingua inglese e quelle con­ tinentali, e in particolare latine, non sono mai stati parti­ colarmente cordiali e Gelli, nonostante la sua conclamata fedeltà atlantica, apparteneva pur sempre al mondo latino, e doppiamente, per via dei legami sudamericani. La sua ini­ ziativa, che puntava addirittura al riconoscimento dell’OMPAM quale organismo diplomatico internazionale da parte 46


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dell’ONU (cosa che era riuscito a ottenere da FAO e U N E­ SCO), rischiava di sconvolgere i complicati equilibri della massoneria mondiale. Per di più, l’OMPAM attirò su di sé l’attenzione della magistratura. Nella sua inchiesta sui sequestri di persona, iniziata nel 1974, Vittorio Occorsio giungeva al mega-orga­ nismo gelliano con l’arresto dell’autorevole esponente del Clan dei Marsigliesi, Albert Bergamelli, il quale lanciò un av­ vertimento: «Siamo protetti da una grande famiglia interna­ zionale». Occorsio iniziò a sospettare che i proventi dei ra­ pimenti (fra cui quello di Umberto Ortolani, braccio destro di Gelli, misteriosamente sequestrato dallo stesso giro di cri­ minalità organizzata) servissero a finanziare la costituenda OMPAM. Il 10 luglio 1976, Vittorio Occorsio cadeva sotto una raffica esplosa dall’ordinovista Pierluigi Concutelli (il magistrato aveva indagato anche sul Movimento Poli­ tico Ordine Nuovo che rivendicò l’attentato). L’inchiesta sull’OMPAM si paralizzò, ma quell’omicidio tirò addosso a Gelli e alla sua creatura un’attenzione che certamente non avrebbe giovato al progetto. In questo quadro, si verificò la prima grande sconfitta politica di Gelli a livello internazionale: il rifiuto dell’am­ bito riconoscimento da parte dell’ONU. Fino ad allora Gelli aveva evitato abilmente ogni prova di forza da cui sarebbe potuto uscire perdente e aveva fatto un uso sapiente dei pro­ pri successi (in particolare quello argentino) per accreditarsi come uomo molto potente. L’alone di mistero che avvolgeva le origini di tale potenza non faceva che accrescere la sua fama. Per tutte queste ragioni, il fallimento dei suoi piani nei confronti del «palazzo di vetro» fu un tonfo clamoroso, non davanti all’opinione pubblica, che ne ebbe solo un flebile sentore, ma di fronte agli ambienti della politica e della mas­ soneria internazionale, agli occhi dei quali uscì considerevol­ mente ridimensionato. 47


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E qui possiamo collegare la vicenda OMPAM alle que­ stioni di casa nostra. Gelli ha spesso indicato nel PCI e nella sinistra democristiana i mandanti dello scandalo che avrebbe portato all’inchiesta dei magistrati milanesi e allo scioglimento della loggia. Non è detto che questa teoria sia del tutto sbagliata. Del resto, PCI e sinistra DC erano stati in più occasioni il bersaglio della sua azione politica, per cui una loro reazione (sostenuta dall’influenza che pote­ vano esercitare sulla carta stampata) non sarebbe stata così strana. Però è poco probabile che PCI e sinistra DC potes­ sero vantare altrettanta influenza sulle decisioni del vertice delle Nazioni Unite, al quale invece possono avere avuto accesso altre forze di rilievo internazionale. Queste ultime avranno trovato orecchie ben disposte, visto che il segreta­ rio generale era all’epoca quel Kurt Waldheim che, in divisa della Wehrmacht, abbiamo visto subire l’abile frode esco­ gitata da Gelli per far passare l’oro jugoslavo. Se ne sarà ri­ cordato? Gelli andò incontro anche a ostilità interne al mondo mas­ sonico. E non parliamo solo del gran maestro Lino Salvini, o di personaggi come Francesco Siniscalchi, o Ermenegildo Benedetti, che furono fra i suoi più diretti accusatori davanti al «giudice profano», ma anche di un’ostilità più sottile e meno dichiarata. Ad esempio, molti giornalisti, al tempo, non incontrarono molte difficoltà a trovare «gole profonde» che fornissero abbondanti informazioni sul tema.25 D ’altra parte, significa pure qualcosa il fatto che, nell’im­ mediatezza dello scandalo esploso con la perquisizione di Castiglion Fibocchi, il Grande Oriente d’Italia abbia imme­ diatamente «mollato» la loggia, non accennando neppure a una difesa simulata (cosa di cui ancora si lamentano i simpa­ tizzanti delle tesi gelliane). Nelle sue memorie, Gelli non si è mai molto soffermato sulla fine dell’OMPAM e sui motivi del suo scioglimento 48


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che, torniamo a dire, probabilmente ha avuto a che fare più con dinamiche internazionali che con storie italiane. Forse non è il caso di prendere troppo sul serio le concla­ mate affermazioni di neutralità politica delle logge massoni­ che, soprattutto inglesi e americane, che insistono sul divieto posto dalle antiche costituzioni a discutere affari politici e religiosi all’interno della loggia. Non mancano esempi che fanno capire come di politica magari non si è discusso sotto le volte delle logge, ma nel vestibolo sì. Se tanti presidenti sta­ tunitensi hanno cinto il rituale grembiule, una ragione ci sarà. Ma i massoni angloamericani, a ragione, sono stati sempre molto attenti nell’evitare di apparire come un gruppo di pres­ sione politica. Il tentativo gelliano era troppo esplicitamente e direttamente politico e, peggio ancora, usava apertamente il nome della massoneria per qualificare il progetto. Probabilmente, le manovre per abbattere la P2 iniziarono già verso il 1977-78, ma per qualche tempo Gelli continuò ad avere un ruolo politico di rilievo. Ad esempio, anni dopo siamo venuti a conoscenza del finanziamento di Silvio Ber­ lusconi (compreso nell’elenco P2, anche se lui ha sempre ridimensionato molto la cosa) alla costituenda Democrazia Nazionale (scissione dell’MSI), a quanto pare dietro interes­ samento di Gelli che, fra i parlamentari di quel gruppo, con­ tava diversi «fratelli». Poi ci furono le elezioni del presidente della Repubblica dopo le dimissioni di Leone. Il tentativo gelliano di mettere in pista la candidatura del socialista Mariotti naufragò clamo­ rosamente (ebbe solo i voti di Democrazia Nazionale e uscì subito dal giro dei candidati). Venne invece eletto Sandro Pertini, l’ultimo che Gelli potesse gradire. Il che fa capire come il punto più alto raggiunto dalla P2 fosse ormai superato. Forse l’ultima operazione importante - del cui svolgi­ mento, scopo ed esito non sappiamo praticamente nulla avvenne in corrispondenza del caso Moro. 49


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In occasione della morte del Venerabile, si sono sprecati necrologi e biografie, ma nessuno ha ricordato la pagina 20 di un aureo libretto che Adriano Sofri pubblicò nel 1991: Non ricordo chi fossero gli «esperti» che, alla prima com­ parsa delle lettere di Moro, si affrettarono a dichiararlo affetto dalla sindrome di Stoccolma. Non so se fossero dello stesso genere dei consulenti che, si disse, occupavano una stanza al Ministero della Marina Militare, durante il sequestro: con­ sulenti ufficiosi che completavano i ranghi della P 2 ... e che avrebbero compreso un peritus peritorum chiamato affettuo­ samente «Micio Micio», all’anagrafe Licio Gelli.26

Dunque: - oltre al più noto comitato del Viminale (l’unità di crisi co­ stituita dal ministro Cossiga e composta esclusivamente da aderenti alla P2) sarebbe esistito un secondo comitato di esperti presso il comando della Marina Militare; - questo secondo comitato sarebbe stato parimenti com­ posto da piduisti (ventinove alti ufficiali di Marina erano affiliati alla P2 e ne facevano parte anche Giovanni Pattumelli, direttore della sezione Marina del Ministero della Difesa, e Salvatore Vagnoni, direttore generale del perso­ nale della Marina); - vi avrebbe preso parte anche Licio Gelli in persona, di cui Sofri indica il suggestivo «nome di copertura» usato nell’occasione. Queste notizie non sono mai state smentite. E ci chie­ diamo quali fossero le mansioni di questo secondo comitato e quali i rapporti con il primo, quale il ruolo che vi avrebbe ricoperto Gelli, e quale attività avrebbe svolto, dato che non ne è mai stata fatta menzione. Può essere utile ricordare che la Marina è tra le nostre forze armate quella più integrata nel 50


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sistema atlantico, avendo base a Bagnoli ex comando NATO per il Mediterraneo. Nonostante già fossero all’opera le forze che avrebbero abbattuto la P2, fra il 1976 e il 1981 Gelli visse la sua stagione più intensa: oltre al caso Moro, partecipò ad altre vicende di primissima importanza, come l’assalto alla Montedison, influenzò pesantemente il «Corriere della Sera» di Rizzoli e Tassan Din, finanziò il nuovo corso socialista aprendo il conto «Protezione» a Lugano e coltivando rapporti partico­ larmente cordiali con Claudio Martelli,27 ispirò la scissione dell’MSI, fiancheggiò Calvi nell’operazione Solidarnosc. Soprattutto, definitivamente sfiorita la vecchia simpatia per Fanfani, fu il momento di massima convergenza con Andreotti che, proprio fra il 1976 e il 1979, divenne per la terza volta presidente del Consiglio. Del rapporto fra Andreotti e Gelli si è sempre parlato, e l’ipotesi di una stretta intesa o addirittura di una partecipazione di Andreotti al livello su­ periore alla P2 fu sempre prospettata da molti. In tal senso, furono particolarmente pesanti le allusioni di Pecorelli ap­ parse su OP, che parlò di «Loggia di Gesù Cristo in Para­ diso» e pubblicò una vignetta in cui il leader democristiano si aggira fra le nuvole appoggiandosi a una stampella a forma di squadra e compasso. Gelli smentì sempre che Andreotti appartenesse alla P2, ammettendo però che era al corrente della sua esistenza.28 Ai fini del nostro discorso, non mette conto approfondire l’argomento, ma è indubbio che su al­ cune operazioni ci fu una oggettiva convergenza fra i due, che ebbero in Sindona un tramite costante. La P2 diventò, in questo modo, uno dei principali snodi del sistema politico italiano, ma questo provocò anche una violenta crisi di rigetto che andò a saldarsi con le crescenti opposizioni internazionali.

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La caduta e la latitanza Nel corso dell’inchiesta della procura milanese sul caso Sindona, i sostituti procuratori Gherardo Colombo e Giu­ liano Turone, nel maggio del 1981, fecero perquisire sia Villa Wanda, residenza di Gelli, sia i suoi uffici a Castiglion Fibocchi, dove vennero trovati gli elenchi dei componenti della P2. Non è affatto sicuro che gli elenchi siano completi e gli affiliati fossero solo 962, anzi, come si è detto, ci sono molte ragioni, comprese le dichiarazioni posteriori del Vene­ rabile, che inducono a pensare che ce ne fossero altri. L’impressione fu enorme. Molti degli interessanti smen­ tirono, altri (soprattutto fra i generali dei carabinieri e i dirigenti dei servizi) giustificarono la loro presenza so­ stenendo di aver aderito per controllare il fenomeno che destava giusto allarme, altri ancora sostennero di essersi «assonnati» dopo un brevissimo periodo di adesione alla P2. Alcuni attestarono di essere passati a logge differenti, altri (come Silvio Berlusconi, tessera 1816) di non aver mai completato l’adesione e di essersi limitati a versare la quota d’iscrizione, senza alcun seguito. Il ministro Sarti disse di avere ritirato la domanda di adesione già all’indomani della sua presentazione. La scoperta di Castiglion Fibocchi segnò il crollo della loggia e per Licio Gelli un lungo periodo di eventi nega­ tivi. Sottrattosi alla cattura dopo la perquisizione, resterà latitante sino al 13 settembre dell’anno successivo, quando sarà arrestato a Ginevra. Nel frattempo, il 4 luglio 1981, la figlia maggiore, Maria Grazia, verrà perquisita all’aeroporto di Roma; nel doppiofondo della sua valigia, saranno rinve­ nuti molti documenti. Tra i più importanti, figurava il Piano di Rinascita Democratica e il «Field Manual 30-31», a firma del generale William Westmoreland, che conteneva dichia­ razioni assai compromettenti sulle ingerenze americane nei 52


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Paesi alleati, anche se è opportuno precisare che gli Stati Uniti disconosceranno sempre quel documento. Gli obiettivi che quei documenti si proponevano erano due: da un lato avvertire gli americani circa la disponibilità di Gelli a parlare e fornire prove materiali se non fosse stato aiutato (e da questo punto di vista poco importa che il «FM30-31» fosse vero o falso, perché il messaggio era comunque chiaro; anzi, meglio se falso: colpo di avvertimento a salve); dall’altro si tirava in ballo Giancarlo Elia Valori (citato in al­ cuni documenti di minore importanza che riconducevano al PRD), allo scopo di arrivare a Fanfani e fare pressione su uno dei massimi dirigenti della DC. Come era ovvio, Gelli negò sempre di aver nascosto di proposito quei documenti nel doppio fondo della valigia perché venissero trovati, sostenendo (assai poco credibil­ mente) di averli affidati alla figlia affinché lei li consegnasse a una persona imprecisata, allo scopo di preparare la propria difesa.29 Il 10 dicembre, il Parlamento approvava a larghissima maggioranza la decisione del governo di sciogliere la P2 e un mese dopo veniva approvata la legge 17-1982 che vietava le associazioni segrete. Dopo un anno di detenzione, il 9 settembre 1983, Gelli evadeva dal carcere svizzero di Champ-Dollon. Seguiranno quattro anni di latitanza in giro per l’Europa, con non in­ frequenti puntate in Italia, sotto falso nome e debitamente travestito. Il 19 marzo 1986, Michele Sindona fu condannato all’er­ gastolo come mandante dell’assassinio dell’avvocato Giulio Ambrosoli, ma dopo soli tre giorni morì in carcere per avere ingerito un caffè al curaro. Nel 1987, Gelli si costituì a Ginevra e nel febbraio succes­ sivo fu estradato in Italia. Assegnato agli arresti domiciliari a Villa Wanda, sarà rimesso in libertà l’11 aprile 1989. 53


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Nel frattempo grandinavano condanne e nuovi avvisi di garanzia. Le accuse maggiori (assassinio di Calvi, cospi­ razione politica) si risolveranno in un verdetto assolutorio. Le condanne in ultimo grado riguarderanno calunnie (come quella per i depistaggi per la strage di Bologna) o reati mi­ nori. Per il fallimento dell’Ambrosiano, Gelli sarà condan­ nato in via definitiva, ma nel 1999 la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (la corte di Strasburgo) annullerà la sen­ tenza, condannando al risarcimento lo Stato italiano per l’ir­ ragionevole durata del processo. Dalle vicende giudiziarie Gelli uscì sostanzialmente in­ denne, anche se quella di aver vinto quarantanove procedi­ menti su cinquanta fu una sua vanteria eccessiva (almeno tre condanne ci furono). Ad ogni modo, la sua carriera politica finì: espulso con procedimento lampo dal GOI, dimessosi (forzatamente) da tutti gli incarichi diplomatici, costretto a occuparsi stabilmente delle sue grane giudiziarie, restò un personaggio noto alla stampa e all’opinione pubblica, ma assente da qualsiasi centro decisionale. Lui cercò di ac­ creditare un’ombra di potere con i più diversi stratagemmi (giunse anche a montare una sua candidatura al Premio No­ bel per la letteratura, sostenuta da un manipolo di amici, candidatura che ovviamente cadde nel nulla), ma dovette ac­ contentarsi di incarichi da operetta (consigliere economico del re del Togo, gran maestro aggiunto onorario di una delle piccole massonerie che si richiamavano a piazza del Gesù, e così via). I segnali della decadenza erano evidenti. Quasi nessuno degli adepti della loggia cercò di ristabilire contatti con lui e anche il «fratello» Silvio Berlusconi lo incontrò casual­ mente una sola volta, mostrandosi assai freddo nei suoi confronti,30 e in seguito si guardò bene dal fornirgli il minimo margine di rientro; la Mondadori non pubblicò nessuno dei suoi libri di memorie o di interviste, per i quali Gelli do­ 54


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vette rivolgersi a piccoli editori con tirature assai modeste: la sua stagione era finita.

Radiografia di una loggia molto particolare È interessante fare un’analisi della composizione socio-terri­ toriale della P2, sulla base dell’elenco di Castiglion Fibocchi. In verità, più che come un regolare piè di lista, si presen­ tava come un brogliaccio poco ordinato che metteva insieme aderenti regolari e casi particolari (ad esempio, includeva di­ ciotto persone in attesa di essere iniziate qualche settimana dopo). Gelli precisò inoltre che alcuni erano nomi di indi­ vidui che intendeva contattare, cosa che non aveva ancora fatto. A complicare il quadro, si aggiunsero altre liste, come quelle consegnate alla magistratura dallo stesso Gelli e dal gran maestro Lino Salvini. Queste ultime riguardavano però un periodo che coincideva solo parzialmente con quello del 1979-81 cui si riferirebbe l’elenco di Castiglion Fibocchi, o il libro matricola di 573 nomi sequestrato dalla commissione parlamentare presso la sede della massoneria di piazza del Gesù, ma che riguardava il periodo 1952-70. Molti nomi, effettivamente, ricorrevano in diversi elenchi, ma venirne a capo si rivelò impresa assai ardua. Infine, sorse la questione della «loggia di Montecarlo» che avrebbe ospitato i mem­ bri più influenti allo scopo di coprirne l’adesione alla P2 nei confronti dell’azione della magistratura. Lo stesso Gelli so­ stenne che il vero elenco era sfuggito nella perquisizione e che il totale effettivo era di 2400 persone,31 negando tuttavia l’esistenza della loggia di Montecarlo. Le varie liste passarono al vaglio della magistratura, di una commissione parlamentare di inchiesta, di decine di in­ chieste amministrative e di un’alluvione di servizi giornali­ stici, ciò nonostante lasciando vaste zone d’ombra. 55


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Qui non tenteremo neppure di addentrarci nella que­ stione, limitandoci a fare delle considerazioni indicative sulla base dell’elenco di Castiglion Fibocchi, giudicato dalla commissione parlamentare «sostanzialmente attendibile». La lista di Castiglion Fibocchi descriveva un apparato di potere trasversale senza precedenti. Vi comparivano i nomi di tre ministri in carica (Enrico Manca del PSI e i DC Adolfo Sarti e Franco Foschi), cinque sottosegretari, alcuni ex mini­ stri, quarantaquattro fra deputati e senatori,32 un segretario di partito in carica (Pietro Longo del PSDI). I militari erano 208, fra cui dodici generali dei carabinieri e altri quaranta ufficiali dell’Arma), cinque generali della Guardia di Finanza, ventidue generali dell’esercito, quattro generali di squadra aerea, otto ammiragli. Nei servizi segreti, gli appartenenti alla loggia ricoprivano o avevano ricoperto incarichi di vertice (il generale Giulio Grassini, direttore del SISDE), il generale Giuseppe Santovito (capo del SISMI), il generale Vito Miceli (già capo del SID sino a sette anni prima), il generale Gianadelio Maletti, Walter Pelosi (a capo del CESIS), oltre al generale Giovanni Allavena, già alto di­ rigente del SIFAR, che consegnò a Gelli copia dei fascicoli che avrebbero dovuto essere distrutti secondo la delibera­ zione del parlamento. Poi quattro questori, tre prefetti, centosessanta alti buro­ crati ministeriali, sei magistrati, un presidente di regione e un vicepresidente, dieci dirigenti RAI. Può stupire la presenza di quattro direttori di grandi alberghi, ma basta riflettere che, da sempre, molti esponenti di questa categoria figurano tra i collaboratori dei servizi di informazione e sicurezza. Non mancavano uomini d’affari come l’avvocato Umberto Ortolani, i finanzieri Roberto Calvi e Michele Sindona, Sil­ vio Berlusconi, industriali come Giacomo Agnesi (del noto pastificio), né poteva mancare Mario Lebole (dell’omonima impresa tessile). C’erano Franco Angeli (dell’omonima casa 56


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editrice), dirigenti di grandi aziende a partecipazione sta­ tale come Leonardo Di Donna, presidente dell’ENI, oltre a ventisette giornalisti e una nutrita schiera di cantanti e uo­ mini di spettacolo come Claudio Villa, Alighiero Noschese, Gino Latilla, Maurizio Costanzo. E non mancava nemmeno il «principe ereditario» Vittorio Emanuele di Savoia, fresco dell’increscioso incidente dell’isola di Cavallo, una lite con un altro playboy concluso a colpi di fucile e che costò la vita a un giovane tedesco, Dirk Hamer, che non c’entrava nulla con l’alterco. Una riflessione particolare riguarda i banchieri: fra i venti presidenti e direttori generali di banche compresi nell’e­ lenco, vanno segnalati Loris Scricciolo e Giovanni Cresti del Monte dei Paschi di Siena, Alberto Ferrari e Gianfranco Graziadei della BNL, e Giovanni Guidi del Banco di Roma. Un caso particolare è quello di Roberto Calvi, principale esponente del polo cattolico cui possiamo associare anche Michele Sindona con la sua Banca Privata Finanziaria. Per il resto, si tratta di banche locali (soprattutto la Popolare dell’Etruria, ma anche la Cassa di Risparmio delle Provincie Siciliane e quella di La Spezia, le banche del Monte di Mi­ lano e Bologna ecc.). Spicca la presenza di banche toscane (MPS, Etruria, Mediocredito per la Toscana, Banca To­ scana) e siciliane (Cassa Risparmio Province Siciliane, Banca di Messina, Banca Sicula). Più o meno le stesse considerazioni si possono fare per i ventisei funzionari o direttori di sede. Quello che più colpi­ sce è la differenza di livello fra il gruppo degli aderenti mili­ tari o appartenenti ai servizi (in gran parte ai massimi livelli della gerarchia) e quello dei banchieri, raccolti essenzial­ mente fra piccole o medie banche di provincia (salvo le po­ che eccezioni indicate) e nel polo cattolico (Calvi, Sindona e il Banco di Roma, che con il Credito Italiano e la Banca Commerciale è una delle tre Banche di Interesse Nazionale, 57


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e tra queste ultime la più vicina al polo cattolico). Sono as­ senti i grandi nomi delle banche d’affari, a cominciare da Mediobanca e dal grande salotto della Montedison. A que­ sto proposito, Gelli ricorda la rivalità e l’odio che contrap­ ponevano Enrico Cuccia a Michele Sindona (vedremo poi perché).33 Sostanzialmente, era presente la serie B del mondo banca­ rio che, però, premeva per entrare nel Gotha delle grandi so­ cietà, facendo saltare il lucchetto del capitalismo di relazione. La riflessione sulle banche ci porta anche a un’altra ana­ lisi di genere territoriale. Il gruppo più numeroso è quello romano, con circa quat­ trocento adepti risiedenti a Roma. Il che è comprensibile, data l’alta concentrazione di dirigenti ministeriali, dei ser­ vizi segreti, alti ufficiali ecc., cui si aggiungevano quelli del Banco di Roma. Al secondo posto troviamo saldamente la Toscana con 185 aderenti, seguono Sicilia e Piemonte. Dun­ que, in qualche modo, possiamo interpretare la P2 come la confluenza di un pezzo di «partito regionale romano» (alti burocrati, alti ufficiali, uomini dei servizi, parte del mondo bancario romano e forse prelati)34 e di un pezzo di «partito toscano» (banchieri, professionisti, politici), in cui, come detto, la presenza della massoneria è tradizionalmente forte. È altrettanto interessante la rilevante partecipazione siciliana.

Fra Andreotti e Gelli: la conglomerata del potere Per comprendere che cosa sia stata la P2 e il suo ruolo nella storia del periodo repubblicano, occorre esaminare gli equilibri nell’architettura di potere sorta dopo la guerra. Non ci riferiamo agli assetti descritti dalla Costituzione for­ male, ma a quelli della costituzione materiale, il cui aspetto 58


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più noto fu certamente la conventio ad excludendum di cui parla Leopoldo Elia, e che implicò altri aspetti meno visi­ bili e meno studiati. In primo luogo, il patto che dette vita a Mediobanca, ideata da Enrico Cuccia, da cui discesero altri due patti conseguenti. L’operazione era finalizzata sia a proteggere il polo ban­ cario milanese da quello romano, sia a schermare la finanza dalla politica, ma anche a impedire l’insorgere di «sfide» al potere costituito finanziario dall’interno del Paese, e a va­ rare una compagine di capitale nazionale in grado di resi­ stere a sfide esterne. Il primo obiettivo fu quello di consociare i maggiori po­ tentati finanziari, ricorrendo alle due principali tecniche del capitale di relazione: il sistema piramidale e i patti di sinda­ cato. Tecniche non solo italiane, in verità, ma praticate molto meno in Europa: in Francia le piramidi societarie riguar­ dano il 25 per cento delle società, in Spagna il 20 per cento, in Germania il 15 e in Inghilterra nessuna, mentre in Italia il fenomeno ha interessato sino al 45 per cento delle società. Per quanto riguarda i patti di sindacato, la media negli altri Paesi è del 15 per cento delle società mentre in Italia è del 40 e, in quanto ai meccanismi di rafforzamento del controllo, ben l’85 per cento delle società italiane vi fa o vi ha fatto ri­ corso (contro il 35 per cento della Germania), e il 58 per cento adotta più di un meccanismo di controllo.35 Lo scopo, dunque, è quello di consolidare l’assetto di potere finanziario blindando le maggiori società nei confronti di possibili sca­ late interne o estere. Questo «retrostante» fu il primo patto non scritto della nuova Costituzione materiale, da cui ne de­ riveranno gli altri due, che possiamo definire con le rispettive formule: il patto di reciproca esclusione e il patto della X. In base al primo, gli esponenti politici non avrebbero ri­ vestito cariche negli enti finanziari di cui avrebbero garan­ tito l’autonomia, e gli esponenti del mondo finanziario si 59


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sarebbero astenuti dal partecipare in prima persona a com­ petizioni politiche. Il patto implicava che anche il gruppo di­ rigente degli enti a partecipazione statale avrebbe goduto di piena autonomia dal potere politico e si sarebbe raccordato con il «salotto buono» di Mediobanca, nel quale confluì sul finire degli anni Cinquanta. In virtù del secondo, il «patto della X », ai cattolici sa­ rebbe stato riservato il ruolo dominante in politica, mentre il controllo delle grandi banche d’affari sarebbe spettato al mondo laico. I laici avrebbero svolto una parte meno impor­ tante in politica e al mondo cattolico sarebbe andato il con­ trollo della seconda linea del mondo bancario, quello degli istituti di raccolta (casse di risparmio, casse rurali e artigiane ecc.). Un intreccio, uno schema a forma di X, appunto. I tre patti costituirono il cemento principale della nuova costitu­ zione materiale. Questo assetto subì una parziale sfida da parte del presi­ dente dell’ENI Enrico Mattei, con il suo spregiudicato rap­ porto con Fanfani e con la corrente di sinistra della DC, ma nel complesso resse per tutto il cinquantennio della prima Repubblica, nonostante una seconda e ben più pericolosa sfida lanciata da Giulio Andreotti e da Licio Gelli. Quella andreottiana rappresentò un unicum fra le cor­ renti democristiane. Ogni corrente democristiana ha avuto monsignori e banchieri di riferimento, ma nessuna un car­ dinale che partecipava alle sue riunioni, come invece faceva monsignor Fiorenzo Angelini, dal momento che ne era im­ plicitamente un esponente. Inoltre, nessun’altra corrente aveva registrato un intervento altrettanto diretto nel mondo finanziario, come fece invece quella andreottiana nel caso della Commerciale di Lugano, o della Rasini di Milano, o nelle vicende interne alla Montedison. Quasi tutte le correnti della DC avevano un rapporto preferenziale con questo o quel pezzo di mondo militare, 60


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con il rappresentante di un servizio di informazione e sicu­ rezza o con un suo settore, ma solo la corrente andreottiana ha avuto un rapporto così diretto con esponenti di primis­ simo piano (ad esempio, Roberto Jucci o Gianadelio Ma­ letti) sommandovi una strettissima relazione con un servizio parallelo a quello militare, il «Noto servizio». Così come fu molto fitta la partecipazione alla corrente di militari e fun­ zionari del Ministero della Difesa. Anche i rapporti con funzionari e dirigenti di altri ministeri furono intensi, ed estesi quelli con il mondo dell’informazione. La corrente andreottiana è stata il primo esempio riuscito di «conglo­ merata del potere» nel sistema italiano. In qualche modo, questo fu anche il modello della P2, con la quale ebbe più di un punto di contatto. Tra le due realtà, si può osservare un altro parallelismo: se la P2 ebbe il suo decollo intorno al 1968, la stessa data segna il passaggio della corrente andreottiana da gruppo regionale (essenzialmente laziale) a corrente nazionale, con il confluire nelle sue file del potente gruppo fanfaniano di Sicilia (Vito Ciancimino, Salvo Lima e altri). Nello stesso tempo, la P2, che con Giancarlo Elia Valori navigava nelle acque territoriali fanfaniane, passava nelle mani di Gelli il quale, tramite il deputato Diecidue, era entrato in rapporto con Andreotti. La stessa composizione sociale della P2 era assai simile a quella della corrente andreottiana: vasta partecipazione di militari, in particolare dei servizi segreti, giornalisti, indu­ striali, forte presenza dell’alta burocrazia. Quanto a mon­ signori, nell’elenco non ne figurano, ma, a dare credito a Gelli, non ne mancavano nella loggia. A suo modo, anche la P2 fu una conglomerata del potere che, per il tramite di Sindona e in sintonia con Andreotti, tentò l’assalto al Gotha finanziario della Montedison e, attra­ verso questo, a Mediobanca. In buona sostanza, si trattava di un tentativo di rovesciare il patto che separava potere poli­ 61


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tico e potere economico, e il patto che teneva i cattolici in posizione subalterna rispetto ai laici nel mondo finanziario.

Cosa fu la P2? La P2 è stata oggetto di giudizi contrastanti. Ad esempio, Massimo Teodori (in una stagione politica diversa della sua vita; oggi non sappiamo se ripeterebbe quel giudizio) parlò della P2 come del punto di raccolta di tutta la partitocrazia.36 La sentenza della Corte d’Appello che mandava assolti i piduisti dall’accusa di cospirazione politica parla di un’associa­ zione funzionale ad affari economici poco puliti ma lontani da un’ipotesi cospirativa. Indro Montanelli fa suo questo giu­ dizio parlando di «cricca di affaristi».37 La presidente della commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia, Tina Anselmi, la definisce come l’antecedente di Silvio Berlusconi.38 Il presidente della commissione parlamentare sulle stragi Giovanni Pellegrino ne parla come di un circolo dell’oltran­ zismo atlantico. Autori come Sergio Flamigni o Mario Gua­ rino sottolineano l’aspetto della cospirazione politica e indi­ cano in Berlusconi il prosecutore dell’opera gelliana. Va detto che gran parte di questi giudizi contengono no­ tevoli elementi di verità, ma una storia della P2 condotta con rigorosi criteri scientifici non è stata ancora scritta. Per dirla con il linguaggio degli storici, c’è una vulgata ma non un canone. Si è prodotta (come per le stragi ordinoviste e in buona parte per il terrorismo «rosso») una strana situazione in cui convivono un giudicato penale prevalentemente assoluto­ rio sulla loggia nel suo complesso, una vasta pubblicistica in larga parte colpevolista e, in mezzo, l’assoluto vuoto della storiografia, che al solito evita i temi troppo scottanti, prefe­ rendo argomenti più «tranquilli». Una situazione che ha gra­ 62


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vemente pregiudicato la comprensione del fenomeno e della sua eredità nel prosieguo della storia italiana. Nell’analisi della P2 è sempre stato centrale l’aspetto criminologico, che ha finito con mettere in ombra tutto il resto, dalla sua cultura politica al suo ruolo nel mondo finanziario al di là delle vicende oggetto di processo penale. La P2 e i suoi uomini non hanno solo commesso reati, ma anche cose penalmente non rilevanti ma non per questo ininfluenti sulla storia del Paese. Il giudizio politico può essere negativo,39 ma questo non toglie che si debba esaminare ogni aspetto, liberi dalla dimensione penale che non è il mestiere dello storico. Tutto è stato invece compresso in un pacchetto unidi­ mensionale che non ha permesso di capire il fenomeno nella sua reale dimensione politica, a prescindere dalla natura le­ cita o illecita dei mezzi scelti, e paradossalmente questo ha favorito, più che combattuto, la persistenza di quella cultura nel dibattito politico successivo. D ’altro canto, ha prevalso un uso propagandistico dell’argomento P2. Ad esempio, è spesso capitato che una proposta politica o istituzionale non sia stata discussa, ed eventualmente avversata, non esami­ nandola nel merito, ma perché assonante con questa o quella proposta della P2. A lungo andare, ciò è diventato una spe­ cie di esorcismo che, come tutti gli esorcismi, ha perso effi­ cacia e significatività. Una seria ricostruzione storiografica, al contrario, non può avere pregiudizi di sorta e deve procedere avalutativa­ mente. Lo storico non deve emettere sentenze penali, deve analizzare un fenomeno in tutte le sue dimensioni, spiegarne le origini, esaminarne il decorso, individuare il suo lascito e, se lo ritiene opportuno, esprimere un giudizio politico (non morale) ma solo dopo che l’analisi sia compiuta. Per di più, la frammentazione in cento casi processuali ha fatto perdere la visione di insieme del fenomeno. 63


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Forse è venuto il momento di ricomporre i pezzi per rico­ struire una storia a tutto tondo della P2. In tal modo, diven­ teranno comprensibili molti aspetti ancora troppo in ombra, a cominciare dalla questione di quale fu il vertice della P2. Tina Anselmi descrisse «il sistema P2» come una doppia pi­ ramide che aveva in Gelli il suo punto di congiunzione fra i due vertici. Al di sotto di Gelli, c’era la P2 emersa e cono­ sciuta, che faceva capo al Venerabile. Ma sullo stesso Vene­ rabile si elevava un’altra piramide rovesciata che deteneva il comando effettivo e che è rimasta sconosciuta. La vedova di Roberto Calvi ha fatto sua questa interpretazione riferendo di aver ricevuto dal marito confidenze in proposito. Altri, fra cui Pecorelli, hanno parlato di Gelli come del «colonnello della P2» ma non del generale, ruolo che era di altri rimasti in ombra. Il «pentito di CIA» Richard Brenneke, nel 1987, parlò di una P7 sovraordinata rispetto alla P2, e che avrebbe accolto nel suo seno, fra gli altri, il principe Bernardo di Olanda e il primo ministro giapponese Tanaka.40 In effetti vi sono accenni, più che veri indizi, che avvalo­ rano l’ipotesi di qualcosa che «stava più in alto della P2».41 Potrebbe trattarsi di qualcosa di già noto (un organo «uffi­ cioso» della NATO, il Bilderberg, la Trilateral, l’American Security Council Foundation o chissà cos’altro) o di ancora sconosciuto. Ma sin qui è emerso troppo poco per poterne affermare l’esistenza o per poter dire alcunché. Da questa ipotesi di una super P2 è discesa un’altra con­ vinzione: vale a dire che, sciolta la loggia di Gelli, sia rimasta la sua versione potenziata che ha proseguito nel complotto con altri uomini e mezzi. Anche qui, però, manca qualsiasi riscontro. Si tratta per di più di un’ipotesi un po’ inverosimile. Come si sa, c’è uno scontro di lunga data fra complottisti e anticomplottisti pre­ giudiziali, che si riflette anche in questa occasione. Di conse­ 64


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guenza, al solito le posizioni polari risultano egualmente non credibili proprio per il loro carattere pregiudiziale. Negare l’esistenza di complotti, congiure, operazioni coperte ecc. equivale a negare la storia, che invece abbonda di così tanti esempi da non essere neppure necessario citarne qualcuno; viceversa, spiegare ogni congiuntura, avvenimento o feno­ meno invocando l’azione di forze e trame oscure equivale di nuovo a negare la realtà riducendola a una spy story di cat­ tiva qualità. Congiure e processi sociali, complotti e correnti culturali, operazioni coperte e scontri politici scopertissimi convivono nella realtà, si intrecciano, si condizionano a vi­ cenda. Ciò che marca la differenza è che i processi profondi sono lenti, solo parzialmente intenzionali e, per loro natura, non possono essere coperti, mentre le congiure sono sem­ pre operazioni intenzionali e limitate nel tempo, finalizzate a raggiungere un determinato risultato in tempi politici e non epocali. Non appare plausibile perciò pensare a un’eterna cospirazione, che sopravvive ai suoi stessi iniziatori, protraendosi per decenni. Certamente esistono società più o meno segrete (la massoneria è la più nota, ma potremmo aggiun­ gere gli Illuminati di Baviera, i Rosacroce e altri) e organi­ smi più o meno coperti, o anche pubblici, che non rendono note le loro azioni o i loro dibattiti interni (la Trilateral, l’Aspen, il Bilderberg, per certi versi l’Opus D ei...). Tuttavia, a parte il fatto che prima o poi vengono allo scoperto o sono oggetto di scandali, anche quando durano nel tempo sono veicolo di progetti diversi, e promuovono operazioni diverse e non sempre coerenti fra loro. Dunque, è anche possibile che esistesse un livello superiore della P2 rimasto coperto; quel che è certo è che a distanza di quarant’anni, ammesso che l’organismo sia ancora attivo, ne saranno cambiati quasi totalmente i componenti, non fosse altro per ragioni anagra­ fiche. Ed è ragionevole supporre che, mantenendo magari una stessa ispirazione di fondo, abbia avuto una sua storia 65


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con evoluzioni, scissioni, confluenze, sostituzioni e che, so­ prattutto, si saranno succedute nel tempo operazioni dif­ ferenti. E non è affatto detto che a questo livello superiore vada riportata una P2 attuale, magari più nascosta o ancora da scoprire. Tutto è possibile ma, alla fine, il filo più tenace che attraversa il tempo sono le idee più che le strutture or­ ganizzative, e le idee, in un modo o nell’altro, si manifestano e sono riconoscibili. Anche la vicenda della P2 va letta in questa luce, ricercandola più sul piano delle idee che in un «filo nero» che colleghi l’organismo di ieri al supposto orga­ nismo segreto di oggi. Non tutto si può spiegare con l’eterno ricorso ai complotti. Partiamo quindi da un punto centrale: la P2 fu lo stato maggiore della strategia della tensione? Questo presuppor­ rebbe una omogeneità strategica fondata a sua volta su ade­ guati meccanismi organizzativi e disciplinari. Abbiamo già detto come sia scarsamente probabile che tutti gli adepti fossero omogenei a un progetto golpista. Aggiungiamo qui come appaia poco coerente con quell’impostazione la fre­ quenza di aperti conflitti fra aderenti alla loggia, e come que­ sta non si dimostrò in grado né di mediare né di impedire che tali contrapposizioni assumessero carattere pubblico. Tanto per fare un esempio, nonostante alla P2 aderissero sia Federico Umberto D ’Amato e altri funzionari dell’Uffi­ cio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, sia Gianadelio Maletti, Vito Miceli e altri dirigenti di massimo livello del SID, le inimicizie furibonde fra i due organismi prosegui­ rono ininterrotte con continue, reciproche aggressioni. Allo stesso modo, troviamo nella loggia molti «carissimi nemici» appartenenti alla medesima intelligence: ad esempio, gli stessi Maletti e Miceli; e come non ricordare che Miceli, du­ rante il processo di Catanzaro, fece condannare il «fratello» Saverio Malizia per falsa testimonianza? Anche Umberto Ortolani, «braccio finanziario» della P2, subì un sequestro 66


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di persona cui non sembrarono estranei alcuni membri della loggia. Calvi stava dietro ai manifesti fatti affiggere da Lu­ igi Cavallo42 che attaccavano senza mezzi termini Sindona, e non mancarono scontri cruenti tra «fratelli» nella torbida vicenda Ambrosiano-IOR. Anche nella sfera politica non mancarono episodi di durissimo conflitto, come quello tra manciniani e demartiniani nel PSI o, nella DC, tra uomini della sinistra di base come Pisanu e Marcora e dorotei come Carenini o hiltoniani come De Carolis. E potremmo conti­ nuare a lungo. Ne viene fuori una storia di conflitti continui e molto aspri poco compatibile con la disciplina che sarebbe nor­ male presumere in un gruppo di cospiratori. In realtà, nella P2 confluirono i gruppi di potere più diversi, con disegni spesso opposti. La P2 non fu uno stato maggiore capace di imporre indirizzi strategici comuni a tutti, quanto piuttosto una «camera di compensazione» dove cercare di mediare quei conflitti, non sempre con successo. All’interno di que­ sta «camera di compensazione» c’era un gruppo particolare, riunito intorno al suo Venerabile, che costeggiò quelle trame con non infrequenti compromissioni. Il potere in Italia è sempre stato attraversato da molte­ plici linee di frattura territoriali, economiche, politiche e ha sempre prodotto mille particolarismi, rivalità, concorrenze e alleanze precarie, assenza di un’autorità centrale capace di mediarle, se non disciplinarle. Non sempre c’è stato un Lo­ renzo de’ Medici capace di gestire la politica degli equilibri succeduti alla pace di Lodi, o un Camillo Benso di Cavour abile a tenere le redini del caotico moto risorgimentale. In linea di massima, è spesso mancato un efficace centro di me­ diazione e direzione della politica italiana. In un Paese con questa storia, la P2 fu soprattutto l’intu­ izione di costruire una rete orizzontale e trasversale di cor­ porazioni, correnti politiche e cordate regionali in grado di 67


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riunire le varie frazioni del potere in un progetto di gestione autoritaria della crisi sociale e politica. Ma, al di là del carat­ tere reazionario del progetto, Gelli non era certamente né Lorenzo il Magnifico, né Cavour. Al massimo ne era un pe­ destre imitatore di ben più basso livello. Ciò nonostante, la P2 riuscì ad aprire la porta a una cor­ rente di pensiero che le sopravviverà. E di questo tratteremo nel prossimo capitolo.

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Capitolo secondo Il pensiero politico di G elli e il Piano di Rinascita Democratica

Il contesto storico internazionale A cavallo fra gli anni Sessanta e i Settanta, una serie di eventi (i movimenti di protesta del Sessantotto, il fallimento dell’in­ tervento americano in Indocina, il dilagare delle guerriglie di sinistra in America Latina e in Africa, i primi sintomi della crisi dell’ordine monetario stabilito a Bretton Woods, la terza e la quarta guerra in Medio Oriente, la crisi petrolifera, la caduta dei regimi fascisti di Spagna, Portogallo e Gre­ cia ecc.) scossero seriamente gli equilibri di forza stabilitisi dall’inizio della Guerra fredda. Se la rottura cino-sovietica faceva balenare l’ipotesi di un ordine mondiale tripolare, l’e­ gemonia americana appariva invece seriamente minacciata da crisi economiche e varie insorgenze. Oggi, a distanza di quarant’anni, sappiamo che sia l’ordine bipolare che l’ege­ monia americana sull’Occidente resistettero e che fu l’im­ pero sovietico a franare. Tale esito, però, alla metà degli anni Settanta appariva tutt’altro che scontato e neppure prevedi­ bile. Fu quello, infatti, certamente il momento di maggiore espansione dell’influenza sovietica che, oltre al tradizionale blocco dell’Est europeo, attirava nella sua orbita nuovi Pa­ esi, dall’Etiopia all’Angola, all’Afghanistan, alla Somalia,


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alla Siria all’Algeria, anche se non mancarono defezioni di influenti Paesi amici come Egitto e Sudan. Era dunque ragionevole che una parte dei circoli atlantici considerasse il declino dell’egemonia americana una pro­ spettiva concreta a cui opporsi. Più ancora, preoccupavano i segnali di crisi sociale interna. Il modello americano non appariva più seducente come sino a pochi anni prima, e non solo nella società europea, ma negli stessi Stati Uniti, dove la rivolta giovanile giungeva inaspettata e si saldava con quella della popolazione di colore. Inizialmente, si pensò di riassor­ bire i movimenti di protesta con i classici meccanismi di con­ senso mediati dal Welfare State. Un tale proposito si scontrò però ben presto con la crisi economica, in larga parte deter­ minata dal deficit statale e dalla crescente pressione fiscale. Le politiche di big government implicavano da un lato forti spese militari, diventate enormi a causa della guerra in Viet­ nam e di ulteriori interventi di minore portata, dall’altro un’estesa politica di welfare necessariamente costosa. Tutte le società occidentali furono attraversate, in varia mi­ sura, da un’ondata di movimenti di protesta. La generazione nata dopo la guerra metteva in discussione sia gli equilibri san­ citi dalla Guerra fredda sia la legittimità stessa del sistema so­ ciale e politico, e reclamava una più profonda partecipazione democratica. A questo si aggiunsero, in molti Paesi, rivendica­ zioni salariali senza precedenti e altri movimenti di vario ge­ nere: dal dissenso religioso a quello dei ceti marginali ecc. Questo ribollire di istanze, affermazioni di identità e pro­ teste non riuscì ad assumere le forme di un progetto politico e la «stagione dei movimenti» si concluse definitivamente nella seconda metà degli anni Settanta: già nel 1973, il mo­ vimento era in pieno riflusso in Germania, Inghilterra, Stati Uniti, Francia, e dopo qualche anno anche in Italia. Nel 1975, si svolse un importante convegno di studi or­ ganizzato dalla Trilateral Commission (nata due anni prima, 70


2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica

come raccordo fra i circoli dirigenti finanziari e industriali di USA, Europa e Giappone). I tre relatori principali (il francese Michel Crozier, l’ame­ ricano Samuel Huntington e il giapponese Joji Watanuki)1 furono concordi nel diagnosticare la crisi come prodotta dal «sovraccarico del sistema decisionale», che rendeva lo Stato facile preda del ricatto dei più diversi gruppi sociali, e dal conseguente indebolimento dell’autorità governativa. Da una simile diagnosi discendeva la necessità di una riforma complessiva che riducesse il campo di intervento statale e, contestualmente, restituisse funzionalità decisionale e pre­ stigio all’esecutivo, in modo da consentirgli di agire come riaggregatore della domanda sociale. Si riproponeva perciò il tema della centralità dell’esecutivo da «schermare» rispetto alle pressioni della società civile, ed è interessante notare che, se negli USA questo processo si accompagnò a una Presidenza sempre più forte e all’isolamento delle sacche di resistenza, in Europa si incentrò nella spinta a superare il re­ gime parlamentare, quantomeno nella prassi. In questo quadro, il rafforzamento dell’esecutivo a sca­ pito del parlamento, il «raffreddamento» degli istituti di de­ mocrazia diretta (come il referendum), la regolamentazione legislativa dei conflitti in materia di lavoro furono altrettanti passaggi necessari sul piano istituzionale. Questa analisi, basata sul «sovraccarico e anarchia della domanda politica» e sulla «crisi dei meccanismi della deci­ sione», venne ripresa dal sociologo tedesco Niklas Luhmann e dallo storico italiano Giuseppe Are.2 L’interpretazione fu invece contestata da autori che proponevano modelli più sofisticati: da Alain Touraine a Shmuel Eisenstadt, da Seymour Lipset ad Alessandro Pizzorno, e molti altri. In effetti, quello dei relatori della Trilateral era un modello scientificamente debole: ad esempio, so­ vraccarico della domanda rispetto a quali parametri? Quelli 71


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della ricchezza prodotta? Perché non prendere in conside­ razione la curva della distribuzione? E perché non conside­ rare il peso delle spese militari che crebbero poi fortemente dalla fine degli anni Settanta e per tutti gli Ottanta? Che la crescita della domanda fosse in eccesso rispetto alle esigenze dell’accumulazione era un dato non dimostrato. Né è chiaro cosa si intendesse per «crisi dei meccanismi della decisione», se non l’esigenza di sottrarre una quantità di decisioni alla procedura democratica per portarle all’interno di quello che Pizzorno chiama «il nucleo cesareo del potere». La debolezza teorica del modello fu largamente com­ pensata dall’appoggio del ceto politico e del potere econo­ mico, sia europeo che americano, e da quello conseguente dei mass media. In breve, si affermò l’idea che la stagione dei movimenti era stata solo una sorta di «scapigliatura» più ricca di aspettative irragionevoli, di ideologismi esasperati e d’inaudita violenza politica che di reale aspirazione a un di­ verso modello di democrazia. Si avviò in tal modo una sorta di «controrivoluzione culturale» tesa a restaurare ciò che la contestazione aveva intaccato. I «decisori» politici ed econo­ mici iniziarono a pensare che, lungi dall’assicurare pace so­ ciale, il Welfare State aveva solo fatto crescere le aspettative, rivelandosi causa di nuovi conflitti. D ’altro canto, non era difficile prevedere che lo smantel­ lamento dello stato sociale, per quanto graduale, avrebbe potuto riaccendere quella conflittualità appena sopita. Per­ tanto, accanto a una decisa opera di scomposizione del blocco sociale lavorista che lo sosteneva, si imponevano ade­ guate riforme istituzionali in grado di restituire al sistema la «capacità di decidere». Occorreva smantellare il compro­ messo socialdemocratico che era alla base del welfare e che, soprattutto in Europa, aveva prodotto lo «stato sociale di di­ ritto», e per fare questo si doveva espugnare la roccaforte dei partiti socialisti, socialdemocratici, laburisti che vigilavano su 72


2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica

quel patto. E questo avverrà tra la fine degli anni Ottanta e primi Novanta con l’ascesa di leader come Schroder o Blair nei rispettivi partiti. Ma, nella prima metà degli anni Settanta, il problema era quello di mettere le briglie alla conflittualità, comporre i dissidi interni alle classi dirigenti, liquidarne le componenti riformiste, blindare il potere decisionale, soprat­ tutto per quanto riguardava il governo. A questi obiettivi ri­ spondeva il Piano di Rinascita Democratica della P2.

Il contesto nazionale e la svolta della P2 L’Italia fu la grande anomalia dell’Occidente nel secondo do­ poguerra. Non solo fu il Paese con il più importante partito comunista del «mondo libero» (e terzo del pianeta), ma anche quello in cui più lunga fu la stagione dei movimenti, che attra­ versò tutti gli anni Settanta. Mentre negli altri Paesi europei e negli Stati Uniti la protesta si era già placata intorno al 1973, in Italia il conflitto era ancora in pieno svolgimento. Proprio quell’anno segnò il più alto numero di ore di sciopero. Gli scontri di piazza si susseguivano e si profilava l’occupazione delle fabbriche. Si era cercato di fronteggiare e respingere la conflittualità sociale con la svolta neocentrista di Andreotti, con la repressione e con la strategia della tensione, ma il risul­ tato era stato esattamente l’opposto di quello auspicato. Nel maggio del 1973, la tornata contrattuale dei metalmeccanici si concludeva con un notevole successo dei sindacati, un mese dopo cadeva il governo Andreotti; seguiranno l’accordo sul punto unificato di contingenza, ma soprattutto la clamorosa sconfitta della DC (e di tutto il fronte moderato che si racco­ glieva intorno ad essa) nel referendum sul divorzio. Si apriva la stagione delle grandi avanzate elettorali del PCI. La strate­ gia della tensione era battuta e i suoi esecutori venivano rapi­ damente liquidati. 73


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È in questo quadro che la P2 attua una profonda revi­ sione della sua linea politica. Se dal 1969 aveva simpatizzato con i tentativi di forzare la situazione con un intervento mi­ litare, nel 1974 prese atto dell’impossibilità di passare per quella strada e della necessità di un approccio diverso. Dice Elisabetta Cesqui nella requisitoria già citata: Con il 1974 si chiude (e non solo a livello nazionale ) il lungo periodo contrassegnato da più o meno pilotati progetti di ri­ volgimento degli assetti istituzionali [...] ed anche la strate­ gia politica della P2 modifica il suo orientamento nel segno, come è già stato sottolineato, di una sostanziale continuità. L a nuova strategia della Loggia giustifica il crescente in­ teresse rivolto al mondo degli affari e dell’informazione, l’azione di proselitismo svolta negli alti gradi dell’ammini­ strazione, all’elaborazione di un organigramma che tenesse conto della complessa articolazione dei poteri [...]. Fino al 1975 l’interesse della P2 è concentrato soprattutto nell’ambito delle Forze armate e dei Carabinieri [...] ed in questo periodo cominciamo a trovare tra gli iscritti ed i fre­ quentatori di Gelli ufficiali che, con il progredire della car­ riera, manterranno i contatti con la loggia. Nel 1975 la stra­ tegia della P2 si adatta al mutamento della situazione poli­ tica generale e l’operazione di esautoramento del potere co­ mincia ad organizzarsi attraverso un progressivo «accerchia­ mento» delle sedi istituzionali (come risulta dall’analisi della distribuzione degli iscritti nelle amministrazioni pubbliche e negli enti pubblici economici, da raffrontare ad esempio con l’organigramma unito al cd «piano di rinascita demo­ cratico» e con i propositi del piano di rinascita stesso).3

La conquista dei partiti Non più un assalto frontale, dunque, ma un assedio che punta a ottenere il potere con metodi non militari. In questa fase, l’azione della P2 avrà tre direttrici principali: la conquista 74


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dall’interno dei partiti politici, la conquista della proprietà dei giornali, la conquista di posizioni chiave nella finanza. Cia­ scuno di questi tre punti merita qualche spiegazione. La conquista dei partiti era strettamente collegata al pro­ getto di riforma istituzionale e, in particolare, della riforma elettorale in senso maggioritario, allo scopo di emarginare definitivamente il PCI. Il progetto riguardava pertanto tutti i partiti dell’arco anticomunista (o che si supponeva potes­ sero rientrarvi), dall’MSI al PSI, seppure con una manovra articolata e diversificata per le singole organizzazioni. Il caso più delicato era quello dell’MSI-Destra Nazionale,4 uscito gravemente danneggiato dalle vicende della strategia della tensione. In verità, in oltre quarant’anni di inchieste è emerso ben poco sulle responsabilità del partito di Giorgio Almirante nelle stragi e nei tentati colpi di Stato, ma negli anni Settanta era convinzione assai diffusa che fa­ cesse parte dello stato maggiore di quella strategia. In effetti, non mancavano compromissioni di esponenti del partito in eventi ad essa riconducibili (ad esempio, la partecipazione dell’onorevole Sandro Saccucci al golpe Borghese, nel quale anche la P2 ebbe un suo ruolo). Di conseguenza, si auspicava una svolta che scolorisse il più possibile la matrice fascista del partito, annegandola in un aggregato conservator-cattolico che fungesse al con­ tempo da gruppo di pressione verso la DC. Lo stesso Almirante tentò qualcosa del genere, verso la fine del 1974, va­ rando un’infelice «Costituente di destra per la libertà» che ebbe vita assai breve. È da sottolineare come a proporre l’abbandono del simbolo e una radicale presa di distanza dal fascismo sia stato, nel 1975, l’ammiraglio Birindelli, depu­ tato di MSI-Destra Nazionale, ma anche membro della P2. Meno complessa appariva la manovra riguardante la DC nella quale, ovviamente, si auspicava il successo del blocco dorotei-andreottiani-fanfaniani (che venne battuto di mi­ 75


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sura dal blocco delle correnti di sinistra - la cosiddetta «area Zac» - nel congresso del 1976) e l’emarginazione della sini­ stra, e in particolare di Moro. I partiti laici di centro (liberali, repubblicani e socialdemocratici) erano quelli costituzional­ mente più omogenei al progetto. L’altro caso delicato era quello del PSI, di cui si auspicava il passaggio nel campo anticomunista attraverso la sconfitta della componente di sinistra lombardiana e lo smembra­ mento del centro demartiniano e della corrente di centrosi­ nistra di Giacomo Mancini,5 a favore della destra autonomi­ sta. All’interno di quest’ultima, la P2 individuava in Bettino Craxi l’esponente più adatto a traghettare il partito verso la sponda desiderata. La vittoria degli orientamenti più favo­ revoli al progetto della P2 sarebbe stata assicurata dal soste­ gno economico alle correnti amiche e dal reclutamento di parlamentari e dirigenti.

La conquista dei mass media Per quanto riguarda i mass media, il piano specificava che l’operazione sarebbe stata condotta attraverso l’acquisizione delle testate da parte di imprenditori amici (come, appunto, nel caso di Rizzoli e Tassan Din). Il punto merita ulteriori approfondimenti. Dopo le av­ visaglie, negli anni Cinquanta e Sessanta, di un giornalismo d’inchiesta non allineato con il potere,6 negli anni Settanta si verificò una serie di fenomeni interagenti destinati a scon­ volgere il panorama dell’informazione nel nostro Paese: in primo luogo, l’inizio della controinformazione,7 poi la na­ scita di testate come il manifesto, Lotta Continua, Il Quoti­ diano dei Lavoratori e delle prime radio libere. Si creò così un circuito informativo alternativo a quello ufficiale che si collocava a sinistra anche rispetto al polo della stampa co­ 76


2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica

munista.8 Nonostante la grande povertà di mezzi, la con­ troinformazione di estrema sinistra ottenne notevoli successi soprattutto sul tema della strategia della tensione. Il libro La strage di Stato, ad esempio, arrivò a vendere mezzo milione di copie negli anni Settanta, nel corso dei quali venne co­ stantemente ristampato. In alcuni giorni di diffusione stra­ ordinaria, il manifesto e Lotta Continua toccarono le cento­ mila copie vendute, e non di rado le loro inchieste vennero riprese da settimanali autorevoli come l’Espresso, Panorama, Settegiorni. Molti giornalisti di quelle testate divennero in seguito firme del nuovo quotidiano La Repubblica. Persino un piccolo bollettino ciclostilato come il BCD (Bollettino di Controinformazione Democratica, fondato da Guido Nozzoli del Giorno) era seguito con molta attenzione dall’Ufficio Af­ fari Riservati del Ministero dell’Interno.9 Ben si comprende come la P2 fosse molto preoccupata di inchieste giornalisti­ che che toccavano temi assai sensibili per la loggia. Nello stesso tempo, si produceva un forte processo di concentrazione editoriale in larga parte innescato dai forti disavanzi delle maggiori testate: «Corriere della Sera»: nel 1975 perdita di esercizio di un mi­ liardo 772 milioni, nel 1976 di 2 miliardi 683 milioni. «Corriere di Informazione»: nel 1975 perdita di esercizio di 5 miliardi 385 milioni, nel 1976 i 6 miliardi 563 milioni. Nel 1976 la perdita di esercizio dell’«Editoriale Corriere della Sera» è di 13 miliardi 826 milioni. «L a Stam pa» e «Stam pa sera»: nel 1975, 5 miliardi e 667 mi­ lioni [...]. «Il M essaggero»: nel 1975 perdita di 1 miliardo 900 milioni, nel 1976, 3 miliardi 642 milioni. «Il Giorno»: nel 1974, 6 miliardi 697 milioni, nel 1975, 8 mi­ liardi 975 milioni, nel 1976, 10 miliardi 110 milioni [ . ] . 10Il

Il processo comportò l’espulsione dal mercato degli «edi­ tori puri» (cioè non titolari di imprese economiche in altri 77


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settori) come i Crespi, costretti a vendere il Corriere della Sera, anche a causa di una martellante campagna scandali­ stica contro il «Corriere filo comunista» alla quale la P2 non fu certo estranea.11 E proprio l’operazione «Corriere» rappre­ sentò il maggior successo della P2 nel mondo dell’informa­ zione, segnando il passaggio dai Crespi al binomio Angelo Rizzoli-Bruno Tassan Din (notoriamente affiliato alla P2). L’interesse della P2 per il mondo dell’informazione ebbe anche un’altra direttrice: la costituzione di poli indipen­ denti radiofonici e televisivi che sarebbe dovuta sfociare in un polo privato nazionale destinato a sostituire la RAI. Gelli si dimostrava uomo di grande intuito, prevedendo le poten­ zialità di una televisione di intrattenimento nel mutare la cultura di base degli italiani. Come si sa, il piano verrà poi attuato dal cavalier Berlusconi, che partirà proprio dalla cre­ azione di un network di emittenti locali.

La penetrazione nel mondo finanziario Più complesso è l’aspetto finanziario, riguardo al quale non si trattava solo di procurarsi ingenti finanziamenti in grado di sostenere il piano. Il disegno era più ampio: entrare nella stanza dei bottoni della finanza - Mediobanca e Montedison - forzandone il lucchetto. In altri termini, si doveva portare all’attacco il blocco sociale del polo cattolico, alleato della schiera delle piccole banche toscane, siciliane e piemontesi, e far così saltare il «patto della X » che teneva il polo cat­ tolico lontano dai piani alti della finanza. Per realizzare ciò, era necessario forzare anche l’altro patto, quello di reciproca esclusione. Ciò avrebbe permesso di trovare nel mondo po­ litico le leve per condurre l’operazione. E questa fu la base oggettiva della convergenza fra Gelli e Andreotti (non a caso Sindona è collegato a entrambi, e come lui Calvi). Al di là 78


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di ogni manovra coperta o di ogni complotto, vi era il pro­ blema, da risolvere invece in termini scopertissimi, di spin­ gere un blocco sociale a forzare gli assetti di potere esistenti. Non è detto che simili manovre si attuino sempre e solo con azioni illegali: all’epoca dei fatti, finanziare una corrente politica non era proibito, e neppure era illegale acquistare una testata giornalistica o tentare la scalata a un titolo in borsa. Ovviamente, il reato scattava in caso di corruzione, falso in bilancio o aggiotaggio, ma non è detto che la P2 vi abbia fatto ricorso. Il confine fra legalità e illegalità, in questi casi, è molto sottile ed è complicato fornirne le prove. Per questo motivo le accuse alla P2 si sono concentrate sulle trame eversive (del primo periodo), mentre la fase successiva è rimasta più in ombra, meno indagata dalla magistratura, meno sondata dalle inchieste giornalistiche e meno presa in considerazione dagli studiosi che, in genere, hanno preferito adagiarsi nella visione tranquillizzante di una P2 covo di af­ faristi. Ma la verità storica è un’altra. Le vicende di Sindona e Calvi dimostrano una strategia fi­ nanziaria che puntava alla conquista della Montedison (all’e­ poca la più grande società finanziaria del Paese), e da lì sfon­ dare la porta del «salotto buono» di Mediobanca. Nell’ope­ razione Montedison, emergono contiguità tra uomini della P2 (come Sindona), uomini della corrente andreottiana e uomini del «Noto Servizio» (come Giorgio Pisanò). Così come meriterebbe un approfondimento (se non venissimo meno al nostro proposito di lasciare da parte il «lato oscuro» della storia della P2 per concentrarci sulla sua cultura poli­ tica) il fatto che nel memoriale di Moro, scritto dal carcere delle Brigate Rosse, ci sia un intero capitolo dedicato al caso Montedison, che però manca palesemente di alcune pagine, poiché non si aggancia logicamente al resto del documento.

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La cultura politica della P2 Nella cultura politica della P2, si nota una complessa strati­ ficazione. E Gelli ne è in qualche modo il campione ideale, anche per ragioni generazionali. Alla sua base, c’è un forte residuo di cultura fascista, con la sua esaltazione dello Stato forte e il rifiuto del conflitto sociale. Chi nacque a cavallo del 1920, seguì tutto il corso formativo del regime, da figlio della lupa, ad avanguardista a giovane italiano, ad aderente al GUF, e ovviamente assorbì molto di quel clima. Tutta una generazione ne fu fortemente intrisa. Poi ci fu chi se ne disfece, abbracciando i nuovi valori democratici dell’Italia repubblicana, ma anche chi, al con­ trario, si chiuse nella sterile nostalgia del regime. Una parte considerevole subì quel processo di adattamento di cui ab­ biamo detto nel capitolo precedente, nutrendo nell’intimo la convinzione che l’ordinamento precedente fosse preferibile all’attuale, ma disperando di vederlo restaurato, e dunque accettando a malincuore di convivere con il presente. Uno dei sedimenti più persistenti di quella cultura politica fu l’antiparlamentarismo. Chi sfogli riviste come la Destra di Prezzolini, o il Borghese di Longanesi, Candido di Guareschi (o l’Uomo Qualunque di Giannini), chi legga i corsivi di Ricciardetto su Epoca, o gli articoli di Indro Montanelli sul Corriere della Sera, o gli ultimi scritti di Curzio Malaparte, si rende conto di quanto fosse ancora diffusa la cultura an­ tiparlamentare, anche al di là dell’area residuale del neofa­ scismo. È del tutto ragionevole supporre che una larga parte di quanti figurano nella lista di Castiglion Fibocchi si fosse nutrita di quelle letture ed è facilissimo trovare citazioni di Gelli che esprimano quel fondo culturale. E dall’antiparlamentarismo al rifiuto del pluralismo poli­ tico e all’avversione ai partiti il passo è brevissimo. Il fascismo non aveva certo condannato il partito politico in quanto tale, 80


2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica

ma la presenza di più partiti. Il rifiuto della politica, e dunque dei partiti, fu fatto proprio dall’Uomo Qualunque, che aspi­ rava a uno Stato puramente amministrativo «retto da un ra­ gioniere che al 31 dicembre presenti i conti dello Stato e non sia rieleggibile per nessun motivo», come diceva Giannini. Pe­ raltro, l’avversione ai partiti fu teorizzata anche da autorevoli accademici come Giuseppe Maranini (l’inventore del termine «partitocrazia», usato la prima volta nella prolusione all’anno accademico 1949-50 dell’Università di Firenze), o Giacomo Perticone, o da noti opinionisti come Panfilo Gentile o Mario Vinciguerra, nelle cui critiche si fondevano motivi di ispira­ zione liberale e conservatrice. Questa opposizione alla demo­ crazia dei partiti puntava la propria attenzione sulle gerarchie di partito in quanto indebito diaframma fra cittadini e parla­ mento, spesso auspicando un ritorno al collegio uninominale maggioritario. E gran parte di questi umori erano condivisi da una parte significativa di affiliati alla P2, e certamente dal suo Venerabile che, però, pensava a una svolta molto più radicale con il passaggio al presidenzialismo. In questo atteggiamento politico, erano ben riconosci­ bili l’anticomunismo e l’antisocialismo, su cui si innestò una nuova analisi del fenomeno ispirata dagli stati maggiori della NATO: le teorie sulla guerra psicologica, che fondevano le elaborazioni dello stato maggiore americano sulla controinsorgenza (seguite alla sconfitta del Kuomintang in Cina a opera di Mao e al diffondersi delle guerriglie in Asia) con quelle sulla «guerra rivoluzionaria» del gruppo di La Cité Catholique interno allo stato maggiore francese (seguite alle sconfitte in Vietnam e Algeria). La teoria della «guerra rivoluzionaria» si basava sui se­ guenti capisaldi teorici: a. il movimento comunista era solo uno strumento in mano alla Russia, che incarnava lo spirito del «dispotismo orien81


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b.

c.

d.

e.

f.

g.

h.

tale» di sempre e mirava alla conquista del mondo;12 per­ tanto l’intero movimento comunista altro non era che il «partito orientale»; l’URSS aveva già intrapreso la sua guerra di aggressione nei confronti dell’Occidente ma, non potendo ricorrere alle armi convenzionali, a causa del rischio nucleare, ri­ correva alla «guerra rivoluzionaria»; tale forma di conflitto, assolutamente innovativa rispetto al passato, mescolava indifferentemente forme di lotta le­ gali e illegali, violente e non violente, palesi e occulte, pa­ cifiche e violente, in base alla convenienza del momento; le agitazioni sociali ed economiche non erano che pretesti per contrabbandare pressioni politiche; il conflitto cino-sovietico rappresentava solo un dissenso momentaneo di ordine tattico che non intaccava minima­ mente la sostanziale unità strategica dell’intero blocco so­ cialista; i partiti comunisti non avevano alcuna autonomia da Mo­ sca e costituivano le articolazioni periferiche di un unico organismo mondiale pensato in funzione dell’espansione dell’impero sovietico; i sindacati controllati dai partiti comunisti facevano anch’essi parte dello stesso apparato mondiale e il loro compito era quello di disarticolare l’economia del mondo libero attraverso l’arma della lotta di classe; il ricorso a forme di lotta legale era funzionale a preparare le condizioni per la «spallata finale», cui già stava lavo­ rando l’apparato clandestino di ogni partito comunista; conseguentemente occorreva scendere sul suo stesso ter­ reno della guerra non ortodossa, imitandone la spregiudi­ catezza e le tecniche di azione.

Questa analisi si fondeva con quella sulla controinsorgenza che, inizialmente pensata per i Paesi in via di sviluppo, 82


2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica

venne applicata ai Paesi sviluppati man mano che emerge­ vano le prime forme di guerriglia urbana. Ebbe inoltre un autorevole avallo in sede accademica nei primi mesi del 1962, con due conferenze di Carl Schmitt nelle università di Pamplona e Saragozza, poi raccolte nel volume Teoria del partigiano.13 Vi sono riassunti i princi­ pali capisaldi della teoria della controinsorgenza: contro la guerra per bande quella convenzionale è perdente, l’unico modo per sconfiggere un avversario di questo tipo è accet­ tare di combattere sul suo stesso terreno. Riprendendo N a­ poleone, Schmitt affermava: «Il faut opérer en partisan où il y a des partisans». Ed è interessante notare come Schmitt indichi nell’esperienza dell’OAS il modello di una risposta efficace alla guerriglia del campo comunista. Nel giugno del 1959, si svolgeva un convegno della NATO sul problema della guerra politica contro l’URSS e una delle relazioni veniva tenuta da Suzanne Labin, che introduceva la nozione di guerra politica, ricollegandosi, in qualche modo, alle teorizzazioni dello stato maggiore francese sull’argo­ mento. La Labin fu l’animatrice anche dei successivi conve­ gni del 1960 e del 1961. Quest’ultimo si svolse a Roma fra il 18 e il 22 novembre 1961. Il convegno era organizzato, oltre che dalla Labin, dagli ex ministri italiani Ivan Matteo Lombardo (presidente del «Comitato Italiano Atlantico» e vicepresidente dell’Atlantic Treaty Association) e Randolfo Pacciardi. Vi parteciparono personaggi che ritroveremo negli elenchi di Castiglion Fibocchi, come il principe Giovanni Alliata di Monreale o il direttore del Borghese Mario Tedeschi. La dottrina della guerra rivoluzionaria fu dottrina uffi­ ciale della NATO dal 1960 al 1974, quando venne abban­ donata anche a seguito della caduta di Richard Nixon, e coincise con la fase più cruenta della Guerra fredda, allor­ ché alle turbolenze castrensi sollecitate dall’Occidente se ne contrapposero altre ispirate dal blocco sovietico. 83


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Quello che va dal 1960 al 1973 è il periodo più intenso di tentativi di colpo di Stato, riusciti o falliti, di tutto il do­ poguerra: Argentina 1960, marzo 1962, agosto 1962, 1963, 1966 e 1969, Bolivia 1964 e 1970, Brasile 1964, Repubblica Dominicana 1962 e 1963, Ecuador 1961 e 1963, El Salvador 1960 e 1961, Guatemala 1960 e 1963, Honduras 1963, Perù 1962, 1963 e 1968, Venezuela 1962, Birmania 1962, Ceylon 1962, Indonesia 1965, Laos 1960 e 1964, Nepal 1960, Viet­ nam 1963, Iraq 1963, Libano 1961, Siria 1961, 1962, 1963 e 1966, Congo (Brazzaville) 1963, Etiopia 1961, Gabon 1964, Tanzania 1964, Togo 1963, Uganda 1964, Algeria 1965, Ghana 1966, Turchia 1960, 1962 e 1963, Congo (Kinshasa) 1965, Dahomey 1965 e 1967, Alto Volta 1966, Burundi 1966, Nigeria 1966, Repubblica Centrafricana 1966, Rwanda 1966, Sierra Leone 1966, Grecia 1967 e 1973, Mali 1968, Libia 1969, Sudan 1971, Uruguay 1973, Cile 1973. La cultura della P2 fu profondamente intrisa di queste te­ orie, continuamente riproposte da Gelli nei suoi scritti. Ad esempio, il Venerabile, tanto nello schema R che nel PRD, usa l’espressione «Partito orientale» per indicare il PCI ed è significativo che fra i documenti nascosti nel doppio fondo della valigia di Maria Grazia Gelli ci fosse il Field Manual 30-31 del 1970, a firma del generale Westmoreland - poi pubblicato nel vol. VII «Doc. XXIII n. 2 quater/7/I» de­ gli atti della commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2 -, tutto inerente a quella tematica. Un documento forse falso (anche se non ne saremmo affatto si­ curi, dal momento che le smentite di parte americana sono ovviamente scontate), ma che lascia intendere come Gelli alludesse a qualcosa che il destinatario dell’avvertimento avrebbe compreso. A questo punto, la nostra ricostruzione ci porta ad affron­ tare un tema delicato e spesso oggetto di confusione: il rap­ porto fra Gelli e gli americani. 84


2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica

Durante la guerra, come abbiamo detto, Gelli intrattenne un gioco spregiudicato con i servizi segreti inglesi. I rap­ porti con gli americani invece non furono particolarmente cordiali. E saranno un tormentone nel racconto della P2, so­ prattutto dopo il 1981. Ma americani è una indicazione ab­ bastanza vaga: quali americani? C’è una costante nella sto­ ria della P2: gli americani con cui intrattiene rapporti sono quelli della destra repubblicana. Un americano (ma forse do­ vremmo scrivere «amerikano») con cui Gelli ebbe molte fre­ quentazioni fu Michael Ledeen, repubblicano, come lo era Philip Guarino, altro antico amico di Gelli, e come Frank Gigliotti, anche lui appartenente alla destra repubblicana. In contatto con gli oltranzisti repubblicani era anche il pidu­ ista Edgardo Sogno, che firmò un affidavit di presentazione negli USA per il piduista Sindona. Né è un caso che Gelli sia stato invitato ufficialmente alla cerimonia di insediamento presidenziale di Ronald Reagan. Al contrario, non risultano contatti con ambienti democratici. Ed è significativo che lo smantellamento degli apparati legati alla teoria della guerra rivoluzionaria si verificò dopo la caduta di Nixon in seguito allo scandalo Watergate.Il

Il memorandum introduttivo allo Schema «R» Per capire i piani della P2, occorre considerare il PRD nel contesto di altri due documenti: il memorandum sulla situa­ zione politica italiana nel 1975 e lo Schema «R» (che sta forse per Rinascita o Ricostruzione). Il memorandum era nella vali­ gia di Maria Grazia Gelli, insieme al PRD, mentre lo schema «R » (pur essendo precedente di un anno rispetto al PRD) verrà fuori più tardi, pubblicato da Gelli nel suo libro di me­ morie in difesa della P2.14 Questo ci pone seri problemi di natura, per così dire, filologica. Che i documenti siano esistiti 85


Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi)

e risalgano effettivamente a un periodo collocabile intorno al 1975 è certo, perché diversi affiliati alla loggia (tra cui il ge­ nerale Falde) confermarono sia in sede giudiziaria che parla­ mentare di averne discusso con Gelli, ma nessuno ne ha pro­ dotto copia. Quindi, di tutti e tre i documenti abbiamo solo la copia fornita da Gelli nelle occasioni ricordate, né esiste un registro di protocollo che ne certifichi la data, per cui: - non siamo affatto sicuri che ciascun testo corrisponda esattamente a quello discusso a suo tempo con altri piduisti, o ci siano state correzioni, soppressioni, interpola­ zioni; - non siamo neppure sicuri della successione cronologica. In ogni caso, procederemo prendendo per buone le di­ chiarazioni di Gelli che pone al primo posto lo Schema e dopo il PRD. Il memorandum è presumibilmente la pre­ messa logica dello Schema «R » e quindi lo esamineremo per primo. L’inizio echeggia inequivocabilmente la tesi del «so­ vraccarico della domanda» di cui si è già detto:1 1. L a situazione politica italiana è caratterizzata da un alto livello di instabilità per il concomitante effetto di tre cause: a. crisi economica gravissima per eccesso di pretese salariali, scarso rendimento sul lavoro, basso rapporto fra popola­ zione presente e forza di lavoro (36,5% ), aumento dei costi delle fonti d ’energia, fuga dei capitali all’estero [...] b. crisi morale profonda per l’errore compiuto [ . ] nel rite­ nere maturo un paese con una storia come quella italiana ad essere elevato di colpo al livello nordeuropeo [ . ] c. crisi politica nell’interno dei partiti stessi per le difficoltà di adeguarsi al cambiamento verificatosi nel corpo sociale [...] 2. Conseguenza evidente dell’instabilità è la forte tendenza di ogni singolo cittadino ad una partecipazione più attiva alla

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2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica vita pubblica, non per assumervi porzioni di responsabilità, bensì per desumerne fette maggiori di potere o di utile perso­ nale. Tale fenomeno è particolarmente visibile sulla scena sin­ dacale ove le spinte di tipo settoriale (cosiddette corporative) risultino ingovernabili dalle centrali confederali costrette, il più delle volte, a cavalcare la tigre contro logica e ragione.

L’esame prosegue paventando le possibili evoluzioni verso una guerra civile e un regime dittatoriale, citando i consueti esempi storici (Russia 1917, Italia 1922, Germania 1933), ma con una rilevante eccezione che lascia capire in quale dire­ zione occorresse muoversi: Fa eccezione la crisi francese del 1958 - pur così simile alla nostra attuale - ove la figura di De Gaulle e la presenza di una dirigenza amministrativa, politica, economica e militare di altissima qualificazione hanno potuto salvaguardare li­ bertà e democrazia in un ordinamento che peraltro consente all’esecutivo di governare il Paese in chiave moderna.

Dunque, il modello di riforma costituzionale indicato è quello presidenzialista francese.15 Totalmente in linea con le teorie NATO circa la «guerra rivoluzionaria» è l’analisi ri­ guardo al PCI: Non si vede come l’Italia possa sottrarsi a tale ineluttabile destino soprattutto quando si è in presenza di un PC I ca­ pace, meglio delle altre formazioni politiche, di rendersi interprete e protagonista dei cambiamenti verificatisi nella società civile (più per difetto di presenza degli altri partiti che per virtù proprie, salvo quella indiscutibile di sapere ben gestire pubbliche relazioni e pubblicità per cui il PCI riesce a contrabbandare per oculata amministrazione quel che è soltanto maggiore capacità di fare contrarre debiti agli enti locali che controlla). Un PCI, sia chiaro, che nasconde il suo vero volto ungherese e cecoslovacco con una maschera di perbenismo e di neo illuminismo liberale molto simile alla

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Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi) N E P di Leniniana memoria, ma del quale è ormai evidente il gioco delle parti nella manovra dei cosiddetti gruppuscoli. L’attuale silenzio di questi - in paragone del clamore ante 15 giugno - è infatti la più chiara riprova dell’esistenza di un piano al quale non dovrebbe essere estranea perfino la mano del K G B in certe efferate stragi troppo simili agli eccidi di Katyn o di Mauthausen per non fare temere che ne siano autori sovietici o tedeschi orientali.

L’esame prosegue lamentando lo sfaldamento dei partiti anticomunisti (soprattutto della DC); e si ritiene ormai ina­ deguato lo schema di un sistema politico articolato su due partiti: uno liberal-conservatore e uno laburista socialde­ mocratico. Uno schema ormai obsoleto e che, comunque, richiederebbe per la sua realizzazione troppo tempo, per cui sarebbe stato più proficuo orientarsi, nell’immediato, verso un’aggregazione di tutto il fonte anticomunista. Ciò poneva tuttavia il problema dell’MSI, che occorreva «defascistiz­ zare» per renderlo «solubile» in uno schieramento del ge­ nere (e qui è facile rinvenire le radici della scissione di De­ mocrazia Nazionale che avverrà di lì a poco). A proposito della nuova formazione di destra «pulita», si dice: È certo che siffatta variante andrebbe fortemente colorita di antifascismo per evitare le inevitabili reazioni del PCI e dei suoi fiancheggiatori il cui precipuo interesse è oggi quello di non sciogliere affatto il M SI proprio perché rappresenta un ottimo frigorifero di voti non utilizzabili in Parlamento per sostenere il sistema democratico.

Ma questo avrebbe richiesto una riorganizzazione radi­ cale dei partiti in questione e in particolare della DC, della quale si dice: È bene aggiungere, a m o’ di conclusione, che se per raggiun­ gere gli obiettivi fosse necessario inserirsi - qualora si dispo­

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2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica nesse dei fondi necessari pari a circa 10 miliardi - nell’at­ tuale sistema di tesseramento della D C per acquistare il par­ tito, occorrerebbe farlo senza esitare con gelido machiavelli­ smo posto che «Parigi vale bene una M essa».

Tanto per essere chiari... Infine, risulta inevitabile la denuncia dei danni che l’unità sindacale avrebbe arrecato al Paese e la necessità di operare al fine di una rottura al suo interno «con una spesa aggiun­ tiva di 5-10 miliardi». Di particolare valore strategico è il punto riguardante i sindacati, che a partire dal 1969 avevano avviato un pro­ cesso di riunificazione, fermatosi allo stadio dell’unità d’a­ zione espressa dal patto istitutivo della Federazione Unitaria CGIL, CISL, UIL. In verità, anche se la CGIL era maggio­ ritaria rispetto alle altre federazioni e al suo interno la com­ ponente comunista era preponderante, il patto prevedeva clausole in base alle quali le decisioni sarebbero state prese all’unanimità. Di conseguenza, la prevalenza numerica della CGIL non determinava alcuna leadership comunista sulla federazione. Ciò nonostante, si era saldata un’intesa molto forte fra la CGIL, la componente socialista della UIL e la si­ nistra CISL (che rifletteva l’intesa fra PCI, PSI e sinistra cat­ tolica che andava profilandosi anche a livello politico), per cui il movimento sindacale era di fatto il fondamento della strategia di inserimento del PCI. Sin quando ci fosse stato il cemento dell’unità sindacale, il progetto di Gelli di aggre­ gare un fronte anticomunista, dall’MSI alla destra PSI, non avrebbe avuto alcuna possibilità di riuscita. Gelli sperava nella disponibilità della destra CISL (guidata dal segretario regionale siciliano Vito Scalia e da quello pugliese Leandro Tacconi) e delle componenti repubblicana e socialdemocra­ tica della UIL, ma si trattava di un pacchetto decisamente minoritario e politicamente debole. La destra era in mino­ 89


Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi)

ranza nella CISL e aveva i suoi punti di forza nelle regioni meridionali e nel sindacato dei braccianti, numeroso ma po­ liticamente poco rilevante, mentre la sinistra era saldamente in maggioranza nelle regioni del Centro-nord e nelle catego­ rie dell’industria (a parte gli edili). Nella UIL la situazione era parzialmente migliore, dal punto di vista di Gelli, perché le componenti PRI e PSDI alleate avevano il cinquantatré per cento dei voti. Ma, anche qui, i punti di forza erano rap­ presentati da categorie politicamente deboli come i brac­ cianti o il pubblico impiego, mentre i socialisti controllavano i metalmeccanici, i chimici, gli elettrici, la scuola. Conside­ rato che la UIL era la più piccola delle tre confederazioni e contava poco più di un milione di iscritti (contro i tre della CISL e i quattro e mezzo della CGIL), una scissione avrebbe avuto un seguito assai limitato. Realisticamente, mettendo insieme le destre di CISL e UIL, alcuni sindacati autonomi come la CISAL e alcune schegge uscite precedentemente dalla UIL (la UILMD), la nuova confederazione, nella mi­ gliore delle ipotesi, non avrebbe raggiunto i due milioni di iscritti (contro i presumibili sette della Federazione Unita­ ria). Per di più, sarebbe stata debole nell’industria e nei ser­ vizi. E, infatti, la scissione di CISL e UIL non ci fu, anzi, nella seconda la componente socialdemocratica si alleò con quella socialista eleggendo segretario generale il socialista Giorgio Benvenuto.16 Della CISL divennero segretari generali prima Luigi Macario e dopo Pierre Carniti, entrambi provenienti dai metalmeccanici, sinistra della confederazione. I rapporti fra le tre confederazioni si guasteranno nei primi anni Ot­ tanta, sino allo scioglimento della Federazione Unitaria nel 1984, ma non certo ad opera della P2. Si trattò, probabilmente, della maggiore sconfitta poli­ tica della P2, che dovette subire i governi di solidarietà na­ zionale nel triennio 1976-79, in coincidenza con l’inizio del suo declino. 90


2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica

Da queste premesse (perfettamente coerenti con quelle radici di cultura politica di cui si è detto), discendeva il piano di riforme proposto in primo luogo dallo Schema «R» che Gelli assicurava di aver consegnato a suo tempo al pre­ sidente della Repubblica Giovanni Leone. Questi però lo smentì, affermando di non saperne nulla. Cossiga, da parte sua, confermò invece di averlo ricevuto, ma di non avergli dato peso, e di non averlo neppure letto. La questione non può che rimanere irrisolta, ma tenderemmo a dare più cre­ dito a Leone che a Gelli.

Lo Schema «R» Lo Schema «R » è un appunto preparatorio e come tale mo­ stra caratteri molto approssimativi. Si presenta come un in­ sieme assai ambizioso e dettagliatissimo in cinquantaquattro punti che vanno dal ripristino della nona brigata motoriz­ zata dei carabinieri al divieto della pornografia, dall’aboli­ zione del servizio di leva17 all’inasprimento delle pene per l’emissione di assegni a vuoto, dall’eliminazione della pro­ stituzione nei luoghi pubblici al fermo di polizia. Una rifles­ sione su ciascuno di questi punti non sarebbe superflua, ma ci porterebbe troppo lontano dal filo principale della nostra trattazione. Lascia perplessi una frase che segue immediatamente i cinquantaquattro punti:Il Il presente schema non prelude ad un colpo di Stato, ma ha solo valore indicativo in merito all’adozione di alcuni prov­ vedimenti che si ritengono essere l’unica soluzione, purché applicati con la massima immediatezza, in grado di scongiu­ rare l’irreparabile jattura di una guerra civile e di allontanare dall’Italia il pericolo di un Governo dittatoriale di ispira­ zione comunista o fascista.

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La stessa assicurazione comparirà più avanti, nella pre­ messa del PRD: 1. L’aggettivo democratico sta a significare che sono esclusi dal presente piano ogni movente od intenzione anche oc­ culta di rovesciamento del sistema. 2. Il piano tende invece a rivitalizzare il sistema attraverso la sollecitazione di tutti gli istituti che la Costituzione prevede e disciplina, dagli organi dello Stato ai partiti politici, alla stampa, ai sindacati, ai cittadini elettori. 3. Il piano si articola in una sommaria indicazione di obiet­ tivi, nella elaborazione di procedimenti - anche alternativi - di attuazione ed infine nell’elencazione di programmi a breve, medio e lungo termine. 4. Va anche rilevato, per chiarezza, che i programmi a medio e lungo termine prevedono alcuni ritocchi alla Costituzione successivi al restauro delle istituzioni fondamentali.

Che bisogno c’era di dichiarare preliminarmente e ripetu­ tamente che non si intendeva promuovere un colpo di Stato? Di solito, un soggetto politico che non ha intenzione di fare un golpe non ha bisogno di dichiararlo. Ma anche nel caso in cui tale intenzione sussistesse, tenuto conto che si trattava di un documento interno, quel capoverso sarebbe stato inu­ tile, dato che tutti avrebbero capito che non diceva il vero. Quella frase sembra scritta «per gli occhi dei magistrati», con il fine di predisporre una linea di difesa. Potrebbe trat­ tarsi di un’interpolazione successiva, quando erano soprag­ giunte le grane giudiziarie. È utile ricordare che le uniche copie di questi programmi a nostra disposizione sono quelle fornite da Gelli. Si è già accennato che la strategia della P2, a partire dal 1974, subì una svolta che abbandonava le suggestioni di ri­ volgimenti militari, in favore di una conquista non militare del potere. Ciò però non escludeva del tutto quello che il 92


2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica

piduista Edgardo Sogno definiva lo «sbrego», ovvero una eventuale rottura costituzionale, senza uso di forze armate. Un «golpe bianco», appunto. Se il «colpo di mano» non era più l’opzione principale della P2, non per questo scompa­ riva del tutto dalla sua agenda, magari in una versione più presentabile e con una facciata di legalità. E, infatti, sia lo Schema «R » che il PRD avanzano proposte che implicavano una estesissima revisione costituzionale (si va dalla trasfor­ mazione della forma di governo al ripristino della pena di morte, alla revisione degli enti locali, alla limitazione dei poteri della Consulta ecc.) che assai difficilmente sarebbe potuta avvenire in tempi brevi (come quella «massima im­ mediatezza» farebbe pensare). Meno che mai questo sa­ rebbe stato possibile con lo scontato ostruzionismo del PCI (i regolamenti parlamentari ancora lo permettevano). Per giunta, con la mobilitazione di piazza e la richiesta di un re­ ferendum confermativo che, era scontato, sarebbero inter­ venute. L’unico modo per attuare quella revisione era un colpo di mano che aggirasse le procedure dell’art. 138, signi­ ficativamente ignorato dai due testi. L’art. 138 prevede che, per la revisione costituzionale, sia necessario che entrambi i rami del parlamento approvino la modifica a maggioranza assoluta dei componenti, e ciascuno per due volte, a distanza di tre mesi l’una dall’altra, e con testo assolutamente con­ forme. Se poi, nella votazione finale di entrambe le camere, non si dovesse raggiungere la maggioranza dei due terzi, po­ trebbe essere avanzata la richiesta di referendum conferma­ tivo. Due anni di lavori, senza calcolare un più che probabile ostruzionismo delle opposizioni. Una procedura troppo lunga e complessa per soddisfare l’urgenza a cui il testo gelliano fa cenno. Si può pertanto ben capire il motivo per cui il piano prescindeva dalle modalità previste dalla Costituzione per scegliere strade più avventu­ rose e meno ortodosse. 93


Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi)

L’ipotesi era quella di una procedura extraparlamentare che si legittimasse, con la copertura del capo dello Stato o, forse, di un referendum-plebiscito (e qui rientra in gioco quell’accenno all’«eccezione francese» di cui si è detto). In­ fatti, al punto 3 si parla di un comitato tecnico composto da undici persone, incaricato di studiare le riforme costituzio­ nalmente necessarie, e dotato di «pieni poteri». Qui si com­ prende il significato delle precisazioni sul fatto di non voler promuovere un colpo di Stato: l’inganno sta nel parlare di colpo di Stato solo con riferimento a una rivolta militare, con i carri armati in piazza, mentre una serie di atti politici che mutino l’assetto costituzionale al di fuori delle proce­ dure previste dalla Costituzione non sarebbe un colpo di Stato, ma una «soluzione di emergenza». E se poi la piazza movimentata dalla sinistra si fosse opposta, si sarebbe fatto sempre in tempo a tirar fuori i carri armati, ma, beninteso, come difesa da un tentativo di insorgenza! Quella che abbiamo sopra delineato è la parte dei due piani non scritta, ma che è facile intuire, alla luce delle con­ dizioni politiche e giuridiche del tempo. Veniamo ora al me­ rito, limitandoci a una breve elencazione dei punti riguar­ danti l’ordinamento dei poteri dello Stato: - passaggio dalla repubblica parlamentare alla repubblica presidenziale; - abolizione del bicameralismo con l’istituzione di un’unica Camera, con un settore politico e un settore tecnico; - riduzione del numero dei parlamentari; - nuova legge elettorale; - soppressione delle provincie; - riduzione dei ministeri e riforma di quello delle Parteci­ pazioni Statali; - revisione dei poteri della Corte Costituzionale con divieto di sentenze manipolative che producono «leggi additive». 94


2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica

A proposito del sistema elettorale, si accennava allo stu­ dio di una sua riforma, ma senza entrare nel merito; è certo tuttavia che l’obiettivo fosse l’abolizione del sistema pro­ porzionale, sia perché era il sistema vigente, sia perché l’e­ sigenza di aggregare un fronte anticomunista presupponeva (come sempre, quando si vuole produrre un’aggregazione fuori della logica del sistema proporzionale) un meccanismo premiale che incoraggiasse gli apparentamenti o le unioni di liste. L’accenno al caso francese fa dedurre la preferenza per il maggioritario uninominale. Si puntava dunque a un sistema a centralità non più par­ lamentare ma dell’esecutivo, retto dal voto popolare e da un sistema elettorale maggioritario, ma, soprattutto, con poteri di controllo assai limitati. In primo luogo, è ovvio che il pre­ sidente della Repubblica, come in ogni ordinamento presi­ denziale, avrebbe assommato le funzioni di capo dello Stato e di capo del governo, e quindi la carica di presidente del Consiglio avrebbe assorbito quella di capo dello Stato. Vero è che, nel sistema francese, il capo dello Stato non coincide con il capo del governo, che deve avere la fiducia del parlamento, ma nel documento in esame non si fa cenno a un voto parlamentare; e se pure ci fosse stato, come nel caso francese, il vero capo dell’esecutivo sarebbe stato il presi­ dente della Repubblica (che a Parigi presiede le riunioni del Consiglio dei Ministri). Sarebbe scomparsa la figura di «ga­ rante della Costituzione» che il nostro ordinamento prevede. Inoltre, la Corte Costituzionale avrebbe avuto poteri limitati. Soprattutto, è da capire come sarebbe stata composta. Infatti, lasciando le norme in materia quali sono nella Costituzione, cinque giudici sarebbero stati di nomina del presidente della Repubblica (e quindi, di sicuro orientamento filogoverna­ tivo), cinque espressi dai gradi superiori della magistratura e cinque di nomina parlamentare. E questo è il punto più deli­ cato: se la norma fosse rimasta la stessa, dei cinque nominati 95


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dal parlamento almeno tre sarebbero spettati alla maggio­ ranza: i tre, sommati ai cinque del presidente, avrebbero por­ tato a un numero di otto su quindici di orientamento filogo­ vernativo. Ma si sarebbe potuto verificare il caso dell’«anitra zoppa»: la «coabitazione» di un presidente di colore opposto a quello della maggioranza parlamentare (peraltro, si sarebbe presto provveduto a normalizzare la situazione con nuove elezioni). A scanso di rischi, sarebbe stato possibile variare la composizione attribuendo un maggior numero di nomine al presidente. In ogni caso, i poteri di controllo del Parlamento sarebbero diventati puramente formali. Il tutto sarebbe stato accompagnato da una repressione dei movimenti sociali: divieto di ogni sciopero e di ogni forma di manifestazione pubblica per due anni dalla pro­ mulgazione della nuova Costituzione, proibizione degli scio­ pero a carattere politico, proibizione di ogni forma di scio­ pero per magistrati, dipendenti dei corpi di polizia, studenti, medici e paramedici, dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, scioglimento del sindacato di polizia, ripristino del fermo di polizia ecc. Anche i mass media avrebbero avuto poco da agitarsi, vi­ sto che il punto 25 prevedeva la riforma dei palinsesti radio­ televisivi e l’articolo successivo la riduzione di quotidiani, settimanali e pubblicazioni periodiche per... diminuire l’im­ portazione di cellulosa. Ci chiediamo con quali strumenti si sarebbero attuate queste riduzioni. Un’ultima considerazione sulla schema «R»: la riforma del Ministero delle Partecipazioni Statali prevedeva l’accorpamento al suo interno di Programmazione Economica, Cassa per il Mezzogiorno, Medio Credito ed enti similari. Avrebbe rappresentato un primo passo verso il condizionamento del mondo finanziario per via politica, nel superamento di quel «patto di reciproca esclusione» di cui già si è detto. Era l’instaurazione di un vero e proprio regime. 96


2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica

Il Piano di Rinascita Democratica Veniamo infine al PRD partendo da un passaggio chiave: 2. Partiti politici, stampa e sindacati costituiscono oggetto di sollecitazioni possibili sul piano della manovra di tipo eco­ nomico finanziario. La disponibilità di cifre non superiori a 30 o 40 miliardi sembra sufficiente a permettere ad uomini di buona fede e ben selezionati di conquistare le posizioni chiave necessarie al loro controllo. Governo, Magistratura e Parlamento rappresentano invece obiettivi successivi, accedibili soltanto dopo il buon esito della prima operazione [...].

Ciò equivaleva a un progetto di occupazione progressiva del potere controllato da una ristretta élite: 3. Primario obiettivo e indispensabile presupposto dell’ope­ razione è la costituzione di un club (di natura rotariana per l’eterogeneità dei componenti) ove siano rappresentati, ai migliori livelli, operatori, imprenditoriali e finanziari, espo­ nenti delle professioni liberali, pubblici amministratori e magistrati, nonché pochissimi e selezionati uomini politici, che non superi il numero di 30 o 40 unità. Gli uomini che ne fanno parte debbono essere omogenei per modo di sentire, disinteresse, onestà e rigore morale, tali cioè da costituire un vero e proprio comitato di garanti rispetto ai politici che si assumeranno l’onere dell’attuazione del piano e nei confronti delle forze amiche nazionali e straniere che lo vorranno appoggiare. Importante è stabilire subito un colle­ gamento valido con la massoneria internazionale.

Ovvero, un gruppo politicamente vario, ma di comune ispirazione massonica. Come dire? «Loggia Continua». A tale eletto consesso sarebbe spettato il compito di scegliere 97


Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi)

gli uomini su cui puntare per la conquista dei rispettivi par­ titi, e il PRD ne individua alcuni (per il PSI, Mancini,18 Ma­ riani e Craxi; per il PRI, Visentini e Bandiera; per il PSDI, Orlandi e Amidei; per la DC, Andreotti, Piccoli, Gullotti e Bisaglia;19 per il PLI, Cottone e Quilleri; per il MSI-Destra Nazionale, Covelli, che un anno dopo sarà fra i promotori della scissione di DN. Era però necessaria una valutazione propedeutica: capire cioè se le formazioni politiche esistenti fossero ancora credi­ bili, nel qual caso rifornire i personaggi prescelti dei mezzi finanziari sufficienti a conquistare i rispettivi partiti; se invece i partiti fossero definitivamente risultati privi di credibilità, si sarebbe dovuto usare il denaro per l’immediata forma­ zione di due movimenti: l’uno sulla sinistra (a cavallo fra PSIPSDI-PRI-Liberali di sinistra e DC di sinistra), e l’altro sulla destra (a cavallo fra DC conservatori, liberali e democratici della Destra Nazionale). È interessante una frase successiva: [ . ] Tali movimenti dovrebbero essere fondati da altrettanti clubs promotori composti da uomini politici ed esponenti della società civile in proporzione reciproca da 1 a 3 ove i primi rappresentino l’anello di congiunzione con le attuali parti ed i secondi quello di collegamento con il mondo reale.

Si tratta di un programma che ricorda molto da vicino la successiva formazione di Forza Italia. Abbiamo già osservato, a proposito dello Schema «R», come il progetto gelliano mal si conciliasse con i tempi di una revisione costituzionale a norma dell’articolo 138. La questione viene ulteriormente chiarita nel seguente passag­ gio del PRD: Qualora invece le circostanze permettessero di contare sull’ascesa al Governo di un uomo politico (o di un’équipe)

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2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica già in sintonia con lo spirito del club e con le sue idee «ri­ presa democratica», è chiaro che i tempi dei procedimenti riceverebbero una forte accelerazione anche per la possibi­ lità di attuare subito il programma di emergenza e quello a breve termine in modo contestuale all’attuazione dei proce­ dimenti sopra descritti. In termini di tempo ciò significherebbe la possibilità di ri­ durre a 6 mesi e anche meno il tempo di intervento, qualora sussista il presupposto della disponibilità dei mezzi finanziari.

Sei mesi, o poco più, sono del tutto inconciliabili con le procedure dell’art. 138. Il PRD presuppone forti modifiche costituzionali, anche se si registrano sensibili variazioni ri­ spetto al modello precedente. Innanzitutto, si torna a un or­ dinamento bicamerale, non perfetto, bensì funzionale: a3. Ordinamento del Parlamento: i. ripartizione di fatto, di competenze fra le due Camere (funzione politica alla CD e funzione economica al SR); ii. modifica (già in corso) dei rispettivi Regolamenti per ri­ dare forza al principio del rapporto (Cost. art. 64) fra mag­ gioranza-Governo da un lato, e opposizione, dall’altro, in luogo della attuale tendenza assemblearistica; iii. adozione del principio delle sessioni temporali in fun­ zione di esecuzione del programma governativo.

Per lo meno la prima misura avrebbe imposto la revisione costituzionale. Più avanti si aggiunge: iii. modifica della Costituzione per dare alla Camera pre­ minenza politica (nomina del Primo Ministro) ed al Senato preponderanza economica (esame del bilancio);

ed è interessante notare come questa modifica si colleghi a quella precedente circa l’ordinamento del governo: 99


Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi) i. modifica della Costituzione per stabilire che il Presidente del Consiglio è eletto dalla Camera all’inizio di ogni legisla­ tura e può essere rovesciato soltanto attraverso le elezioni del successore;

Qui si fa più percepibile la differenza fra il PRD e il suo antecedente (lo Schema «R»), con un netto passaggio dal mo­ dello presidenzialista francese (o forse americano) a quello del cancellierato tedesco. Passaggio segnato, più avanti, sia dalla conferma della figura del presidente della Repubblica distinta da quella del capo del governo (ma con riduzione del mandato a cinque anni), sia dalla riforma elettorale, per la quale si parla di un sistema di tipo misto (uninominale e pro­ porzionale secondo il modello tedesco esplicitamente richia­ mato), sia, infine, dalla riforma del Senato. Per quest’ultimo si propone una rappresentanza di secondo grado, regionale, ma con alcune varianti in base alle quali si considera anche la rappresentanza degli interessi economici, sociali e culturali e si aumenta da 5 a 25 il numero dei senatori a vita di nomina presidenziale, su un totale di 250. Un’ulteriore proposta marca ulteriormente la prepon­ deranza del governo sul parlamento: stabilire che i decretilegge sono inemendabili. Non siamo in grado di spiegare il perché di questo pas­ saggio dal modello presidenziale al cancellierato tedesco, quasi fossero forme interscambiabili di governo. Probabil­ mente si ritenne che tale modello potesse incontrare minori resistenze di quello francese o americano. Oppure qualcuno degli interlocutori si dichiarò disponibile a condizione che il modello prescelto implicasse una svolta meno radicale. Bisogna tener presente una cosa: nelle polemiche politi­ che del tempo, il presidenzialismo, in ogni sua versione, fu fortemente avversato come forma di governo autoritaria e identificato come lo sbocco «moderato» della strategia della 100


2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica

tensione, mentre il cancellierato non fu mai oggetto di una campagna altrettanto virulenta. Dunque, è possibile che il passaggio da un modello all’altro fosse dettato da queste considerazioni di ordine tattico. Ad esempio, la proposta del cancellierato avrebbe potuto essere più gradita al PSI che, infatti, poco dopo la fece propria. D ’altra parte, tutto il PRD ha una impostazione più mo­ derata dello Schema «R » (ad esempio, non si parla di ripri­ stino della pena di morte e anche la parte relativa alla re­ pressione della conflittualità sociale è molto più sfumata); in compenso, c’è una maggiore considerazione delle dimen­ sioni non direttamente politiche del potere, come la magi­ stratura e l’informazione. Infatti, maggiore attenzione, rispetto allo Schema «R», è dedicata dal PRD alla magistratura che deve essere ricondotta alla funzione di garante della corretta e scrupolosa applicazione delle leggi;

E pertanto si propone l’introduzione della responsabilità civile (per colpa) dei magistrati; il divieto di nomina sulla stampa dei magistrati comunque investiti di procedimenti giudiziari; la normativa per l’accesso in carriera (esami psico­ attitudinali preliminari) e la restrizione della facoltà di con­ cedere la libertà provvisoria per determinati reati. A tutto ciò erano affiancati i seguenti provvedimenti istituzionali: i. unità del Pubblico Ministero (a norma della Costitu­ zione - articoli 107 e 112 ove il P.M. è distinto dai giudici); ii. responsabilità del Guardasigilli verso il Parlamento sull’o­ perato del P.M. (modifica costituzionale); iii. istruzione pubblica dei processi nella dialettica fra pub­ blica accusa e difesa di fronte ai giudici giudicanti,20 con abolizione di ogni segreto istruttorio con i relativi e connessi pericoli ed eliminando le attuali due fasi di istruzione;

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Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi) iv. riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento (modifica co­ stituzionale); v. riforma dell’ordinamento giudiziario per ristabilire cri­ teri di selezione per merito delle promozioni dei magistrati, imporre limiti di età per le funzioni di accusa, separare le carriere requirente e giudicante, ridurre a giudicante la fun­ zione pretorile;

Anche qui, non tutte le misure elencate erano proposte esclusive della P2 e in alcuni casi si tratta di idee ragionevoli: ad esempio, la responsabilità civile per colpa del magistrato, effettivamente introdotta dopo il referendum del novembre 1987, non è in sé un principio errato, il punto è capire se si tratta di una misura a tutela dei diritti del cittadino o di un modo per umiliare la magistratura in quanto tale, ledendone l’autonomia. Altrettanto potremmo dire del superamento della progressione automatica di carriera dei magistrati. E il senso vero delle misure proposte sta nella divisione delle carriere fra inquirente e giudicante, per portare la magistra­ tura inquirente sotto il controllo del Guardasigilli. In epoca precedente e sino a non molti anni prima, a nes­ sun esponente di destra sarebbe venuto in mente di avan­ zare simili idee, perché la magistratura era perfettamente integrata nel sistema di potere ed era in totale sintonia con il governo e la sua maggioranza. Il problema si pose dai primi anni Settanta, quando una parte (peraltro minoritaria) della magistratura iniziò a usare i suoi poteri in modo indipen­ dente - e perciò stesso molesto - dal potere politico. È illu­ minante il punto che stabilisce di ridurre alla sola funzione giudicante il ruolo pretorile, dove è evidente il ricordo, as­ sai recente all’epoca, dei «pretori d’assalto» che avevano aperto il primo scandalo petroli. La bestia nera della P2 erano questi pretori d’assalto e, più in generale, Magistra­ tura Democratica, ed è chiarissimo il senso del punto che 102


2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica

auspica un CSM responsabile davanti al Parlamento, cioè davanti alla maggioranza di governo. Altrettanta maggiore attenzione il PRD dedica ai mass media, punto appena accennato nello schema precedente. Si parte da una mappatura delle testate da controllare (Corriere della Sera, Il Giorno, il Giornale, La Stampa, il Resto del Car­ lino, Il Messaggero, Il Tempo, Roma, Il Mattino, La gazzetta del Mezzogiorno, Il Giornale di Sicilia, per i quotidiani; e per i periodici: L'Europeo, l’Espresso, Panorama, Epoca, Oggi, Gente, Famiglia Cristiana). A questo proposito, è illuminante il seguente passo: 2. Nei confronti della stampa (o, meglio, dei giornalisti) l’im­ piego degli strumenti finanziari non può, in questa fase, es­ sere previsto nominativamente. Occorrerà redigere un elenco di almeno 2 o 3 elementi, per ciascun quotidiano o periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro. L’azione dovrà es­ sere condotta a macchia d ’olio, o, meglio, a catena, da non più di 3 o 4 elementi che conoscono l’ambiente. Ai giornalisti acquisiti dovrà essere affidato il compito di «sim patizzare» per gli esponenti politici come sopra pre­ scelti in entrambe le ipotesi alternative 1c e 1d. In un secondo tempo occorrerà: a. acquisire alcuni settimanali di battaglia; b. coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso una agenzia centralizzata; c. coordinare molte TV via cavo con l’agenzia per la stampa locale; d. dissolvere la RAI-TV in nome della libertà di antenna ex art. 21 Costit.

Infine, i sindacati, per i quali la diagnosi è la solita: il grande male è l’unità sindacale che bisogna spezzare: c. i sindacati, sia confederali C ISL e UIL, sia autonomi, nella ricerca di un punto di leva per ricondurli alla loro naturale

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Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi) funzione anche al prezzo di una scissione e successiva costi­ tuzione di una libera associazione dei lavoratori.

Ma abbiamo visto quanto fosse irrealistica, al momento, l’ipotesi di una scissione sindacale. In definitiva il PRD completa, in qualche modo, il pas­ saggio della P2 dal «presidenzialismo avventuroso»21 del primo tempo, ricco di suggestioni eversive, a una diversa e più complessiva concezione del potere nelle sue varie sfac­ cettature; più che un regime, una conglomerata del potere.

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Capitolo terzo Il lungo intermezzo da G elli a Renzi

Una premessa Da tempo aleggia un dibattito nel quale si parla del PRD come di un programma realizzato, di una grande vittoria di Gelli che, da parte sua, ha confermato questa versione: «Il mio piano rinascita ha trionfato» disse in una intervista alla Stampa nel 2008. Il 28 settembre 2003 il sito Repubblica.it pubblicò un’intervista nella quale Licio Gelli affermava: Forse sì, dovrei avere i diritti d ’autore. La giustizia, la tv, l’or­ dine pubblico. H o scritto tutto trent’anni fa. Tutto nel piano di Rinascita, che preveggenza, è finita proprio come dicevo io.

E ancora: «Berlusconi se n’è letteralmente abbeverato, la giustizia e le carriere separate dei giudici, le tivù, i club rotariani in politica...». E al Fatto nel 2014: «mi fa piacere pen­ sare che, nonostante tutti mi abbiano vituperato, sotto sotto mi considerano un lungimirante propositore di leggi». Ma le cose stanno davvero così? In effetti non mancano provvedimenti fotocopia rispetto ad alcuni punti del PRD, o altri che vi possono essere assimilati. Ad esempio, la batta­ glia del Venerabile contro l’unità sindacale ebbe un riscontro con la «rottura di San Valentino» nel 1984 (ma ciò avvenne


Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi)

in gran parte per ragioni indipendenti da un’azione esterna e comunque quando la loggia era già stata sciolta). Anche l’ostilità di Gelli verso l’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori registrò un primo successo con l’intesa siglata da CISL e UIL nel 2002 come «patto per il lavoro», che im­ plicava un parziale superamento dell’articolo 18, cui ha fatto seguito la sua abrogazione da parte del governo Renzi nel 2015. Ma tutto questo è accaduto molto tempo dopo e alla fine di processi decisamente tortuosi. Altre visibili somiglianze sono rintracciabili nella sop­ pressione delle provincie, in alcuni provvedimenti sulla scuola, nella legislazione fiscale in materia di voluntary disclosure, nell’abbattimento delle aliquote per donazioni e contributi a favore di fondazioni scientifiche e culturali ri­ conosciute. Come si è visto, la P2 prediligeva programmi assai detta­ gliati, ricchi di misure settoriali, ma sarebbe fuorviante in­ seguire la panoplia delle misure gelliane in tutte le sue vo­ lute; fuorviante e inutile, anche perché molte di quelle idee non hanno affatto il copyright P2 in quanto, già da prima del 1975, si potevano leggere tranquillamente sulla stampa di destra, da quella missina a quella liberale, da quella «in­ dipendente» a quella della destra democristiana. Conviene, invece concentrare l’attenzione sul cuore del progetto gelliano, che possiamo così riassumere: - centralità dell’esecutivo e netto ridimensionamento del parlamento; - abrogazione del sistema proporzionale; - subordinazione della magistratura al potere esecutivo; - controllo politico dei mass media e disarticolazione della RAI; - abbattimento delle regole non scritte del patto di reci­ proca esclusione e di quello della X; 106


3. Il

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- eliminazione dei partiti di massa strutturati sul territorio e loro sostituzione con reti di club «rotariani» orbitanti attorno a una ristretta oligarchia autolegittimata; - costituzione di «conglomerate del potere» che control­ lano network informativi, occupano posizioni di governo, sono dotate di forza finanziaria e vantano agganci con la magistratura e con l’intelligence. È in questo quadro che occorre misurare il successo del programma gelliano, fermandoci al 2013 (il seguito sarà og­ getto del prossimo capitolo).

Alcune precisazioni Almeno nominalmente, l’Italia è rimasta una repubblica parlamentare anche dopo il 1993 e alcune crisi di governo (1994, 1998, 2005, 2008, 2011, 2014) si sono svolte secondo le regole di una democrazia parlamentare. Nei fatti, tutta­ via, l’ordinamento, grazie alle riforme elettorali, ha assunto una configurazione più «governista», perché la dinamica bipolare ha man mano portato a un ruolo più centrale del presidente del Consiglio. Non è stata cancellata la forma del governo di coalizione, ma le coalizioni si sono fatte (relati­ vamente) più rigide e tendono a formarsi nell’imminenza delle elezioni. La rottura del patto di coalizione si è tradotta in due occasioni in elezioni anticipate (1996, 2008). D ’altro canto, è proprio la struttura di governo di coalizione, con designazione preventiva del presidente del Consiglio, ad aver portato a un’evoluzione della sua figura nel senso del premierato, sebbene non ancora in quella del cancellierato. La prassi tende invece alla formazione di un asse fra la Pre­ sidenza della Repubblica e la Presidenza del Consiglio che, per certi versi, richiama tacitamente il semi-presidenzialismo 107


Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi)

francese.1 Dunque, possiamo parlare di una trasformazione in itinere, caratterizzata da uno «sbilanciamento dei poteri» a favore dell’esecutivo. D ’altra parte, la P2, come si è detto, sembrerebbe aver mutato atteggiamento, passando dalla preferenza per il pre­ sidenzialismo a quella per il cancellierato, ma sempre all’in­ terno di un’ipotesi di rafforzamento dell’esecutivo. Diciamo «sembrerebbe» perché non siamo affatto sicuri che la pre­ dilezione per il cancellierato non sia il frutto di una inter­ polazione successiva a «beneficio» della magistratura, che aveva appena aperto il procedimento sulla loggia. Di fatto, la primitiva impostazione presidenzialista appare molto più coerente con l’intero impianto gelliano; lo stesso Gelli, in interviste successive al 1975, fece più frequenti cenni al pre­ sidenzialismo che non al cancellierato. A maggior ragione questo discorso vale per il problema del sistema elettorale: il programma gelliano puntava a una coalizione di tutti i partiti anticomunisti, o a due formazioni di destra e di sinistra - en­ trambe anticomuniste e composte tanto da cattolici quanto da laici - che non avrebbero avuto modo e ragione di costitu­ irsi senza una legge elettorale maggioritaria (non si precisa se sulla base di collegi uninominali o di liste), mentre la clausola di sbarramento al cinque per cento sarebbe stata del tutto in­ sufficiente allo scopo. Anche perché la scelta sarebbe stata subordinata a un altro punto non chiarito: che fare del PCI? L’ipotesi delle due coalizioni anticomuniste avrebbe avuto senso solo se lo stesso fosse stato messo fuori legge, perché, altrimenti, il rischio sarebbe stato quello di dividere le forze a beneficio dell’avversario che, ormai, aveva raggiunto il trenta per cento circa del consenso. Perciò, l’ipotesi strategicamente più coerente sarebbe stata quella francese di un grande rassemblement anticomunista con sistema maggioritario a dop­ pio turno, che mettesse il PCI nell’angolo. In questa prospet­ tiva, il maggioritario si presta assai meglio all’ipotesi di partiti 108


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«liquidi» basati su una rete di club locali coordinati da una ri­ stretta oligarchia, mentre il sistema tedesco è sostanzialmente una democrazia dei partiti di massa organizzati. Tutto concorre a suscitare la sensazione che il modello tedesco sia una sorta di «corpo estraneo» nel progetto gelliano, inteso probabilmente come tappa intermedia, per poi evolvere verso il presidenzialismo, forse un primo passo per trovare interlocutori più disponibili; oppure vale l’ipotesi, già accennata, dell’interpolazione postuma. Per inciso, si noti come la trasformazione del sistema po­ litico proposta da Gelli implicasse la cancellazione di for­ mazioni distinte di laici e cattolici e, conseguentemente, del «patto della X», basato precisamente su questa distinzione. Di questa parte del programma gelliano è stata realizzata l’abrogazione del sistema proporzionale, che ha portato con sé la parziale mutazione della forma di governo (ancora in atto), la sostanziale liquidazione dei partiti di massa, e la loro sostituzione con il modello dei club più elite chiuse. Il primo partito costituitosi sulla base di questo modello è Forza Italia che, nei suoi vent’anni di vita, ha tenuto due soli congressi, il primo terminato con l’approvazione per accla­ mazione e il secondo con la confluenza nel PDL (salvo poi, una volta sciolto quest’ultimo, ricostituire Forza Italia). Di fatto, il gruppo dirigente del partito è stato plasmato da Sil­ vio Berlusconi, leader per acclamazione e per posizione pa­ trimoniale, in parte in forme istituzionali (i due capigruppo di Camera e Senato, il segretario-coordinatore del partito), in parte su semplice convocazione, di volta in volta, ad Arcore. Altri partiti ispirati a questo modello sono stati l’IDV di Di Pietro e Scelta Civica di Monti. Più complessa è stata la vicenda di AN che, inizialmente, ha mantenuto il modello organizzativo dell’MSI, per poi confluire nel PDL e non costituirsi più se non, parzialmente, nella formazione semi-movimentista di Fratelli d’Italia. 109


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Anche l’area cattolica in un primo momento ha mantenuto caratteri organizzativi simili alla vecchia DC; successivamente però, con la breve ma significativa esperienza della Marghe­ rita, ha operato una decisa sterzata verso strutture meno for­ malizzate e gruppi dirigenti centrali di tipo federativo. Il PDS-DS-PD ha mantenuto in una fase iniziale la strut­ tura del vecchio PCI, con organigrammi formalizzati a livello centrale e periferico, congressi, tesseramento ecc.; dopo la fusione con la Margherita e la contemporanea adozione del sistema delle elezioni primarie estese anche ai non iscritti, è andato acquisendo caratteristiche simili agli altri; al con­ tempo, i circoli di partito sono andati via via declinando. Di pari passo a questo processo, è andata affermandosi la consuetudine di ristrettissimi gruppi dirigenti informali, riuniti intorno al leader: dal «cerchio magico» di Bossi, alla corte di Arcore e al «giglio magico» di Renzi. Quanto alla distinzione fra cattolici e laici, salvo che per la sopravvivenza di piccole formazioni come Area Popo­ lare, non esistono più partiti che possano definirsi cattolici, e neppure partiti che possano definirsi laici. Pertanto non vi è più ragione di parlare di tale distinzione ed è cessato il relativo patto; allo stesso modo, con la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi (seguito più tardi da altri finanzieri come Luca Cordero di Montezemolo o Corrado Passera) si è dissolto il patto di reciproca esclusione e la linea di de­ marcazione fra politica e finanza. Come si vede, si tratta di un insieme di modelli e di pra­ tiche non identici né tra loro né al modello gelliano, ma con vistosi tratti di similitudine. La vicenda riguardante i rapporti fra magistratura e po­ tere politico è stata più complessa: nel 1987 il referendum (promosso da radicali, socialisti e socialdemocratici) sulla responsabilità civile dei magistrati registrò un successo plebiscitario. Ma solo pochi anni dopo, di quella ondata di 110


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opinione restò ben poco, nel clima di Mani Pulite. A par­ tire dai governi Berlusconi, abbiamo assistito però a una controffensiva del potere politico cui non si sono sottratti nemmeno i governi di centrosinistra, con una chiara ispi­ razione sempre più punitiva nei confronti del terzo potere. In questo senso, una normativa molto stringente è diventata legge il 19 marzo 2015: essa prevede «l’ampliamento delle possibilità di ricorso da parte del cittadino, l’innalzamento della soglia economica di rivalsa fino a metà stipendio, il superamento del filtro, l’obbligo di azione in caso di negli­ genza grave». Riguardo al controllo dei mass media e allo smantella­ mento della RAI, le cose non sono andate esattamente come previsto dal PRD, ma la nascita del polo Mediaset e la con­ temporanea, graduale disarticolazione della televisione pub­ blica sono realtà innegabili. L’asse centrale della proposta della P2, benché con sensi­ bili variazioni, ha registrato perciò affermazioni di non poco conto, a partire dal punto fondamentale dell’abolizione del sistema proporzionale, che ha aperto la porta al resto del programma. Normalmente, si addebita il ruolo di «arieti di sfonda­ mento» del piduismo a Bettino Craxi e, soprattutto, a Silvio Berlusconi, al quale si attribuisce la maggior parte dei prov­ vedimenti legislativi in questo senso. Come cercheremo di dimostrare, le cose sono decisamente più complesse, inve­ stono più piani del discorso e coinvolgono personaggi po­ litici molto diversi fra loro. Il PRD aveva rimesso in circolo idee che sembravano superate e altre nuove, idee che ormai potevano giovarsi del vento della globalizzazione neoliberi­ sta che spinge verso assetti oligarchici malamente travestiti da «rivoluzione liberale».

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Craxi Craxi ha senza dubbio la responsabilità di aver fatto da bat­ tistrada alla realizzazione delle tematiche del PRD, avviando il «mantra della governabilità» e del conseguente dibattito sulla «grande riforma». Il dibattito sulla governabilità, in ve­ rità, aveva preso le mosse dallo studio del suo contrario, ov­ vero la «ingovernabilità» delle società occidentali investite dai movimenti di protesta degli anni Sessanta-Settanta. Era palese la difficoltà dei governi di mediare fra la pres­ sione della conflittualità sociale, le politiche militari espan­ sive della Guerra fredda e il crescente indebitamento dello Stato, reso ancor più ingestibile dalla combinazione di sta­ gnazione e inflazione (la stagflation di cui trattarono Paul Baran e Paul Sweezy). Il dibattito fu innescato da intellet­ tuali di sinistra come James O ’Connor, con la sua teoria sulla «crisi fiscale dello Stato»,2 o Claus Offe, che sosteneva il col­ lasso del compromesso socialdemocratico, ormai incapace di tenere insieme mantenimento del consenso e limiti della spesa pubblica.3 A queste analisi si contrapposero economisti, filosofi e politologi della destra liberista come Milton Friedman, Frie­ drich von Hayek, Niklas Luhmann, Robert Nozick. Per i primi, l’ingovernabilità era insita nel sistema capi­ talistico e nel suo conflitto con lo sviluppo dei mezzi di pro­ duzione (come nella classica teoria marxiana, ripetuta forse troppo rigidamente), con un conseguente aumento delle aspettative incompatibile con i rapporti capitalistici di pro­ duzione. Per i secondi, l’eccesso di aspettative sovraccari­ cava di domande il sistema politico, e andava curato con lo smantellamento dello Stato sociale e una robusta dose di ini­ ziativa privata. Come è noto, prevalsero i secondi; si apriva così la strada alla «rivoluzione» neoliberista. 112


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La strategia di Craxi mutuò i suoi contenuti da questo di­ battito ma con un’operazione «riduzionista», limitata cioè al solo ambito politico-istituzionale, che rafforzava il momento decisionale rispetto a quello della contrattazione e della me­ diazione politica. In effetti, nell’opera di Craxi si riscontrano influenze di tipo decisionista prossime alle teorizzazioni di Gianfranco Miglio. Un simile metodo di governo produsse azioni come il «decreto di San Valentino», e fece identificare Craxi come la punta di lancia di una restaurazione autorita­ ria e para-gelliana (il leader del PSI in camicia nera e stiva­ loni disegnato da Forattini sulle pagine della Repubblica). In realtà, si trattò di una forzatura polemica. La figura di Craxi merita una riconsiderazione più equilibrata che, pur non ta­ cendo sulle responsabilità e gli errori, prenda in esame an­ che gli aspetti di segno contrario. Ci sono elementi dell’azione politica di Craxi che si disco­ stano nettamente dal pensiero gelliano o, successivamente, da quello neoliberista. Craxi non sostenne mai la liquida­ zione dello stato sociale, fu sempre un aperto sostenitore del primato della politica sul potere economico-finanziario; di conseguenza, non fu mai un fautore delle privatizzazioni. Soprattutto, il decisionismo craxiano non andò oltre i limiti della democrazia, anche se si trattava di una democrazia con tratti decisionisti. Inoltre, egli non caldeggiò mai l’abban­ dono del sistema elettorale proporzionale. Craxi patrocinava l’ipotesi della clausola di sbarramento del cinque per cento (più che altro, per obbligare i partiti laici ad allearsi con lui e costituire un blocco in grado di sfidare il duopolio DCPCI), ma era assai freddo sia su una divisione dei seggi fra quota uninominale e quota proporzionale sia sull’abolizione del voto di preferenza, che invece caratterizzano il modello tedesco. E, sicuramente, era ostile alla pura abolizione del sistema proporzionale e al passaggio al maggioritario, con conseguente instaurazione del bipolarismo, o bipartitismo. 113


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Infine, Craxi fu sempre sfavorevole a ogni ipotesi di supe­ ramento dei partiti di massa e all’affermazione del modello della rete di club; questa prospettiva, semmai, fu sostenuta dal suo «delfino» Claudio Martelli, con il suo Club dei club che, però, affiancava il PSI senza sostituirlo (anche se non sappiamo quali evoluzioni avrebbe potuto avere la cosa). Facendo la somma, gli elementi che differenziano la cultura politica craxiana da quella gelliana prevalgono sui punti di contatto. Ciò detto, l’azione di Craxi ha certamente avuto tre punti di contatto con il progetto gelliano: la riforma delle istitu­ zioni in senso governista, l’atteggiamento punitivo nei con­ fronti della magistratura e, in parte, la posizione sul sistema delle emittenze televisive. Sul primo punto, la proposta di Craxi si rifaceva al can­ cellierato tedesco, e questo coincide effettivamente con la proposta del PRD, pur senza escludere una sorta di presi­ denzialismo alla francese come seconda opzione. Fu netta, invece, la distanza sul tema della legge elettorale. Qualche osservazione a proposito dei due patti non scritti. Craxi cercò di conquistare la «serie A della politica» e ci ri­ uscì nel quadriennio della sua Presidenza del Consiglio, ma non mostrò mai alcun favore allo sbarco dei finanzieri catto­ lici nei piani alti della finanza (anzi, su questo punto, ebbe ri­ petuti scontri con Andreotti e i circoli finanziari a lui vicini). Del resto, cercò sempre di affermare il controllo politico sulle imprese pubbliche, non certo la loro privatizzazione o l’ap­ prodo di grandi imprenditori in politica. Almeno su questo piano, quindi, si può parlare di convergenza solo parziale con l’ipotesi di riforma del sistema politico avanzata da Gelli. Più netti furono, al contrario, i punti di contatto nella sua campagna contro la magistratura, a cominciare dalla que­ stione della responsabilità civile, non nascondendo simpatie per la proposta di separazione delle carriere dei magistrati. 114


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Sul piano dei rapporti con i mass media, Craxi ne ebbe di burrascosi con la maggioranza dei giornali e, certamente, aiutò Berlusconi a realizzare il suo polo televisivo, soste­ nendo la sciagurata legge Mammì; tuttavia non fu mai favo­ revole alla smobilitazione della RAI all’interno della quale, semmai, rivendicò una quota maggiore per il PSI. Come si vede, ci troviamo davanti a un continuo alter­ narsi di elementi di convergenza e di divergenza, assai lon­ tano da un perfetto allineamento. D ’altro canto, singoli (ma­ gari più limitati) punti di contatto con il programma di Gelli li ebbero anche altre forze politiche. La Lega, ad esempio, fu favorevole alla svolta maggioritaria e, attraverso il suo mini­ stro Guardasigilli, Roberto Castelli, dette il suo contributo alla campagna per condurre la magistratura sotto il controllo della politica. E Di Pietro fu fra i massimi assertori del mag­ gioritario, al pari della meteora Mariotto Segni. Un discorso a parte meriterebbe Andreotti, il politico più vicino a Gelli, che cercò di realizzare la prima «conglomerata del potere» e che presiedette allo smantellamento delle Partecipazioni Statali, ma non si avventurò mai sul terreno delle riforme istituzionali. L’immagine di un Craxi punta di lancia del progetto gelliano appartiene più al mito che alla realtà. Non di meno, il leader socialista ebbe la grave responsabilità di aver spa­ lancato la porta alla tematica della revisione costituzionale. Molto probabilmente non fu consapevole delle conseguenze che la sua proposta di Grande Riforma avrebbe portato, come dimostra il fatto che, proprio in quel solco da lui aperto, si inseriranno Pannella, Segni e Occhetto con i refe­ rendum che segnarono il declino di Craxi e del PSI (referen­ dum sulla preferenza unica nel 1991 e sull’abolizione della legge proporzionale nel 1993).

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Berlusconi Assai meno immaginaria è l’ipotesi di una sostanziale conti­ nuità politica fra Gelli e Berlusconi. Anzi, possiamo dire che Berlusconi è, oggettivamente, il frutto più maturo dell’al­ bero della P2. Primo (e sinora unico, per quel che se ne sa) presidente del Consiglio appartenuto alla P2, ha costruito un impero che è il più riuscito esempio di conglomerata del potere sin qui realizzato: importante finanziere, padrone del più esteso polo televisivo privato del Paese, leader di un grande partito e più volte presidente del Consiglio, con un proprio servizio di sicurezza (la security della Fininvest) in rapporti con le intelligence di mezzo mondo. Ovviamente, il Cavaliere (o meglio l’ex Cavaliere) ha costruito tutto questo a proprio beneficio e non per com­ piacere la P2; non di meno, il risultato è stato conseguito in quella stagione, Berlusconi si è avvalso di contatti non di­ stanti da quegli ambienti ed è stato l’incarnazione di una concezione del potere propria della P2, dalla quale, come dice lo stesso Gelli, si è «letteralmente abbeverato». Perciò, non stupisce che egli sia stato il più coerente prosecutore del piano di riforme e della cultura politica del Venerabile. Innanzitutto, di quel particolare anticomunismo proprio della P2, vale a dire immerso in una cornice formalmente liberal-democratica. Il «popolo di Berlusconi» fu populista e nutrito di antipolitica, moderato e ispirato al più feroce «in­ dividualismo proprietario», ribelle e oclocratico.4 Soprat­ tutto, refrattario a ogni forma di pedagogia democratica.

Per i populisti, il popolo è naturalmente portatore di va­ lori sani, ereditati dalla tradizione e, per esprimersi, non ha bisogno di mediazioni, ma solo di un capo che si assuma il compito di garantire la sicurezza della comunità. Il «popolo 116


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dei populisti» non si occupa direttamente di politica, che ritiene un’insopportabile distrazione dalle sue occupazioni produttive quotidiane, esattamente come detesta le tasse e il servizio militare. Le élite politiche, intellettuali e finanziarie sono nemici che si appropriano di risorse «senza lavorare». I partiti, i sindacati, le organizzazioni intermedie fra società e Stato sono solo inganni al servizio di questi parassiti. An­ tipolitica e antintellettualismo sono i due ingredienti base di ogni movimento populista. L’Italia è stata ventre fecondissimo di movimenti del ge­ nere: dal sanfedista Ruffo a Mussolini, dal qualunquista Giannini a Bossi, da Crispi a Berlusconi, molti hanno caval­ cato motivi populisti, facendo fortuna. Una fetta molto consistente di italiani (forse non meno di un terzo) è sempre stata animata da umori antipolitici. Nel periodo liberale, in parte essa fu neutralizzata (soprattutto nelle campagne) dalle limitazioni al diritto di voto e dal non expedit, che teneva i cattolici lontani dalle urne. Fu poi ri­ assorbita e utilizzata dal fascismo, che si servì del populi­ smo come «tecnica» di seduzione delle masse, in funzione antisocialista e antidemocratica. Il fascismo parve all’«Italia populista» il modo per liberarsi dell’odiata, vecchia classe politica liberale e dei suoi incomprensibili riti parlamentari, ma senza correre l’«avventura» di una rivoluzione socialista; tuttavia questa parte di italiani non fu mai veramente fasci­ sta, per la sua impermeabilità ad ogni ideologia. Con la fine della guerra, questi umori fecero la fortuna della DC. Appartenevano a quegli elettori che votarono mo­ narchia al referendum e DC alla Costituente (nonostante il gruppo dirigente democristiano avesse scelto la Repub­ blica). La DC sfruttò l’ostilità di queste aree nei confronti delle sinistre che rappresentavano, ai loro occhi, il primato della politica. Come era stato per il fascismo, l’accettazione della Democrazia Cristiana non avvenne per adesione ide­ 117


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ologica, ma per confluenza di interessi. E anche in tale fase l’ala populista venne in qualche modo neutralizzata, con­ fluendo nel meccanismo della «partitocrazia» che, pur se con limiti e contraddizioni, tratteneva questo pezzo di elet­ torato all’interno del perimetro democratico. Quando il meccanismo non ha retto più, anche per l’im­ patto con le rigidità imposte dal Trattato di Maastricht, gli «antipolitici» hanno ritirato la delega alla DC. La scelta del sistema maggioritario, la cultura antipartitica, la «videocrazia» hanno fatto il resto nello spingere questo segmento di elettorato e nel permettere che emergesse tutto il contenuto antipolitico dei suoi umori, e il cui cuore sta nella maniera particolare di essere cattolici degli italiani. Il cattolicesimo italiano ha infatti caratteri peculiari: ricco di venature paga­ neggianti e magiche, non è molto osservante. Il sacramento della penitenza e la distinzione controriformista fra peccato mortale e peccato veniale lo hanno tenuto al riparo dai rigori calvinisti e giansenisti, ma lo hanno anche indirizzato a una pratica proclive al lassismo. Il cattolicesimo italiano è di massa perché eticamente tiepido e ambiguo. Da questi caratteri, deriva la sua mode­ razione politica. La sinistra giacobina, azionista e comuni­ sta, con il suo rigorismo morale, rappresenta il suo nemico naturale. E, dunque, chi pensava di sottrarre voti cattolici a Berlusconi, facendo leva sulla vicenda delle escort, immagi­ nava di essere nell’America calvinista e non nell’Italia della Controriforma. D ’altra parte, il cattolicesimo italiano è, più di ogni altro, eminentemente politico. L’immediata presenza del tem­ poralismo papale, l’assenza non solo della secolarizzazione protestante, ma anche di esperienze quali il gallicanesimo o il giuseppinismo, hanno forgiato un cattolicesimo politico, incline alla mediazione e, spesso, alla mediazione sui valori in cambio della gestione del potere, e perciò stesso cinico 118


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e conservatore. I cattolici italiani hanno sempre trovato un modo per conciliarsi con l’assetto di potere vigente: prima con Giolitti, poi con Mussolini, poi identificandosi diretta­ mente con il potere politico per il tramite della DC, infine con Berlusconi. E questa concezione del potere si è sempre accompagnata a quella di uno Stato debole o assente. Naturalmente, non tutti i cattolici italiani sono populisti e/o votano a destra. Una parte di essi è infatti caratterizzata da un autentico spirito evangelico, ed esprime intellettuali di grande valore. È quella fetta di cattolicesimo italiano più segnata dall’esperienza conciliare, la quale presenta caratteri diversi da quelli fin qui descritti; una fetta non piccolissima, ma minoritaria. Nella «pancia» del berlusconismo, non ci sono solo la televisione e i voti di mafia, c’è anche la storia secolare di questo Paese con le sue radici che affondano nel tempo. Come dice Giovanni Orsina,5 il berlusconismo è stato una «emulsione di populismo e liberismo». È un’affermazione che chiarisce bene il carattere sostanzialmente illiberale del berlusconismo, la cui base antropologica è costituita dall’at­ teggiamento ipo-politico delle sue masse elettorali. Gelli immaginava un popolo esattamente così: violente­ mente anticlassista, assolutamente refrattario alle questioni di ordine ideologico, pronto a mescolare cattolici e massoni, socialisti e liberali, monarchici e repubblicani, fascisti e an­ tifascisti, accomunati da una generica ispirazione anticomu­ nista; e sottomesso a un’oligarchia politico-finanziaria che ne cavalcasse gli umori populisti, come tecnica di organizza­ zione del consenso, ma restando separata e ostile rispetto a questo gregge privo di espressioni intermedie. Berlusconi ha dato corpo a quella visione cominciando con il chiamare a raccolta il «popolo populista» davanti agli schermi televisivi. Forza Italia è nata ben prima del gennaio 1994: in quel momento era già presente e aveva solo bisogno 119


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di manifestarsi. Berlusconi, con la sua «antipedagogia» te­ levisiva, aveva offerto al «popolo populista» lo specchio in cui riconoscersi e prendere coscienza di sé. Il punto di forza della antipedagogia berlusconiana non furono i tg, che la si­ nistra temeva, quanto piuttosto le trasmissioni di intratteni­ mento che, alla sinistra, parvero innocue. La formula berlusconiana prevedeva una grande massa populista lievitata da una dose di piccola e media borghesia arrampicatrice, rac­ colta nei club a sostegno del partito: un altro punto di forte somiglianza con il progetto gelliano. Coerentemente con queste premesse, Berlusconi, le sue televisioni e più tardi il suo movimento politico sono stati uno dei più solidi pilastri della svolta maggioritaria, e si sono sempre battuti per ottenere un «esecutivo forte» in dire­ zione «dell’elezione diretta del capo dello Stato». Quanto alla forma partito, abbiamo già sottolineato la forte somiglianza fra il modello P2 e quello di Forza Italia, non solo riguardo alla formazione di club, ma anche per il confluire di esponenti laici, socialisti e della destra DC, esat­ tamente come indicato da Gelli. La prima base elettorale di Forza Italia fu costituita da gran parte di quella che negli anni Ottanta sosteneva il «pentapartito». La confluenza di posizioni è ancora più evidente nel con­ flitto con la magistratura. In tema di responsabilità civile, sepa­ razione delle carriere, esami psicoattitudinali al momento del reclutamento, revisione della normativa sul CSM si riscontra un’identità di vedute pressoché totale. Non cambia la sostanza delle cose il fatto che le realizzazioni non siano state pari ai de­ sideri, a causa di resistenze ambientali, come il sopravvenire dello scioglimento delle camere, il ruolo della Corte Costitu­ zionale, l’imbarazzo di Lega e AN a sfidare il proprio eletto­ rato «giustizialista», la grandinata di avvisi di garanzia ecc. Di quanto concerne la RAI, non sarebbe neppure il caso di dire, trattandosi del più diretto concorrente, se non fosse 120


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per un aspetto deviante rispetto alla logica del PRD: il com­ promesso del duopolio, per cui RAI e Fininvest non hanno spinto oltre un certo segno la loro lotta, preferendo concen­ trarsi nel respingere la sfida di un terzo polo. Il polo berlusconiano (intendendo tanto Forza Italia, quanto Mediaset e il retrostante finanziario) è stato nello stesso tempo il frutto più maturo del programma della P2 e uno dei principali strumenti della sua attuazione.

Pannella e il Partito Radicale Se parlare delle derivazioni piduiste di Berlusconi significa sfondare una porta che non c’è, meno scontato è il caso dei radicali, i quali rivendicano orgogliosamente la battaglia contro la P2 condotta dai loro parlamentari all’interno della relativa commissione d’inchiesta. In particolare, Massimo Teodori svolse una requisitoria, poi trasformata in libro,6 nella quale, sostanzialmente, affermava che la P2 coincideva con la «partitocrazia» nel suo complesso (compreso il PCI). Tuttavia, nel tempo, e soprattutto dalla metà anni Ottanta, i punti di contatto con il programma gelliano sono andati via via intensificandosi; basti ricordare alcuni referendum. Per la verità, già nel 1975, fra gli otto referendum propo­ sti figurava quello per l’abolizione del monopolio RAI, ma va detto che la richiesta era comune anche al Manifesto e al movimento delle radio libere, ed è perfettamente giustifica­ bile con l’ideologia libertaria dei radicali. Anche molti altri referendum possono spiegarsi con la stessa radice ideologica (abolizione del finanziamento pubblico dei partiti nel 1977; responsabilità civile dei magistrati nel 1987; abrogazione delle carriere automatiche dei magistrati nel 1997). Meno di­ rettamente a che fare con questa ispirazione ebbero altri re­ ferendum (abrogazione di alcuni ministeri con forti punti di 121


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contatto con lo Schema «R » nel 1993; privatizzazione della RAI nel 1995; nel 2000, abrogazione dell’art. 18 dello Sta­ tuto dei diritti dei lavoratori e separazione delle carriere dei magistrati; abolizione del voto di lista per il CSM).7 Beninteso, molti di quei referendum (dei quali solo una parte arrivò al voto) erano perfettamente condivisibili,8 pur se somiglianti alle proposte avanzate da Gelli. Ciò nono­ stante fa impressione una così puntuale convergenza: si può dire che non ci sia punto qualificante del programma gelliano che non abbia fornito spunto per qualche referendum radicale. In un punto però la convergenza diventa troppo evidente per essere qualificata come contingente e casuale, ed è sulla questione della legge elettorale. A partire dal 1983, improvvisamente, il Partito Radicale divenne fautore del sistema elettorale maggioritario unino­ minale, in favore del quale cominciò a svolgere un’attiva di propaganda. La cosa è tanto più sorprendente quando si consideri che il PR, che ha sempre sprezzantemente re­ spinto ipotesi di confluenza in soggetti politici più consi­ stenti, non ha mai raggiunto la quota del quattro per cento (con la sola eccezione del 1999, quando raggiunse l’otto per cento): mai visto un piccolo partito chiedere l’abrogazione del sistema proporzionale, che gli consente di esistere, per passare a un sistema maggioritario che lo cancellerebbe. Nel 1986, il PR avanzò la proposta di un referendum abro­ gativo del sistema proporzionale che venne respinta dalla Corte Costituzionale; tornò a chiederlo nel 1990 - insieme a un altro diretto a ridurre a una le preferenze esprimibili per la Camera dei Deputati - ma con caratteri manipola­ tivi, per cui si sarebbe passati a un sistema misto fra unino­ minale maggioritario e residua quota proporzionale. Tutta­ via, per il modo in cui il testo della legge era redatto, il ri­ sultato era un sistema decisamente incoerente (nella quota proporzionale, sarebbero riusciti eletti i meno votati), per 122


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cui la proposta venne nuovamente respinta dalla Corte Co­ stituzionale. Nel 1992 i radicali avanzarono una terza richiesta, per far passare la quale fu necessario che il parlamento approvasse una leggina che riscriveva la norma in modo da renderla lo­ gica, modifica che venne votata dopo che le firme erano state raccolte e consegnate alla Cassazione. Incredibilmente, il referendum venne dichiarato ammissibile e indetto per l’a­ prile del 1993. In questa occasione, Pannella fu, con Segni e Occhetto, uno dei protagonisti della campagna che avrebbe condotto alla vittoria del «Sì». Poi, nel 1999, una nuova ri­ chiesta di referendum, sostenuta anche da Di Pietro, per abrogare la residua quota proporzionale del nuovo sistema elettorale (il cosiddetto Mattarellum), referendum poi fallito. Il Partito Radicale, dunque, fu il primo a impegnarsi per l’affermazione del sistema maggioritario, e proseguì a bat­ tersi per raggiungere l’obiettivo anche dopo il 1993. I radi­ cali sono sempre stati un piccolo partito con ben poche pos­ sibilità di determinare l’approvazione di una legge, pertanto non vanno giudicati sul piano dei risultati ottenuti (anche se il referendum del 1993 non è certo poca cosa), ma su quello dell’influenza culturale che hanno esercitato. Sono stati loro ad aprire la strada al formarsi di una opinione pubblica favo­ revole ai capisaldi della P2. D ’altra parte, si parlò anche di una candidatura di Gelli nelle liste radicali come «provocazione»,9 ma poi non se ne fece nulla. Miglior esito ebbe nel 1987 la candidatura del ge­ nerale Ambrogio Viviani, appartenente al servizio segreto militare e membro della P2, presentato a Roma ed eletto de­ putato dopo che altri sei candidati erano stati dirottati in dif­ ferenti collegi. In seguito, Viviani lasciò il gruppo radicale in favore dell’MSI. Ciò non vuol dire, certamente, che il Partito Radicale fosse diventato una proiezione politica della P2: si­ gnifica, semplicemente, che la candidatura e l’elezione di un 123


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piduista nelle proprie liste non faceva più scandalo nel PR del 1987, e anche questo è un segnale delle trasformazioni culturali del partito dopo la metà anni Ottanta.

Occhetto, il PCI e il PDS-DS-PD Per comprendere gli sviluppi che porteranno dal PCI al progetto del «Partito della Nazione» renziano è necessario un ampio excursus storico sul lungo travaglio che ha visto il passaggio dal PCI al PDS-DS e da questo al PD. Mentre ci sono diverse opere sia di carattere storico o politologico10 sia di tipo memorialistico11 sulla fase che dal PCI va al PDS (1984-1994), scarseggiano quelle che riguardano la fase DS (1994-2005) e, ovviamente, sono scarsissimi gli studi sulla fase PD (2005-2016). Non cercheremo di colmare la lacuna in questa sede, ma ci accontenteremo di tracciare un veloce schizzo per illustrare le trasformazioni della cul­ tura politica e della composizione sociale del partito. Il PCI era uscito vincente dalla trentennale guerra di posi­ zione che lo aveva visto sempre all’opposizione (1947-1976) ma in costante ascesa elettorale. Il partito aveva progressi­ vamente attenuato le sue posizioni per superare il suo sta­ tus di «partito antisistema»: aveva accettato le regole della democrazia liberale, abbandonando la pregiudiziale dell’ir­ reversibilità della rivoluzione, aveva accettato il processo di integrazione europea alla fine degli anni Sessanta, l’apparte­ nenza dell’Italia alla NATO e la sua collocazione occidentale nei primi Settanta, aveva via via moderato la sua critica del capitalismo, sino a riconoscersi in un progetto di economia mista,12 e nei tardi anni Settanta, con l’«eurocomunismo», aveva cercato una collocazione intermedia fra il comuni­ smo filosovietico e la socialdemocrazia tedesca. Ad aprire la strada del dialogo con il governo americano era stato un 124


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viaggio negli Stati Uniti di Napolitano, su invito di Joseph LaPalombara, un famoso politologo. Il viaggio avvenne pro­ prio nei giorni del caso Moro (solo una coincidenza) e pro­ dusse alcuni accordi restati in gran parte segreti. Tutto questo avrebbe dovuto sfociare nel riconoscimento del diritto del PCI a governare, nel superamento della pre­ giudiziale anticomunista e nell’accordo con la DC nel qua­ dro della strategia del «compromesso storico» e della «soli­ darietà nazionale». Come è noto, le cose non andarono così e la politica di solidarietà nazionale sfociò nel ritorno del PCI all’opposizione. La questione degli euromissili riavvicinò momentaneamente il Partito Comunista Italiano all’URSS e le battaglie contro il prelievo di solidarietà dello 0,50 per cento del salario (autunno 1979), contro i licenziamenti alla Fiat (ottobre 1980) e contro il «decreto di San Valentino», che limitava i punti di contingenza (battaglie tutte perse), allontanarono nuovamente il partito dagli ambienti imprenditoriali.13 L’ultimo Berlinguer lasciò cadere la politica di intesa con la DC e sostituì la strategia del compromesso storico con quella dell’alternativa democratica (novembre 1980); ma era troppo tardi: la stagione dei movimenti era fi­ nita, il PCI aveva accumulato forti ostilità tanto nel Partito Radicale quanto nell’estrema sinistra, ma soprattutto nel PSI, all’interno del quale neppure la sinistra lombardiana era più disposta a spingere per un’alleanza. Il PCI era or­ mai drammaticamente isolato e privo di altra prospettiva che non fosse un nuovo periodo di opposizione, con la diffe­ renza che, questa volta, le tendenze elettorali e i numeri del tesseramento non erano più favorevoli come in passato: nel 1976 esso aveva raggiunto il 34,4 per cento, con 12 milioni e 600.000 voti; nel 1979 era sceso a 11 milioni e 140.000 voti, pari al 30,38 per cento; nel 1983, nonostante la confluenza del PDUP (che aveva ottenuto l’ 1,5 per cento nelle elezioni precedenti) era ulteriormente sceso a 11 milioni e 32.000 125


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voti, pari al 29,9 per cento. Quanto agli iscritti, i 1.814.262 del 1976, otto anni dopo, erano scesi a 1.619.940. Già alla morte di Berlinguer, dunque, il PCI era in piena crisi, in vistoso calo di iscritti e di voti, completamente iso­ lato, ma soprattutto privo di prospettive e di cultura poli­ tica. La decadenza della cultura politica14 del partito aveva un preciso indicatore numerico nella precipitosa caduta di vendite delle sue più prestigiose riviste (da Critica marxista a Studi Storici, da Politica ed Economia allo stesso settimanale Rinascita). Anche i tentativi di nuove pubblicazioni (come Laboratorio Politico), che intendevano rilanciare l’egemonia culturale di cui il PCI aveva goduto nel ventennio prece­ dente, non ebbero alcun successo. Il quadriennio della se­ greteria Natta (1984-88) si distinse per il grigiore e l’assenza sostanziale di iniziativa politica.15 Come si vede, le premesse che avrebbero portato agli esiti degli anni successivi c’erano già tutte prima della morte di Berlinguer, che rappresentò tuttavia un momento di rottura. Sino alla segreteria Berlinguer, pure considerando le molte concessioni imposte dalla «marcia al centro», il PCI era ri­ masto un partito di ispirazione socialista che rivendicava con orgoglio la propria diversità dagli altri partiti e si proponeva come portatore di un progetto di trasformazione sociale, economica e politica del sistema. Nel volgere di meno di un anno - gli undici mesi che separano la morte di Berlinguer dalle sconfitte al referendum e alle amministrative del 1985 -, si registrò una soluzione di continuità che si sarebbe pie­ namente manifestata quattro anni dopo. Nello stesso periodo, il PCI continuò a perdere sia voti che iscritti, giungendo a 1.264.790 di iscritti nel 1990 e a 9 milioni e 600.000 voti nel 1987 (26,52 per cento). Nelle re­ gionali del 1990, il PCI scendeva al 24 per cento. Achille Occhetto, diventato segretario del partito nella primavera del 1988, tentò di risalire la china con un accen­ 126


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tuato ma poco coerente attivismo, cercando sponde nei re­ pubblicani e nei radicali, fra i cattolici di sinistra e nell’intel­ lettualità socialista (ci fu anche una breve stagione di inna­ moramento per il socialismo liberale di Carlo Rosselli, che peraltro non ebbe alcuna rispondenza nell’azione politica del partito). Perseguendo un accreditamento politico inter­ nazionale, Occhetto, a meno di un anno dalla sua elezione, si recò negli USA per prendere contatto con esponenti di en­ trambi i partiti, allo scopo di una definitiva legittimazione. Il XVIII congresso del partito prometteva una svolta radicale annunciata dallo slogan del «Nuovo PCI», estremo tenta­ tivo di conciliare la continuità storica con l’esigenza di un radicale cambiamento di pelle che consentisse di superare le pregiudiziali della conventio ad excludendum. D ’altro canto, l’abbandono del nome (che la destra amendoliana già chiedeva)16 non era ancora maturo, perché gran parte dei militanti non lo avrebbe accettato; occorreva un evento drammatico che creasse le condizioni favorevoli e l’occasione venne con la caduta del Muro di Berlino e la fine del regime socialista nei Paesi dell’Est. Nel novembre del 1989, Occhetto, con un discorso nella sezione del partito nel quartiere della Bolognina, annunciò la decisione di abban­ donare il nome di Partito Comunista Italiano. Con Occhetto iniziava nel partito quella penetrazione della cultura neoliberista che si affermerà pienamente negli anni successivi.17 Il progetto occhettiano fu anticipato dal di­ battito sul nome: abbandonato il riferimento al comunismo, alcune ali del partito (ad esempio, la vecchia destra amendoliana trasformatasi nel cosiddetto gruppo «migliorista», ma anche singoli esponenti della ex sinistra ingraiana) soste­ nevano l’opportunità di scegliere l’aggettivo «socialista», il che sembrava preludere a una unificazione con il PSI, cosa peraltro confermata dalla scelta del PCI di entrare nell’inter­ nazionale socialista (e la concessione da parte di Craxi si in127


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seriva nella prospettiva dell’unificazione). Occhetto invece non aveva alcuna intenzione di contrarre nozze con Craxi e, pertanto, recalcitrava all’idea di assumere l’aggettivo socia­ lista. Il dibattito venne troncato con l’argomentazione che occorreva curare «prima la cosa» e dopo il nome. Nome e simbolo (con un piccolissimo simboletto del PCI ai piedi di una quercia) vennero annunciati all’improvviso il 10 ottobre 1990. Se la scelta del nome «socialista» poteva essere sconsi­ gliata dalla forte ostilità anticraxiana maturata nella base del PCI, non fu neppure presa in considerazione la denomina­ zione «laburista», o «socialista-liberale» (visto il breve flirt con il pensiero rosselliano), o altre simili: dal nome doveva scomparire ogni riferimento alla precedente identità classi­ sta; il nuovo partito sarebbe stato un partito liberale e basta. Il partito che usciva dal congresso di scioglimento del PCI era nuovo non solo nel nome, ma anche nel suo corpo militante: in pochi mesi, abbandonarono il partito, senza passare a nessun’altra formazione, ben 800.000 iscritti,18 e ne affluivano circa 100.000 che non erano mai appartenuti al PCI. Era l’inizio di una mutazione genetica che troverà com­ pimento dopo la fusione con la Margherita e con l’adozione del sistema delle primarie. Già subito dopo la sua elezione, Occhetto annunciò il su­ peramento di una pregiudiziale costante nella storia del PCI: la difesa del sistema proporzionale. E senza alcuna consul­ tazione preventiva degli iscritti su un punto di tale impor­ tanza decisiva. Si trattava della pietra angolare del progetto piduista, ma è realistico pensare che Occhetto non se ne sia neppure reso conto: nella sua visione essenzialmente tattica, questo avrebbe «cancellato» il PSI costringendolo a divi­ dersi fra quanti avrebbero accettato di allearsi con il PDS e quanti con il blocco moderato. Nei fatti, Occhetto stava ridisegnando il sistema politico fra i due blocchi di centro­ destra e centrosinistra preconizzati dal Piano di Rinascita 128


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Democratica, e portava l’appoggio decisivo del suo partito al referendum di Pannella e Segni, appoggio senza il quale esso non avrebbe avuto alcuna probabilità di vincere. Ma sa­ rebbe sbagliato pensare a chissà quale complotto, ordito da qualche centro di potere occulto, o a chissà quale retropensiero strategico. Alla base di quella scelta c’era, molto sem­ plicemente, la totale inconsistenza politica di Occhetto. Successivamente, durante le segreterie D ’Alema e du­ rante le presidenze del Consiglio di Prodi e D ’Alema, il PDS attraversò una fase alterna fra appoggio alla magistratura e cedimenti alle richieste della destra in materia di riforma delle istituzioni (la commissione parlamentare presieduta da D ’Alema giunse a un passo dall’accordo sul presidenziali­ smo), di riforma dell’ordinamento giudiziario e di emittenza radio televisiva, e comunque si guardò bene sia dal varare la legge sul conflitto d’interessi sia quella relativa alla limita­ zione delle reti per ciascun editore. Non mancarono in seguito provvedimenti assimilabili al programma P2, che culmineranno, in epoca renziana, nell’abolizione dell’articolo 18 (cosa che non era riuscita al governo Berlusconi), nell’abolizione delle provincie prefigu­ rata da Graziano Delrio e nella riforma della «buona scuola» che contiene elementi simili ai principi enunciati dai docu­ menti gelliani. Un percorso lungo e spesso inconsapevole, ma che ha seguito, tappa dopo tappa, una logica ferrea. Il PCI occhettiano, ormai, era solo una burocrazia politica di­ sposta a ogni genere di compromesso pur di approdare alle agognate stanze ministeriali.

La trasformazione della politica: fra il club, la lobby e la loggia Come si vede, l’espansione del progetto gelliano ha avuto tre canali privilegiati, Berlusconi, Pannella e il PDS-DS-PD, ma 129


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ha attraversato anche il PSI craxiano, la Lega, Segni e, in mi­ sura minore, anche l’IDV. Tutto questo mostra quanto sia irrealistica la teoria di un oscuro complotto che ha guidato l’intero processo: i vettori sono stati i più diversi, hanno riguardato singoli aspetti e sono stati in parte inconsapevoli; la durata è stata quaran­ tennale, le realizzazioni spesso non identiche al progetto ini­ ziale ma simili o assimilabili. Quarant’anni sono un periodo lunghissimo, durante il quale si producono profondi cam­ biamenti di natura sociale, economica, politica e culturale che nessun complotto avrebbe la forza di suscitare e diri­ gere. I complotti esistono, ma chi li promuove non possiede né l’onniscienza, né l’onnipotenza, e nemmeno l’eternità. I quarant’anni in questione hanno visto il rapido succedersi di trasformazioni assai profonde. È vero, molte delle soluzioni attuate durante il loro corso hanno un’ispirazione piduista ma, salvo per alcuni aspetti in cui questa è palese, nella mag­ gior parte dei casi si è trattato di adattamenti, ricuciture, mo­ difiche, come è inevitabile che sia. Il ruolo della P2 è stato quello di reinnestare nel nostro sistema una cultura politica che l’impianto costituzionale aveva espulso, e non si è trattato solo di una riproposizione dei vecchi motivi antiparlamentari, ma di una combinazione di quella cultura con gli umori più recenti delle teorie della guerra rivoluzionaria e del «sovraccarico della domanda». Poi, da tale cultura politica sono stati prodotti frutti diversi da quelli ipotizzati, ma non per questo estranei alla stessa ra­ dice. Ad esempio, per un ventennio la scena politica è stata tenuta da un bipolarismo imperniato su due formazioni che, in qualche modo, somigliano molto a quelle desiderate da Gelli, tuttavia il polo di centrosinistra non è stato costituito dal PSI e dai partiti laici - spazzati via da Mani Pulite - ma, paradossalmente, dal PSD-DS-PD, erede di quel PCI che il piano voleva eliminare, sebbene ciò sia avvenuto attraverso 130


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una mutazione genetica del tutto imprevedibile nel 1976. Quanto al centrodestra, se è vero che Forza Italia sembra elaborata sulla ricetta PRD e che AN è il risultato della tra­ sformazione dell’MSI in qualcosa di più simile a Destra N a­ zionale che allo stesso MSI, è anche vero che ciò è avvenuto con un lunghissimo processo di trasformazione e solo dopo che DN è miseramente naufragata nelle elezioni del 1979; ma, soprattutto, il centrodestra ha ospitato al suo interno un nuovo arrivato come la Lega Nord, altro soggetto imprevisto e imprevedibile a metà anni degli Settanta. Per non dire del Movimento 5 Stelle, che ha mandato a gambe in aria il bipo­ larismo. Si tratta dunque di un insieme di fattori diversi, ma che hanno in comune un debito con la visione piduista. È vero che la formula «club locali + cerchio magico» si è affermata in quasi tutti i partiti attuali, che non hanno più le caratteristiche di partiti di massa organizzati; ma è al­ trettanto vero che, se in parte questo è dovuto all’influenza culturale della P2, in parte la ragione va invece ricercata in processi sociali oggettivi, come il deperimento del Welfare State, il quale è allo stesso tempo il prodotto e il supporto dei partiti di massa. Insomma, un influsso culturale da parte della P2 c’è stato e in misura notevole, ma rappresenta solo uno dei fattori in gioco. A gonfiare le vele del processo è stato soprattutto il vento della globalizzazione neoliberista, che ha liquidato il «compromesso socialdemocratico» alla base dei sistemi di democrazia sociale affermatisi in Europa dopo la fine della guerra. Ed è stato quel vento a spianare la strada a una con­ cezione del potere nettamente diversa, imperniata sul domi­ nio della finanza e di natura essenzialmente elitaria e, perciò, antidemocratica. Di peculiare, la cultura politica della P2 ci ha aggiunto il suo metodo relazionale: quell’intuizione di una rete orizzon­ tale e trasversale di corporazioni, correnti politiche e cor­ 131


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date regionali in grado di riunire le varie frazioni del potere in una camera di compensazione. Il persistere di questo metodo - debitamente aggiornato - si è reso evidente, fra il 2010 e il 2011, con gli scandali Ver­ dini e Bisignani, rispettivamente designati come P3 e P4. In verità, non è chiaro perché la P4 sarebbe cosa diversa rispetto alla P3, dal momento che il giro che gravita intorno a quest’ultima è ampiamente coincidente con quello della P4; ma si tratta di una questione secondaria. Il punto più importante è che questa formula giornalistica rischia di con­ fondere le idee più di quanto non le chiarisca. Evocare la P2 fa pensare a un’associazione segreta, con tanto di liste di affiliati, schede di adesione, cariche sociali ecc. Non è affatto detto che qualcosa di simile non esista, né si può escludere che Bisignani e/o altri protagonisti di que­ sta vicenda non ne abbiano fatto parte; d’altronde, è lecito chiedersi sino a che punto organismi come l’Aspen Institute non svolgano una funzione analoga. Ma, sin qui, nulla è emerso a dimostrare che questo organismo esista e che Bisignani ne sia (o ne sia stato) a capo. Quello che è stato trovato sono le registrazioni delle sue conversazioni, le sue agende, la sua rete di rapporti, e una quantità di deposizioni che riferiscono di fatti e comporta­ menti, ma non tirano in causa alcuna organizzazione segreta o non segreta. Ne è venuta fuori è una ragnatela di rapporti che lasciano intendere episodi di corruzione, di condiziona­ menti del terzo e del quarto potere, di intrighi politici e fi­ nanziari, di carriere troncate e di rapide ascese. Bisignani presentò tutto questo come un’attività di lobbying, lamentando che in Italia le lobby non siano ricono­ sciute e regolamentate per legge. In effetti, negli USA molte delle sue attività - come la raccolta di fondi per sostenere la campagna elettorale di un partito o di un candidato, e il con­ seguente tentativo di ottenere benefici di legge a favore dei 132


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sottoscrittori - sarebbero considerate tipiche operazioni da lobbist. Ma anche negli Stati Uniti farebbero qualche fatica a considerare certi fatti, come ad esempio spiare istruttorie, semplice attività di lobbying, per quanto pesante. Piuttosto, la vicenda Bisignani offre un mirabile spaccato del potere in Italia al tempo della Seconda repubblica. Il primo dato che balza agli occhi è proprio il carattere informale di questa rete di potere: nessun rapporto formale di subordinazione legava Bisignani alla ministra Stefania Prestigiacomo o all’AD di ENI Paolo Scaroni o al direttore generale della RAI Mauro Masi, né risulta che ricoprisse una qualsiasi carica istituzionale o in qualche partito. E p ­ pure, tutti ritenevano normale e doveroso consultarlo, sti­ mando in sommo grado il suo illuminato parere. È stato Bisignani stesso a definirsi «uno che, in ambienti e mo­ menti particolari, deve essere consultato». Al di là dell’a­ scendente personale, ci si chiede in nome di quale potere doveva essere consultato nelle scelte politiche più delicate. Di qui l’ipotesi di un Bisignani come novello Gelli, a capo di qualche organismo para-massonico da cui scaturirebbe quel potere. Ma la vera forza di Bisignani stava nella sua grande capacità di tessere relazioni e nel capitale di infor­ mazioni che ne derivava. Gianni Letta disse: «Luigi è persona brillante e bene in­ formata. È amico di tutti. È l’uomo più conosciuto che io conosca. Bisignani è uomo di relazioni». Appunto, un uomo di relazioni molto ben informato. Una dote dal valore inesti­ mabile nell’epoca della globalizzazione neoliberista, che ha segnato una drastica diminuzione di trasparenza del potere politico ed economico. È proprio questo tipo di globalizza­ zione che implica il predominio del potere finanziario, per sua natura vocato alla massima opacità. Ed è sempre a quella che dobbiamo il ritorno alla brutale logica della geopolitica, basata su rapporti di forza in larga misura costruiti tramite 133


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l’azione dei servizi di intelligence (ovviamente coperta dal più fitto segreto). Quando il potere si fa così opaco, l’informazione diventa un bene raro e, di conseguenza, ad altissimo valore aggiunto. Forse una P4 o una P3 esiste, ma a Bisignani (che fu il più giovane piduista) non servirebbe farne parte, perché lui stesso è una «P2 vivente», se ci si passa il termine. Anche la definizione di «faccendiere» (versione spregia­ tiva di lobbist) che gli viene attribuita gli va decisamente stretta; Bisignani è molto di più, ed è anche di più di un lobbist come ce ne sono tanti. È il «manager del potere na­ scosto». Una nuova figura professionale che unifica diversi profili precedenti e al massimo livello: il lobbist, l’avvocato d’affari, il public relations man, il consulente politico, il me­ diatore di conflitti, il tutto con una spiccata vocazione all’intelligence e qualche vaga somiglianza con il «consigliori». Una figura richiesta proprio dagli attuali assetti di potere che fondono politica e finanza, chiedono costante aggiorna­ mento informativo e che, soprattutto, sono caratterizzati da una forte carenza di regole. Quest’ultimo punto richiede qualche spiegazione. Uno dei presupposti logici fondamentali del neoliberismo è l’e­ liminazione del maggior numero possibile di norme statali, sostituite dalle «regole spontanee» del mercato e dalle con­ seguenti norme pattizie. Eminenti giuristi come Taubner o Galgano parlano di una nuova lex mercatoria, che ormai sommerge la sovranità statale. Non a caso la deregulation è stata una delle parole-chiave della cultura neoliberista. Soprattutto nei rapporti fra politica ed economia, il pro­ cesso di deregulation è stato il presupposto per una crescente confusione di ruoli, come dimostra con chiarezza il dilagare dei «conflitti di interessi» (non una peculiarità italiana, poi­ ché ormai pervade tutti i Paesi occidentali). D ’altro canto, nel tempo della «liquidità», le categorie del pensiero poli­ 134


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tico, a cominciare dalle idee di guerra, sovranità, diritto, de­ mocrazia ecc., perdono i propri contorni per diventare una prassi sempre più fluida e meno regolamentata. In Italia tutto ciò è stato amplificato dal processo di so­ stanziale decostituzionalizzazione dell’ordinamento, intra­ preso dal referendum del 1993. Il conseguente scioglimento dei partiti politici (sostituiti da coalizioni ed ectoplasmi a vocazione carismatica) ha dato un’ulteriore spinta in que­ sta direzione. Il risultato è, appunto, la generalizzazione del metodo delle «cordate», cioè delle alleanze trasversali fra pezzi di potere politico, apparati burocratici, finanza, servizi segreti, mondo dei mass media. Ma le «cordate» non sono organizzazioni o istituzioni, e vivono sin quando ci sia una convergenza di interessi, per riaggregarsi poi in altre cor­ date, perdendo vecchi partner e acquisendone di nuovi. Si potrebbe definire, quindi, come una forma di organizza­ zione del potere basata sulla convenienza del momento, e dunque instabile per definizione, ma, soprattutto, «coperta» e priva di regole cogenti. In un quadro come questo, personaggi come Bisignani acquisiscono inevitabilmente un proprio ruolo: l’assenza di regole condivise e un’organizzazione del potere per rete clanica esigono la presenza di mediatori che compongano i conflitti, spianino la strada agli accordi, favoriscano la con­ clusione di affari. Tutte operazioni che richiedono senso politico, vasta rete di relazioni, conoscenze di carattere giu­ ridico, economico e politico, ma soprattutto grande abilità nella raccolta di informazioni riservate. Per questo parliamo di «manager del potere nascosto», che è ben diverso da un semplice faccendiere o, se si preferisce, lobbist. Il caso Bisignani non è del tutto comprensibile al di fuori dell’ondata di scandali del 2010: Protezione civile, Propa­ ganda Fide - IOR, Verdini; ma in primo luogo lo scandalo Finmeccanica, la grande holding delle armi italiane, di cui il 135


Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi)

Ministero dell’Economia e delle Finanze è l’azionista di rife­ rimento con il 32,4 per cento delle azioni (nessun altro rag­ giunge il 3 per cento). Oggi Finmeccanica rappresenta una delle voci attive di maggiore importanza della nostra bilan­ cia commerciale, in particolare nel settore delle armi indivi­ duali e, più ancora, nel settore aerospaziale. Si tratta di settori che, da sempre, emanano un forte odore di tangenti in entrata e in uscita, e nei quali operano istituzio­ nalmente i servizi segreti. Soprattutto, essi hanno un bisogno vitale di una rete di relazioni internazionali più vasta possi­ bile. Si potrebbe immaginare un campo d’azione più adatto a un uomo come Bisignani? Tanto più considerando la grande familiarità con l’Istituto Opere di Religione, presso il quale disponeva, sin dai primissimi anni Novanta, di un conto co­ perto intestato a una inesistente Jonas Foundation. Nel sistema di relazioni di Bisignani, ricorrono, senza dubbio, molti elementi che furono propri della P2. Per molti versi, Bisignani ne è il diretto sviluppo. Ma sono presenti an­ che aspetti peculiari, come il carattere fortemente informale, la prevalenza dell’economia sulla politica, la diversa compo­ sizione sociale dell’area di riferimento, i quali trovano spie­ gazione, sul piano internazionale, negli effetti del processo di globalizzazione neoliberista, e, sul piano interno, nelle trasformazioni del sistema politico. Ben si comprende, alla luce di tutto questo, avvenuto in un periodo che sostanzialmente coincide con la Seconda Re­ pubblica e con il suo immediato antecedente, come si possa parlare a ragion veduta del «lungo intermezzo» che va da Gelli a Renzi.

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Capitolo quarto Il pensiero politico di Renzi

Renzi: l’uomo e il suo pensiero Il titolo del capitolo potrà sorprendere o suscitare qualche sorriso: Renzi non è uomo particolarmente versato nella teoria politica e, per la verità, neppure lo nasconde. Anzi, alcune sue uscite fanno intuire una sostanziale mancanza di considerazione per il lavoro intellettuale e per chi lo pratica, come in occasione del ruvido congedo che riservò alla «com­ missione dei quarantadue saggi»: La commissione degli esperti fu oggetto di scherno ed ironia da parte del futuro prem ier... allora candidato alla segrete­ ria del PD. Quarantadue costituzionalisti e docenti di ogni orientamento, impegnati per tre mesi a lavorare gratuita­ mente al servizio del proprio paese, furono liquidati come una banda di parrucconi vacanzieri da spedire in pensione a Francavilla (il luogo d o v e . si tenne la fu ll immersion per la stesura della relazione finale).1

Sul piano caratteriale, Renzi presenta spiccate somi­ glianze con Gelli: ricco di senso pratico, ma poco portato a teorizzare, di un agire politico più nutrito di astuzie che di visioni strategiche, con una sconfinata autostima, dotato di


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una grande capacità di cogliere al balzo le occasioni, spre­ giudicato, non è l’innovatore che ama mostrarsi; e infatti, più che trovare soluzioni nuove, è abile a riciclare pensieri già noti. E se citare Plutarco non fosse eccessivo, parleremmo di «vite parallele». Renzi non ha conosciuto nessuno dei partiti della Prima Repubblica, ma in casa ha respirato l’aria della Balena Bianca, per via del padre impegnato nella DC (nella corrente fanfaniana, pare). È stato scout e, giovanissimo, è entrato nel Par­ tito Popolare Italiano, sorto dalle ceneri della DC. La sua tesi di laurea ebbe per oggetto l’azione amministrativa di Gior­ gio La Pira, il sindaco-santo di Firenze a cavallo fra gli anni Cinquanta e i Sessanta. Seguì il PPI nella formazione della Margherita, dove iniziò la sua folgorante carriera. Nel 2004 fu eletto presidente della provincia di Firenze, quattro anni dopo sindaco di Firenze. Con la fusione fra Margherita e i Democratici di Sinistra, entrò nel PD. Nel 2010 organizzò a Firenze, nella stazione della «Leo­ polda», un convegno di trentenni che si fecero promotori di una rivolta generazionale verso il gruppo dirigente di cui, come si sa, propose la «rottamazione» (qualcosa che ricorda da vicino il «patto di San Ginesio» del 1969, con il quale le seconde linee di alcune correnti democristiane strinsero un’alleanza per «rottamare» i rispettivi leader). È signi­ ficativo che i primi seguaci del movimento che lo avrebbe portato al vertice fossero (con poche eccezioni come Beppe Civati, Davide Faraone e Pietro Ichino, provenienti dai DS) quasi tutti ex Margherita, come Andrea Marcucci, Giusep­ pina Servodio, Matteo Richetti, Luigi Lusi, Roberto Giachetti ecc. La sua ascesa ai vertici del PD può essere letta come una sorta di «margheritizzazione», che ha cancellato gli ultimi segni dell’eredità del PCI. Ad ogni modo, si tratta di un esponente politico ancora nel pieno della propria carriera, del quale pertanto solo i po­ 138


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steri potranno dire se è stato «Matteo il Grande» o «Il Pic­ colo Licio». A noi tocca studiarlo per quel che si è dimo­ strato sinora, badando bene a non sottovalutarlo. Anche se è un individuo spregiudicato e assai empirico, con scarsa inclinazione per la cultura politica, questo non vuol dire che non abbia concezioni dotate di una loro coe­ renza, che è nostro compito comprendere. D ’altro canto, la storia è piena di personaggi che, senza aver mai prodotto una riga di teoria politica, con la loro azione concreta hanno però creato un pensiero politico, ma­ gari sistematizzato poi da altri. Anzi, spesso i leader politici operano in questa maniera, producendo empiricamente una dottrina di cui non sono neppure consapevoli. La politica ha una sua logica ferrea che conduce, passo dopo passo, a ina­ nellare una serie di decisioni che costituiscono un insieme organico. Per restare in Italia, si pensi a Crispi o a Giolitti, ma so­ prattutto a Mussolini, il politico più empirico che si possa immaginare. Il fascismo dovette molte delle sue sistematiz­ zazioni teoriche agli intellettuali nazionalisti, ma nessuno dubita che fu in primo luogo una creatura di Mussolini. A ben vedere, anche nella Prima Repubblica l’attenzione dei nostri leader per il versante della teoria politica (da De Gasperi a Nenni, da Fanfani a De Martino, da Almirante a Craxi) fu piuttosto limitata, salvo che per i comunisti e con poche eccezioni come Saragat, La Malfa (per la verità più sul versante economico), Lombardi, Foa o Einaudi. Gli «empi­ rici» scrivono il loro libro di dottrina politica mediante atti e decisioni, e non è detto che si tratti di un libro meno inte­ ressante o meno coerente di quello dei «teorici». Non sor­ prenda, dunque, il fatto di sentir parlare di pensiero politico a proposito di Renzi.

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Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi)

Dal popolo di Gelli a quello di Renzi (passando per quello di Berlusconi) Il popolo di Gelli fu un progetto, una visione appena accen­ nata, il popolo di Berlusconi una realtà ventennale giunta ormai al collasso, il popolo di Renzi è una realtà in corso d’o­ pera che ha qualcosa dei due precedenti e tratti di novità. Nel caso della P2, dobbiamo tenere presente il carattere elitario del progetto: si trattava di un gruppo che non cer­ cava direttamente il consenso e non intendeva misurarsi direttamente con la prova elettorale, ma organizzare solo poche migliaia di persone e, per loro tramite, gestire occul­ tamente il potere.2 Di conseguenza, per studiare il fenomeno non sono utili le consuete tecniche sociologiche (analisi della base elettorale, degli iscritti, del quadro intermedio ecc.). In questo caso, l’analisi si concentra su poche centinaia di per­ sone (tenendo presente che per un elenco completo man­ cano sicuramente molti nomi) organizzate con una rudimen­ tale stratificazione. Innanzitutto, c’è il «nucleo traente» toscano, per cui conviene spendere ancora qualche parola sulle caratteristi­ che di questo «partito» regionale. Abbiamo detto che, dal punto di vista bancario, in Italia ci sono stati due poli prin­ cipali: quello milanese (il più forte), tendenzialmente laico, legato al profitto industriale e aperto all’Europa (Germa­ nia in primo luogo) e quello romano, cattolico, legato alla rendita edilizia e strettamente connesso al Vaticano. Ma c’è stato anche un terzo polo, o meglio «il conato di un terzo polo», quello della Toscana, storicamente una delle culle della finanza europea fra il XIV e il XV secolo. Un passato lontano, i cui splendori erano tramontati da tempo, ma non scomparsi senza lasciare tracce. Ad esempio, era restata una banca importante che, a poco a poco, si era affermata come una delle più grandi del Paese, il Monte dei Paschi di 140


4. Il pensiero

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Siena. Inoltre, grazie a una fiorente agricoltura di prodotti pregiati e a un fortunatissimo turismo, la regione aveva visto svilupparsi un ricco tessuto di banche locali, in prevalenza popolari o di credito cooperativo, casse di risparmio, rurali e artigiane. Banche piccolo-medie, decisamente più numerose che in ogni altra regione, e che facevano della Toscana uno dei forzieri del Paese e una regione esportatrice di capitali. Ma il carattere frammentato del sistema bancario toscano impediva che questo polo avesse un potere contrattuale tale da imporsi sul piano nazionale, accanto ai due poli maggiori. Anche il Monte dei Paschi (una delle prime banche nazio­ nali) è per molto tempo rimasta una realtà regionale estesa a poche provincie vicine. Questa situazione ha pesato a lungo, alimentando una forte voglia di emergere, ostacolata dalle rivalità campanilistiche e da una guerra interna per conqui­ stare la supremazia sul territorio o per difendersi dai disegni egemonici di un vicino troppo forte. Gelli si pose in primo luogo come elemento «federatore» di questa complessa realtà puntiforme, realizzando il piccolo polo della Banca dell’Etruria, prima base di potere intorno a cui calamitare pezzi di politica e di amministrazione locale. Questo fu il nucleo promotore che trovò il necessario sup­ porto nel ben più influente alleato: il partito romano, che in­ cludeva l’alta burocrazia, parte della finanza locale (in parti­ colare quella intorno allo IOR), qualche pezzetto di Parteci­ pazioni Statali, i comandi militari e di polizia, ma soprattutto il mondo dell’intelligence, e il tutto a ridosso della potente corrente andreottiana della DC (che in Gelli sostituiva il vec­ chio amore toscano per Fanfani). Tale nucleo centrale si com­ pletava con i gruppi piemontese e, soprattutto, siciliano. Ne risultava un inedito ventaglio sociale che sommava la finanza minore, in cerca di ascesa, a pezzi di borghesia mafiosa, af­ fermati esponenti della classe politica ad ambiziosi peones e a settori di Stato che reclamavano maggiore peso e potere 141


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(intelligence e militari), alta burocrazia a professionisti di medio calibro. Un insieme che potremmo definire «borghe­ sia arrebatora»,3 con un lontano richiamo a quella borghesia compradora con cui condivideva la dipendenza dalla potenza esterna di riferimento. La P2 non era certamente un gruppo antisistema, quanto invece un esempio minore di «sovversivi­ smo delle classi dirigenti», che sgomitavano per penetrare nel cuore del blocco storico capitalistico. Da qui si diramavano i fili di una rete che, partendo da un rapporto centrale con l’intelligence non solo italiana ma anche atlantica, realizzava una fitta serie di alleanze in Ita­ lia e fuori: in Vaticano, in Argentina, in Romania, in Israele, in Egitto, in Liberia, in Costa d’Avorio, fino alla destra re­ pubblicana americana. Il metodo che consentì la formazione di questa estesa rete di contatti fu una politica di relazioni che fondeva gli aspetti di una vera e propria loggia con più moderne pratiche di lobbying o public relations. Fu questa la vera innovazione operata dalla P2, il metodo che si è solida­ mente radicato nel nostro sistema. Il progetto di ascesa di questa borghesia arrebatora, come si sa, fallì: si infranse contro la barriera dei poteri forti che non amavano simili parvenus, ma anche contro la solida diga della partecipazione democratica, che ne intuiva il disegno elitario e antidemocratico; troppo plebei per piacere al potere conso­ lidato, ma anche troppo oligarchici per non suscitare l’ostilità delle classi subalterne e delle loro espressioni politiche. Berlusconi, come si è detto, ha dato corpo a quel progetto, «inventando» il popolo che lo avrebbe portato al potere. Ci sono molte differenze, ovviamente, fra il renzismo, come fenomeno sociale e politico, e la P2, e la più evidente è il ruolo di Renzi: non occulto burattinaio, ma leader cari­ smatico di un grande partito politico. Non a caso, fra il pro­ getto di Renzi e quello della P2 c’è di mezzo, cronologica­ mente, il «popolo populista» di Berlusconi. 142


4. Il pensiero

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Anche rispetto a Berlusconi i tempi sono diversi: non c’è più lo scontro comunismo/anticomunismo che, seppure in epoca successiva alla Guerra fredda, si giovava del sedimento di quegli umori. Il comunismo non distribuisce più dividendi e, di conseguenza, nemmeno l’anticomunismo. Peraltro, pro­ prio la pratica della «politica di relazione» si è generalizzata e ha prodotto la fioritura di una fitta serie di «fondazioni», a cavallo fra politica e finanza ai massimi livelli. La barriera dei poteri forti è mutata, non coincide più con il «salotto buono» nazionale, ormai ha sedi più lontane e ospita voci di lingue diverse; e anche la diga democratica è cambiata: si è fatta più fragile e porosa e le idee dell’avversa­ rio sono penetrate a fondo anche nelle sue file. Dunque, l’esperimento gelliano è irripetibile nelle forme e nei modi che gli sono stati propri. E anche quello berlusconiano va ripensato e rimodellato. Nel disegno renziano, ci sono differenze sia rispetto alla P2 che a Forza Italia, ma ci sono anche punti di contatto che descrivono più di una semplice somiglianza, e forse sarebbe più corretto parlare di tratti di continuità genetica. Prima di tutto, troviamo un nucleo centrale - il «giglio magico» - che ha la stessa estrazione regionale e la stessa prossimità al mondo delle banche minori. Mutatis mutandis, siamo di fronte alla riproposizione dello storico «partito toscano», sebbene con i mutamenti imposti dai tempi. In particolare, il tentativo di assalto alla sala di comando della finanza è stato ben presto sostituito dall’esigenza di salvarsi, almeno in parte, dal naufragio nel tempo della crisi. E al cen­ tro della tempesta c’è la Banca dell’Etruria, anche se insieme all’altra banca dell’oro, la Popolare di Vicenza, e più in gene­ rale l’alleanza del polo toscano con quello veneto sorto negli ultimi quarant’anni. La legislazione in merito avanzata dal governo con il de­ creto salva-banche e con la riforma degli istituti popolari e 143


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di credito cooperativo ha cercato di proteggere quegli isti­ tuti dalla mareggiata in corso, ma si è abbattuto su di essa il bail-in, il provvedimento europeo che proibisce i salvataggi pubblici degli istituti di credito. Il «giglio magico» ha condotto una notevole politica di relazione (simile, del resto, a quella di altri), svolta in parti­ colare da Marco Carrai e da Luca Lotti, con il fiancheggia­ mento dei «tre padri» (Boschi, Renzi e Carrai) e trovando altri importanti appoggi regionali, come quello del senatore Denis Verdini, che ha rotto la sua pluriennale intesa con il cavalier Berlusconi per consentire la sopravvivenza del go­ verno Renzi. Intorno al «giglio magico», si è aggregata una corrente del PD che ha conosciuto una rapida espansione, e l’alleato necessario è stato il ceto politico del Partito Democratico (parlamentari, amministratori locali ecc.) e, soprattutto, le decine di migliaia di consulenti di enti nazionali e locali, gli amministratori di municipalizzate e di società regionali, il nuovo Parastato con le sue ricche prebende,4 che hanno so­ stituito il funzionariato nella raccolta di consensi e costituito la nuova borghesia arrebatora. La vittoria è stata facilitata dalla frustrazione del partito, esasperata per le troppe sconfitte e dall’insuccesso del 2013. Il quadro intermedio ha visto in Renzi l’uomo adatto a con­ quistare quella frazione elettorale di centro e di destra neces­ saria per vincere. La conquista della casella centrale di Palazzo Chigi ha poi consentito a Renzi di espandere ulteriormente il suo raggio di alleanze, ad esempio conquistando posizioni importanti nella Guardia di Finanza, nell’alta dirigenza statale, nei co­ mandi militari, soprattutto nei servizi segreti,5 come ha re­ centemente dimostrato l’ondata di nomine all’inizio del 2016. A questo si è accompagnato un graduale e cauto fa­ vore dei poteri forti di finanza e Confindustria che, inizial­ 144


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mente poco entusiasti del nuovo venuto e rassegnati alla sua presenza, dopo un graduale adattamento passivo, sono pas­ sati a manifestazioni di consenso, come nell’appoggio alla ri­ forma della Costituzione.6 Questa svolta è dovuta a vari fattori: il timore per una vit­ toria dell’M5S, la polverizzazione del polo di destra che non appare un competitore credibile, il profilarsi di una grave crisi bancaria che spinge a legarsi al governo per ottenere uno scudo contro le pressioni internazionali; ma la causa più rilevante è l’adesione dei poteri imprenditoriali a un progetto di riforma costituzionale che lascia sperare in una successiva attenuazione dei diritti sociali e, comunque, offre loro un leader politico dotato di pieni poteri con cui trattare. Come si vede, tra progetto renziano e progetto P2 non mancano elementi di somiglianza sia a livello nazionale (la radice toscana, la vicinanza alle banche minori, la pratica della politica di relazione, il radicamento nei servizi e nei co­ mandi militari, la sostanziale omogeneità al blocco storico capitalistico italiano, pur in un rapporto conflittuale) sia nei contatti internazionali, come la vicinanza a Israele e, soprat­ tutto, alla destra repubblicana americana, testimoniata dalla buona frequentazione di Luca Lotti con quel Michael Ledeen a suo tempo buon amico della P2. Quanto alla massoneria, due anni fa fu l’allora direttore del Corriere della Sera De Bortoli a parlare, non sappiamo con quale fondamento, di odore di massoneria intorno al go­ verno Renzi. Ma ci sono mutazioni da non trascurare. Ad esempio, la base elettorale è sensibilmente mutata dal 2013. Dal 25 per cento di quell’anno, nel 2014 il PD ha sfiorato il 41 per cento per poi scendere al 33-34 per cento. Ma in questi movimenti c’è stata una sensibile modifica della composizione dell’elet­ torato «democratico»: in un primo momento (2014), il PD ha assorbito quasi tutto l’elettorato centrista (Scelta Civica 145


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e UDC), frange di SEL e pezzi di Forza Italia, ma dopo la forte flessione del 2015-2016, nonostante un ulteriore ap­ porto di voti provenienti da Forza Italia, ha visto un’emorra­ gia di consenso verso l’astensione, il M5S e, in piccola parte, verso Sinistra Italiana. Come già Berlusconi, Renzi sta cercando di dare corpo al suo «popolo» in forma di partito. Perciò non è superflua una riflessione sulla sua idea di partito. Come abbiamo detto, la trasformazione dal PCI al PDS, poi DS, infine PD è stato un processo che ha man mano liquidato l’originario modello comunista, passando attraverso diversi momenti culminati oggi nel modello renziano. Il PCI era pensato come organizzazione delle classi subal­ terne, con una forte vocazione educativa e un elevato senso dell’azione collettiva. Era strutturato come una burocrazia razionale (con non pochi tratti autoritari, in verità) in cui la li­ nea politica era decisa esclusivamente dal gruppo dirigente e successivamente approvata dalla base; ciò, tuttavia, si accom­ pagnava a un’intensa partecipazione e a un sistematico moni­ toraggio degli umori della base, debitamente tenuti presenti dal gruppo dirigente nell’opera di definizione, modificazione e presentazione della linea politica. Vigeva una rigida con­ suetudine alla disciplina che vincolava ogni singolo iscritto all’osservanza della linea politica (secondo una versione par­ ticolare del centralismo democratico), il che garantiva la com­ pattezza della presenza comunista negli organismi di massa. La «normalizzazione» del PCI (poi PDS) nel sistema do­ veva passare necessariamente attraverso la liquidazione di questa consuetudine. Il modello prevalente negli altri partiti (forse con l’eccezione del PRI) prevedeva invece comporta­ menti meno improntati alla disciplina e caratterizzati da una forte conflittualità interna (soprattutto in occasione dei con­ gressi e della raccolta dei voti di preferenza durante le cam­ pagne elettorali). La proposta gelliana di un partito basato 146


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su club estremizzava il modello federativo e, quindi, con­ sentiva ampi margini di comportamenti «eterodossi», ma, implicitamente, sanciva la separazione definitiva fra base e gruppo dirigente, che diventava totalmente autoreferen­ ziale. Il gruppo dirigente, in questa concezione, è soggetto a un’unica verifica nel confronto elettorale con gli altri par­ titi, mentre all’interno del partito è una sorta di oligarchia intangibile e non sottoposta ad alcuna verifica. Era questo, nel progetto del PRD, il senso dei due schieramenti mode­ rati chiamati a confrontarsi. È da sottolineare l’avversione di Gelli al voto di preferenza per l’elezione dei deputati: nel modello maggioritario uninominale francese (preferito nella versione dello Schema «R»), non c’è preferenza perché c’è solo un candidato in ogni collegio e la sua designazione spetta al gruppo dirigente, mentre in quello tedesco (indi­ cato nel PRD) c’è una combinazione di collegi uninominali e liste bloccate senza preferenze, ugualmente decise dalla di­ rezione del partito. L’assenza di particolari vincoli discipli­ nari, perciò, era facilmente concessa in quanto compensata dalla scarsa, per non dire nulla, influenza della base, tanto nella scelta della linea politica e del gruppo dirigente nazio­ nale che nella scelta dei candidati locali. Nel PDS-DS-PD, sino al 2013, il vecchio modello co­ munista è stato smontato pezzo per pezzo, per approdare a qualcosa a metà strada fra il partito dei club proposto nel PRD, il vecchio modello di partito di iscritti e il «partito senza iscritti» all’americana, fondato su un’approssimativa edizione delle primarie. Per la verità, negli USA le primarie interessano i candidati alle varie cariche pubbliche ma non i vertici del partito, mentre lo statuto del PD prevede che i non iscritti al partito possano votare anche per il segretario del partito, cosa che non ha equivalenti in Europa. Renzi ha già trovato pronto tutto questo, anzi, la sua for­ tunata scalata ai vertici del partito è stata resa possibile pro­ 147


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prio da questo modello organizzativo. Né è un caso che egli non provenga dal PCI.7 Il «suo» partito ha come principale caratteristica proprio la liquidazione dei resti di quello che fu il partito con più iscritti in Italia: dal 2013 in poi si è verificata un’emorragia di iscritti (già più che dimezzati rispetto al PCI, nonostante quelli affluiti dalla Margherita), che oggi ammontano a meno di un terzo rispetto ai seicentomila di quell’anno. Molti espo­ nenti di primo piano, da Speranza a D ’Alema a Cuperlo, de­ nunciano lo stato di inedia in cui versano i circoli periferici; le manifestazioni di partito sono sempre meno frequentate, e un riflesso di tutto ciò si può leggere anche nel modesto risul­ tato ottenuto dalla raccolta delle firme per il referendum, che ha superato di stretta misura il limite del mezzo milione, cosa che, per un partito che supera stabilmente i dieci milioni di voti, dovrebbe essere giudicata quantomeno imbarazzante. La base degli iscritti sta semplicemente evaporando, rimpiaz­ zata dal «popolo delle primarie». Ma tutto questo non sembra preoccupare molto Renzi, neppure impressionato dall’ipotesi di una scissione che, al­ meno sulla carta, potrebbe portar via un terzo degli iscritti, perché egli sa che la percentuale sarebbe molto più bassa fra gli elettori, forse meno del dieci per cento. Renzi pratica un dialogo diretto fra il leader e la base elettorale, che non ha bisogno della mediazione del partito se non come struttura di comitati elettorali. In questa visione, gli iscritti sono solo supporter per le campagne elettorali. E qui torna un altro elemento di somiglianza con il pen­ siero politico gelliano: l’insofferenza verso i corpi intermedi. Anche Renzi non li ama («non parlo con la Confindustria, parlo direttamente con le aziende», «non parlo con la CGIL, parlo direttamente con i lavoratori»). La sua concezione di partito è più prossima a quella dei comitati elettorali all’ame­ ricana che a quella europea dei partiti di massa. E non c’è da 148


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stupirsi che attui questo modello in primo luogo con il pro­ prio partito. Renzi considera i partiti inutili apparati funzionariali (che intende ridurre alle dimensioni minime necessarie) i quali ostacolano il contatto con l’elettorato più di quanto non 10 agevolino. Egli preferisce quindi affidarsi alla rete dei con­ sulenti e amministratori della borghesia arrembatora. Non è affatto detto che abbia torto a proposito dei funzio­ nari: il modello di partito a «struttura pesante», con migliaia di funzionari che «vivono di politica e non per la politica», direbbe Max Weber, è sicuramente superato e non proponi­ bile oggi, ma non è scritto da nessuna parte che l’alternativa debba essere la ristretta oligarchia del gruppo dirigente di un «partito liquido» di elettori o il «partito del leader» a vo­ cazione cesaristica, con il codazzo di consulenti e consiglieri. Come Forza Italia, anche il partito renziano si nutre di una generosa dose di populismo: basti pensare allo spot elettorale degli ottanta euro (che non ha prodotto alcun im­ patto strutturale sull’economia italiana), o al principale tema di propaganda a sostegno della riforma costituzionale: con 11 Senato non elettivo e l’abrogazione di provincie e CNEL risparmieremo cinquecento milioni, da dare ai «poveri». Come in tutti i populismi, argomentazioni simili si reggono sul nulla: abolire il CNEL, il Senato elettivo e le provincie8 significa solo abolire gli stipendi di senatori e consiglieri, ma non le spese per i dipendenti, per le sedi, per gli arredi ecc., che costituiscono più dell’ottanta per cento del costo com­ plessivo e che per la gran parte resteranno. Populismo come tecnica per raccogliere il consenso. Per colpire i costi della politica sarebbero necessarie so­ prattutto tre misure che la riforma di Renzi neppure sfiora: - sfoltire la foresta di enti collaterali di Stato ed enti locali, falcidiando la compatta falange dei consiglieri di ammini­ strazione; 149


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- abbattere la pletora di consulenti e ridurne gli scandalosi compensi;9 - combattere la corruzione. Si tratta di temi rispetto ai quali l’interesse del PD è assai tiepido. E ... pour cause. Anche in questo, come detto, è evidente una continuità nel solco che da Gelli a Berlusconi giunge fino a oggi e prosegue. A questo modello, Renzi aggiunge la sua idea di Partito della Nazione, in verità mai dichiarata. Sue frequenti affer­ mazioni hanno fatto pensare a cose diverse e, talvolta, la proposta è sembrata abbandonata, salvo tornare periodica­ mente alla ribalta. Elenchiamo in proposito una serie di pos­ sibili interpretazioni: - una fusione fra il PD e i resti del centro (AP, Scelta civica, ALA ecc.) che rimuova l’ostacolo di un nome legato alla pur lontana e mediata eredità comunista; - una fusione di tutta l’area che va da PD e Forza Italia compresa; - un grande partito interclassista sul modello della DC; - il nuovo nome del PD - senza altre aggiunte - che si pre­ senta come unico garante degli interessi nazionali rimuo­ vendo ogni riferimento all’antica radice comunista; - un progetto che va al di là del singolo partito e indica una sorta di nuovo «compromesso storico». Ma, forse, l’interpretazione più originale e interessante è quella che ne danno Nadia Urbinati e David Ragazzoni: Se l’architettura della «Prima Repubblica» era pluralista, quella della «Seconda Repubblica»10 è monista. Mentre l’una prevedeva che la maggioranza fosse un esito da conseguire a partire dalle elezioni, l’altra è orientata dall’idea che la mag­

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gioranza debba conoscersi dalla sera stessa delle elezioni. Ser­ vendoci di paradigmi classici, potremmo dire che il sistema politico italiano sta attuando la transizione da un modello de­ mocratico pluripartitico a un modello di governo di partito.11

Dunque un regime di partito che si presenta, appunto, come «Partito della Nazione.

La concezione dello Stato: l’ispirazione di fondo All’inizio di questo libro abbiamo dedicato molta attenzione (che forse avrà infastidito il lettore non specialista) ai pro­ cessi storici relativi alla permanente tensione fra parlamento e governo. Ora è il momento di riprendere quelle conside­ razioni per attualizzarle, dimostrandone l’utilità ai fini del nostro ragionamento. Come si è detto, la spinta antiparlamentare ebbe un’o­ rigine regia e gentilizia: con il re, era la nobiltà, che spesso trovava posto nella Camera Alta, a costituire il bastione dell’ordine tradizionale contro l’avanzare della borghesia e, dietro di essa, delle classi popolari. Quando le monarchie caddero e si passò ai regimi repubblicani, la pulsione esecutivista e antiparlamentare rimase12 e, ancora una volta, fu lo strumento delle élite dominanti (ormai prevalentemente borghesi) contro le rivendicazioni delle classi subalterne, che cercavano nel parlamento la possibilità di esprimere la propria voce. Il fascismo segnò la fine del parlamento, ma anche la sconfitta frontale del movimento operaio e la so­ spensione delle libertà borghesi. Per questo, la caduta del fascismo vide alleati la borghesia liberale e il movimento operaio nella restaurazione della democrazia parlamentare, ma in una versione nuova, che correggeva le debolezze dei precedenti regimi democratico-liberali. 151


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La nuova democrazia avrebbe superato i limiti elitari e oligarchici di quei regimi, garantendo una robusta serie di diritti sociali, sostenuta da una vasta partecipazione popo­ lare. Il sistema proporzionale,13 i meccanismi di democrazia diretta come i referendum, i partiti di massa e i sindacati, la libertà di sciopero erano il naturale supporto del nuovo par­ lamentarismo; le spinte esecutiviste, benché non soffocate, erano contenute e bilanciate. La cultura antiparlamentare sembrò sepolta per sempre. Ma difficilmente le idee scompaiono del tutto: spesso sprofondano nel sottosuolo delle culture politiche, per rie­ mergere dopo qualche tempo come fiumi carsici.14 Per quanto riguarda l’Italia, come già accennato, negli anni Cinquanta iniziò a manifestarsi una critica al modello della democrazia dei partiti (rivolta non tanto alla forma di governo parlamentare, quanto al suo carattere di massa e, quindi, alla formula dei governi di coalizione), inizialmente limitata a singole personalità e senza alcun peso nel dibattito politico. A riaprire la porta alle ideologie elitiste, da sempre inclini alla centralità del governo e al ridimensionamento del par­ lamento, furono, una quindicina di anni dopo, due processi paralleli e interdipendenti: da un lato, il conflitto sociale de­ gli anni Settanta che, tuttavia, non giunse a consolidare un nuovo ordinamento sociale e politico e venne ricacciato in­ dietro; a causa e insieme per effetto della sconfitta dei movi­ menti di protesta, si sviluppò la degenerazione burocratica dei partiti che sfociò nella corruzione sistemica degli anni Ottanta. Dall’altro lato, in questo varco si inserì la P2 con i suoi due manifesti politici (Schema «R » e PRD) che misce­ lavano l’antica ispirazione antiparlamentare con i temi della guerra rivoluzionaria e con le teorie del sovraccarico della domanda. La P2 faceva una diagnosi molto semplice: i mali dell’Italia dipendevano da un sistema che determina un go­ 152


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verno debole; da qui la necessità della cura, ovvero una ri­ forma istituzionale fortemente «esecutivista». A rinvigorire questa spinta, vi fu anche la rivalutazione di un pensatore come Carl Schmitt,15 teorico della prevalenza della decisione politica nei confronti della Costituzione, e l’avallo accademico di studiosi come Gianfranco Miglio16 o Giuliano Amato, che proponevano classiche soluzioni di tipo presidenzialista, o simili al cancellierato. Dalla metà degli anni Ottanta, le tematiche antiparla­ mentari ed esecutiviste, previo opportuno maquillage, ritro­ varono cittadinanza nel dibattito politico, ispirando quello sulla Grande Riforma introdotto da Craxi e ripreso da altri esponenti politici, come abbiamo descritto nel capitolo pre­ cedente. Renzi si inserisce pienamente in questo solco ed è il punto di arrivo di questa traiettoria elitaria. Non devono far velo i suoi exploit populisti: spesso il populismo è solo una tecnica di governo di élite particolarmente spregiudicate. L’obiettivo attualmente perseguito è quello di un regime chiuso alle istanze della società civile, anche se la retorica che lo accompagna promette il contrario. E qui torna il «mantra della governabilità». Tutta la ri­ forma ruota intorno a questa categoria: il concetto di gover­ nabilità, parola chiave dal significato non sempre chiaro, di frequente invocata dal presidente del Consiglio come argo­ mento risolutore. Renzi sicuramente è un abile comunicatore: è disinvolto sino all’arroganza, non risponde mai nel merito dei rilievi che gli vengono mossi, preferisce attaccare personalmente suoi avversari («corvi», «rosiconi», «hanno nostalgia del PD al 25 per cento», «remano contro», «non vogliono agire», «perditempo»), il tutto condito con una robusta dose di ma­ leducazione molto trendy. Fra le sue tecniche di comunicazione, c’è quella di usare termini assiomatici, dandone per scontato il significato che, 153


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in realtà, spesso è diverso e molto più complesso. È appunto il caso della «parola magica» reggente tutta la riforma, «go­ vernabilità», che sottintende solo una cosa: il problema del sistema politico italiano è la scarsa durata dei governi, do­ vuta al carattere composito delle maggioranze che li sosten­ gono e ai limitati poteri del presidente del Consiglio. In que­ sto c’è una sintonia perfetta con quanto affermava Gelli in documenti e interviste. Ricordiamo la frase di Renzi per la quale il sistema elet­ torale deve far sì che gli italiani sappiano «già dalla sera dei risultati» chi governerà nei cinque anni successivi. Per Renzi non si vota per eleggere un parlamento, ma per eleggere un governo di cui il primo non sarà che cassa di risonanza con opposizioni limitate a un puro «diritto di tribuna», assolu­ tamente non in grado di incidere sul processo decisionale. Ecco cosa egli intende per «governabilità». Ma questa è solo una semplificazione di un problema complesso. In realtà, la situazione sembra essersi ulteriormente e sensi­ bilmente complicata nell’ultimo trentennio: la crisi fiscale dello Stato si è riprodotta, ma questa volta non certo per effetto del residuo stato sociale, quanto piuttosto per il peso degli inte­ ressi sul debito pubblico, che ha registrato un’impennata per l’irrisolta crisi bancaria che periodicamente si riaccende. Soprattutto, la crisi dell’ordine bipolare ha generato una grave instabilità internazionale, che si è tradotta nella mol­ tiplicazione delle sfide esterne (dal fenomeno dell’immigra­ zione e dei profughi al contagio finanziario, dal terrorismo internazionale alle montagne russe dei prezzi delle materie prime, dalle guerre locali all’inquinamento ambientale). Di fronte al proliferare di queste sfide, la reazione più facile e istintiva è quella dell’unità decisionale, simboleggiata dall’«uomo solo al comando», in grado di rispondere con pron­ tezza a ogni sfida e, dunque, un sistema istituzionale imper­ niato sul «dittatore temporaneo». 154


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In un contesto internazionale di questo genere, non c’è dubbio che sia essenziale opporre una risposta tempestiva all’emergenza. Ma siamo sicuri che tempestività faccia sem­ pre rima con immediatezza? Mi spiego meglio: viviamo in un’epoca di crisi del pensiero strategico, in gran parte pro­ dotta proprio dai processi di globalizzazione, con la loro velocità e complessità che moltiplicano i fenomeni di tipo controintuitivo. Basti una rapida (e necessariamente sche­ matica) carrellata sulle crisi dell’ultimo decennio: 1. Nel 2007 i prezzi petroliferi toccarono il picco contri­ buendo ad affrettare il crollo bancario americano dovuto ai mutui subprime. 2. La crisi bancaria indusse la speculazione finanziaria a spo­ starsi sul biofuel (e più in generale sulle materie prime), e ciò si combinò, nel 2009, con l’epidemia fungina africana e con i vasti incendi dei campi in Russia, che distrussero i rispettivi raccolti di cereali; tutto ciò, in aggiunta ai pes­ simi raccolti di Francia e Canada, ebbe l’inevitabile ef­ fetto di un brusco rialzo dei prezzi del frumento, il che causò a sua volta un’ondata senza precedenti di rivolte della fame in cinquantacinque Paesi. 3. I prezzi petroliferi, per il calo della domanda mondiale se­ guito alla crisi finanziaria e alla produzione di combusti­ bili da fonti rinnovabili, e le rivolte della fame favorirono lo scoppio della «primavera araba»; se da un lato si te­ mette una nuova impennata del barile di greggio, dall’al­ tro si determinò un’estesa destabilizzazione dell’area me­ diorientale nella quale si inserirono maldestramente USA, Francia e Gran Bretagna, con un intervento diretto in Libia e un intervento indiretto in Siria. Le conseguenze furono le relative guerre interne ancora irrisolte. 4. I focolai di Libia e Siria hanno determinato ingentissimi e incontrollati flussi di profughi verso l’Europa, e hanno 155


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aperto la porta a un soggetto islamista ben più pericoloso di Al Qaeda, l’ISIS, lo Stato islamico intorno a cui si è co­ stituita una fittissima rete di foreign fighters e di terroristi, in parte mescolati con i flussi migrativi, in parte con po­ polazione islamica già presente sul territorio europeo. 5. Gli effetti congiunti della crisi economica (ancora per­ durante, con indici di occupazione e consumi proporzio­ nalmente fra i più bassi dal 1945 in poi), dell’ondata mi­ gratoria e degli attentati terroristici hanno prodotto vio­ lente reazioni di tipo populista nei Paesi europei, le quali stanno destabilizzando i rispettivi regimi politici. 6. Questa serie di fenomeni sta generando una situazione in­ ternazionale sempre più ingovernabile; basti considerare lo sbigottimento delle classi dirigenti occidentali che non sanno che cosa fare di fronte alla Brexit e all’evoluzione della crisi politica in Turchia. Fermiamoci qui. Certamente non sono mancate le risposte rapide ma, sfortunatamente, non si sono rivelate le più riuscite, motivo per cui ogni scelta ha posto le premesse per la crisi succes­ siva, a tamburo battente. Ha fatto difetto un’adeguata con­ siderazione degli effetti controintuitivi che ciascuna di esse avrebbe comportato. Non sempre l’immediatezza è garanzia di successo, anzi, spesso pregiudica la possibilità che la ri­ sposta sia strategicamente calibrata. Inoltre, il modello dell’«uomo solo al comando» forse (e sottolineo forse) offre qualche vantaggio nell’immediato, ma nel medio periodo comporta effetti non desiderabili. Di fronte a una qualsiasi emergenza, l’opinione pubblica in genere reagisce facendo quadrato intorno al governo, a maggior ragione se personificato in un leader dal quale ci si attende la difesa contro la sfida sopraggiunta. Spesso que­ sto comporta l’isolamento delle opposizioni e la delegittima­ 156


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zione di ogni dissenso. Ma la gente vuole risultati e non ha una pazienza infinita: se dopo un certo periodo la crisi conti­ nua a imperversare, se l’occupazione stagna e il reddito me­ dio scende, oppure se, per fare un altro esempio, gli attentati terroristici si infittiscono anziché diminuire, si produce una sostanziale delegittimazione del sistema. La protesta conseguente non si appoggia alle opposi­ zioni interne al sistema - a suo tempo già emarginate - ma a nuovi soggetti più radicali e non sempre di ispirazione democratica (basti pensare al Front National francese o ad Alba Dorata in Grecia). Oppure può accadere che la prote­ sta, pur contenuta in limiti democratici, produca situazioni come la Brexit, o favorisca istanze secessioniste, come sta accadendo in Scozia o Catalogna. Il leader, che prima univa la nazione contro la sfida esterna, a quel punto incarna il simbolo della spaccatura e il Paese si scopre più diviso e perciò più debole. In tal modo, la democrazia finisce per correre rischi molto seri. Considerando tutto ciò, è difficile rimanere convinti che il metodo del «dittatore temporaneo» sia preferibile alle de­ cisioni condivise di una normale democrazia. D ’altra parte, parlare oggi di governabilità significa fare i conti con una governance mondiale sempre più instabile ma sempre più condizionante. Come governare senza la sovra­ nità monetaria? Quale governabilità è possibile in presenza di una fonte di produzione giuridica del tutto indipendente, neppure sottoposta alla Costituzione, come la UE? Si pensi alla vicenda del bail-in. Il problema della governabilità c’è ma la questione è molto più complessa di quanto non racconti la retorica provinciale e un po’ sgangherata di chi sostiene la riforma renziana. Il progetto di riforma costituzionale fa corpo con la legge elettorale in un unico disegno di trasformazione della nostra democrazia. Scrive Federico del Giudice: 157


Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi) Dietro alla tanto palesata «voglia di nuovo», si cela un dise­ gno diverso: espropriare il popolo di una parte del suo potere sovrano, da un lato mantenendo le cd. liste bloccate, anche se limitate ai 100 capilista come previsto dalla vigente legge elettorale (Italicum), dall’altra riformando il Senato, quanto a composizione, modalità di scelta dei suoi membri e poteri. L’obiettivo dell’attuale governo, in altre parole, è ridimensio­ nare i poteri dello Stato-comunità in favore dello Stato-per­ sona, dando più forza, a livello centrale e locale, a quei partiti che, con la vittoria delle elezioni, potranno controllare sia il Parlamento che il G overno... Questo stato di cose, derivante sia dalla crisi economica che dalla scarsa partecipazione politica dei cittadini (astensionismo) e dalla conseguente ingovernabilità del paese, ha messo in secondo piano la de­ composizione dei principi e della struttura della democrazia parlamentare, creando i presupporti per un progressivo, ma inesorabile, processo di decostituzionalizzazione.17

Una diagnosi troppo pessimistica? Veniamo all’esame della legge elettorale.

La legge elettorale Come si sa, la legge elettorale, per una improvvida decisione dell’Assemblea Costituente, non venne costituzionalizzata a suo tempo. Forma di governo e legge elettorale si presuppongono a vicenda, per cui una spiega l’altra: simul stabunt vel simul cadent. Il sistema costituzionale della Prima Repubblica si reg­ geva sulla legge proporzionale. La revisione costituzionale di Renzi si regge su una legge elettorale finalizzata a dare al primo partito una solida maggioranza assoluta. Ma questo non serve se resta il bicameralismo perfetto che prevede il voto di fiducia anche al Senato, anzi il rischio è quello di au­ mentare l’instabilità, perché è alta la probabilità di maggio­ 158


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ranze differenziate tra Camera e Senato. Anche se lo stesso sistema elettorale fosse adottato per il Senato, questo non darebbe alcuna garanzia di omogeneità fra le due camere. La Costituzione (art. 57), infatti, prevede che il sistema elet­ torale per il Senato sia su base regionale, per cui il medesimo meccanismo produce, regione per regione, maggioranze di­ verse che si elidono a vicenda; alla fine, chi vince lo fa con un margine nullo o risicatissimo. Per di più, l’elettorato del Senato è diverso da quello per la Camera, perché al Senato votano solo gli ultra-venticinquenni. Negli ultimi ventidue anni, la maggioranza ha sempre avuto nel Senato il suo tal­ lone d’Achille e nel 2013 nessuno dei poli aveva i seggi suffi­ cienti a costituire una maggioranza. Questo accade anche perché il formato bipolare è stato rimpiazzato da un sistema tripolare, per cui l’eventualità di un Senato in cui nessuno abbia la maggioranza è assai pro­ babile e quasi una certezza. Per tale motivo, l’Italicum (si­ stema elettorale maggioritario su lista) esige che si superi il bicameralismo perfetto, pena un incremento dell’instabilità. Viceversa, una riforma costituzionale che non preveda il sistema elettorale maggioritario alla Camera mancherebbe l’obiettivo di costituire un «esecutivo forte». D ’altra parte, il sistema elettorale determina una serie di mutamenti a catena che investono tutto l’ordinamento della repubblica. La legge divide il territorio in venti circoscrizioni suddi­ vise in cento collegi plurinominali.18 I candidati sono pre­ sentati in base al sesso in modo alternato e i capilista non possono essere dello stesso sesso in una percentuale supe­ riore al sessanta per cento. La legge ripristina il sistema delle candidature plurime, per cui i soli capilista possono candi­ darsi in dieci diverse circoscrizioni.19 L’elettore può espri­ mere due preferenze, purché di sesso diverso, fra i candidati non capilista. I seggi sono attribuiti in sede di collegio unico nazionale con il metodo del quoziente e dei resti più alti. 159


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La legge stabilisce che, se un singolo partito ottiene il quaranta per cento dei voti, si aggiudica come premio 340 seggi, mentre gli altri vanno distribuiti fra gli altri partiti che abbiano superato la clausola di sbarramento del tre per cento dei voti. I seggi dei collegi degli italiani all’estero non si computano al fine del premio di maggioranza. Se nessun partito ottiene il quaranta per cento, si procede a un secondo turno di ballottaggio fra i primi due e, ovvia­ mente, il premio va al partito che ottiene più voti. Esaminiamo ora le singole disposizioni, partendo dal premio di maggioranza che, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale del 3 dicembre 2013, avrebbe dovuto privilegiare il valore della rappresentanza rispetto a quello della governabilità (così si è espressa la Corte) e ridurre il premio entro limiti ragionevoli. In realtà, la sentenza ha la­ sciato imprecisata una questione essenziale: premio in cifra fissa o variabile? Spieghiamo meglio: il sistema elettorale greco, ad esempio, fissa per il primo partito un premio di cinquanta seggi su trecento; non è necessario stabilire una soglia minima per accedere al premio e non è garantito che il premio basti da solo a conquistare la maggioranza assoluta. Ad esempio, se il partito più votato ha il trenta per cento dei voti, ottiene circa settantacinque seggi con l’aggiunta dei cinquanta di premio; totalizza perciò 125 seggi, che sono meno della maggioranza assoluta, e dovrà ricorrere all’alle­ anza con qualche altro partito. Il sistema greco, per la verità, stabilisce che alla divisione dei seggi siano ammessi solo i partiti che abbiano conseguito più del tre per cento dei voti, per cui risulta un’ulteriore quota di seggi da distribuire, che viene dai voti dispersi, ma si tratta ovviamente di numeri molto modesti che solo eccezionalmente possono mutare il risultato effettivo. Il Porcellum, invece, stabiliva che al partito (o la coali­ zione) vincente andassero 340 seggi, qualunque fosse la base 160


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di partenza; nelle elezioni del 2013, la coalizione vincente ot­ tenne il cinquantaquattro per cento dei seggi con il ventinove per cento dei voti. Quindi, il premio era stato del venticin­ que per cento, cioè, praticamente aveva raddoppiato i seggi spettanti al vincitore. Ma se quest’ultimo avesse raccolto il venti per cento dei voti, il premio sarebbe stato del trentaquattro per cento, mentre se la coalizione vincente avesse avuto il cinquanta per cento dei voti, il premio sarebbe stato solo del quattro per cento. Si tratta del cosiddetto premio «flessibile», per il quale è molto importante stabilire una soglia minima in virtù della quale ottenere il premio e non determinare un eccesso di disrappresentatività. La sentenza citata non solo lasciava indeterminata la questione del pre­ mio fisso o flessibile, ma non indicava neppure una soglia precisa, né un criterio per stabilirla, fornendo al legislatore solo una sommaria indicazione di ragionevolezza. Si imma­ gina, però, che la soglia minima debba essere superiore al ventinove per cento, già ritenuta insufficiente. L’Italicum ha cercato di superare l’ostacolo fissando un margine del quaranta per cento al primo turno, in mancanza del quale, però, si procede al turno di ballottaggio nel quale, necessariamente, uno dei due contendenti otterrà più del cinquanta per cento. Una soluzione del genere è un evidente raggiro, per due motivi: il premio resta ancora discutibilmente alto e il dop­ pio turno peggiora le cose più di quanto non le risolva. Per la vittoria al primo turno si stabilisce infatti un pre­ mio che può raggiungere il quattordici per cento, che non è davvero poco. Alcuni studiosi sostengono che un premio di tale entità (pensato per assicurare solidità alla maggioranza governativa) sia accettabile,20 ma è lecito nutrire dubbi in proposito, sia perché sono pochi i sistemi elettorali che su­ perano un indice di distorsione del dieci-dodici per cento, sia perché un’ulteriore distorsione viene dalla clausola di 161


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sbarramento. Si pensi che, se cinque liste ottenessero media­ mente il due per cento, ci sarebbe un’ulteriore distorsione del dieci per cento, il che appare francamente poco ragio­ nevole. Oltretutto, stabilito che la governabilità è assicurata dal premio di maggioranza, non si capisce quale funzione abbia la clausola di sbarramento. Quanto al doppio turno, in realtà non sana nulla, al contra­ rio accentua i rischi di un alto indice di disrappresentatività per tre ragioni. In primo luogo, perché il valore da conside­ rare per stimare l’entità del premio non è quello del secondo turno (dove l’elettore deve scegliere solo fra due concorrenti di cui uno, per definizione, supererà il cinquanta per cento), ma sono i voti ottenuti al primo turno. E questa volta il rischio è perfino più grande, considerando che non si tratta di coa­ lizioni, ma di liste di partito, per cui si verificherà che, oltre alle maggiori, concorreranno, ad esempio, Area Popolare, ALA, Sinistra Italiana, Rifondazione Comunista, la Destra (e non sappiamo se Lega e Forza Italia si presenteranno insieme o separati), i cui risultati si sommeranno al solito cinque-sei per cento delle liste di minoranze nazionali. Potrebbe anche determinarsi una situazione in cui i due partiti maggiori otten­ gano il ventiquattro per cento il primo e il ventitré per cento il secondo: decisamente meno del ventinove per cento che già abbiamo individuato come soglia troppo bassa.21 In secondo luogo, è possibile (e anzi sta accadendo con una certa regolarità) che a vincere al secondo turno sia non chi ha avuto più voti nel primo turno, ma chi ne ha avuti meno, con il risultato che un partito che ha raccolto anche meno del venticinque per cento dei voti si aggiudichi il cinquantaquattro per cento dei seggi. Infine, è storicamente accertato che la percentuale di vo­ tanti tende a diminuire nel secondo turno; a giudicare dalle elezioni amministrative, tale flessione è particolarmente massiccia. 162


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In definitiva, c’è la concreta possibilità che un partito ot­ tenga più del cinquantaquattro per cento dei seggi in una competizione di secondo turno nella quale gli elettori sono il quaranta per cento o anche meno degli aventi diritto. Chi si sente di sostenere che, in queste condizioni, l’Italicum sia più rappresentativo del Porcellum? L’altro rilievo della Corte riguardava le liste bloccate, e anche qui la sentenza non si è espressa con particolare chiarezza (forse per timore di limitare troppo il ventaglio di scelte del legislatore): ha solo fatto un generico cenno all’eccessiva entità delle liste bloccate. Il sagace legislatore ha risolto il problema con i piccoli collegi plurinominali di sei-sette candidati in media, «bloccando» i soli capilista e ri­ pristinando le preferenze per gli altri candidati. La questione non ha ricevuto l’attenzione che avrebbe meritato. La legge dispone che i capilista di tutti i partiti in ciascuna circoscrizione siano automaticamente eletti - sem­ pre che la lista abbia ottenuto almeno un seggio in quella circoscrizione - mentre per eventuali ulteriori seggi risulte­ ranno eletti quelli che ottengano il maggior numero di pre­ ferenze. Apparentemente, si tratta di un ritorno delle prefe­ renze, ma la realtà è un’altra. Come si è detto, il sistema divide il Paese in 100 circoscri­ zioni, per una media di 6,3 seggi ciascuna. Considerato che 340 seggi vanno alla maggioranza, se ne ricava che, in linea di massima, 100 candidati della maggioranza saranno eletti a lista bloccata e 240 attraverso le preferenze.22 Ma per le li­ ste di opposizione, che devono dividersi i restanti 290 seggi, le cose sono ben diverse: in una circoscrizione media, pos­ siamo calcolare che la maggioranza otterrà fra i tre e i quat­ tro seggi, mentre i due-tre avanzati verranno divisi fra i par­ titi di opposizione. Per la conformazione del nostro sistema politico in tre poli, con diverse liste minori, difficilmente uno stesso partito otterrà due seggi in una circoscrizione, 163


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salvo rarissime eccezioni di circoscrizioni più grandi, o nelle quali un partito di minoranza possa vantare una particolare concentrazione,23 per cui è del tutto sensato pensare che quasi i 290 seggi di minoranza andranno ai capilista bloccati. Sommandosi ai capilista del partito vincente, potrebbe veri­ ficarsi che i candidati «garantiti» giungano a 390 (seggio più seggio meno) su 630. Dunque, continueremmo ad avere un parlamento costituito per più del 60 per cento da nominati. Peraltro, le segreterie dei partiti potrebbero aumentare ulteriormente la quota dei «nominati per decreto» con vari sistemi. Ad esempio, giocando con le candidature plurime, oppure si può far leva sui voti di genere, sempre allo scopo di dividere i voti sui candidati non desiderati e concentrarli su quello voluto. Oppure, si possono presentare candidati «deboli» in una circoscrizione nella quale si intende favorire candidati più graditi, assicurando loro una concorrenza di scarso peso. Senza contare scorrettezze maggiori, ad esem­ pio presentare candidati ineleggibili sempre al fine di favo­ rirne un altro. Tutto sommato, è realistico pensare che alla fine i candidati di gradimento delle segreterie supereranno il 60 per cento degli eletti. Come si vede, la logica del sistema elettorale è quella di comprimere la capacità di scelta dell’elettore, ed è finalizzata a fare del candidato alla presidenza del Consiglio una sorta di presidente eletto a suffragio diretto per tutta la legislatura. Allo scopo concorrono sia l’ampio premio di maggioranza (riservato, si badi bene, al partito e non a una coalizione),24 sia la cospicua quota di «nominati» sulla cui disciplina il pre­ sidente potrà fare sicuro affidamento. D ’altra parte, in caso di rottura della maggioranza, la logica del sistema (anche se questo non è ancora codificato nella Costituzione) porta allo scioglimento del parlamento, perché sia il rovesciamento del premier all’interno del partito sia una scissione e la co­ struzione di una maggioranza alternativa diventano eventi 164


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improbabili. Pertanto, i parlamentari di maggioranza sono indotti a osservare la massima disciplina, se vogliono evitare di ritrovarsi esclusi dalle liste in caso di nuove elezioni.25 Non si può che osservare, in proposito, la prosecuzione della linea maggioritaria auspicata dalla P2 e inaugurata da Occhetto, Pannella e Segni.

La questione del bicameralismo Il punto più delicato dell’intera riforma è la parte riguar­ dante il Senato, modificato sia nel numero dei membri, sia nella composizione e nelle attribuzioni. Il numero dei senatori viene ridotto a cento, di cui cinque nominati dal presidente della Repubblica (non più a vita ma per sette anni, pari alla durata della carica presidenziale, il che fa supporre che ogni presidente, all’inizio del mandato, nominerà i suoi cinque senatori, così da lasciare al succes­ sore la possibilità di nominare subito i suoi cinque), ventuno eletti fra i sindaci e settantaquattro fra i consiglieri regionali, in proporzione alla popolazione di ciascuna. I senatori non sono più eletti a suffragio diretto, ma in se­ condo grado, da parte delle assemblee regionali che li scel­ gono nel proprio seno o fra i sindaci della regione. Quanto alle attribuzioni, il Senato perde il potere di dare la fiducia al governo e di votare la legge di bilancio, ma man­ tiene il potere di esaminare ogni legge e di rinviarla even­ tualmente alla Camera dei Deputati. Nel caso di leggi riguar­ danti i poteri degli enti locali, la Camera dei Deputati decide a maggioranza assoluta (non si sa se dei componenti o dei votanti). Comunque, le riforme costituzionali debbono pas­ sare per il voto deliberativo del Senato. I senatori concorrono all’elezione del presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali e dei membri laici del 165


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Consiglio Superiore della Magistratura, partecipando alla seduta comune del Parlamento. Particolare enfasi è stata data dai proponenti all’abo­ lizione dell’indennità per i senatori, che continueranno a percepire quella dell’ente locale di appartenenza. I senatori continueranno inoltre a godere dell’immunità parlamentare. A norma del nuovo art. 70,26 al Senato sono attribuite funzioni disomogenee e non sempre chiare: a. fare da raccordo fra lo Stato e gli enti locali; b. concorrere alla funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabilite dalla Costituzione; c. svolgere funzione di raccordo fra Stato, gli altri enti costi­ tutivi della Repubblica e l’Unione Europea; d. partecipare alle decisioni dirette alla formazione e all’at­ tuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione Europea; e. valutare le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni; f. verificare l’impatto delle disposizioni della UE sul territo­ rio nazionale; g. concorrere a esprimere pareri sulle nomine di compe­ tenza del governo nei casi previsti dalla legge; h. verificare l’attuazione delle leggi dello Stato. In alcune particolari materie il Senato mantiene il voto paritario con la Camera: le leggi costituzionali e di revisione della Costituzione; quelle di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguisti­ che; i referendum popolari; le altre forme di consultazione previste dall’art. 71 della Costituzione; le leggi che determi­ nano l’ordinamento; la legislazione elettorale; gli organi di governo; le funzioni fondamentali dei comuni e delle città metropolitane; le disposizioni di principio sulle forme as­ 166


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sociative dei comuni; la legge che stabilisce le norme gene­ rali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione Europea; la legge che determina i casi di ineleg­ gibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore. Per quanto attiene alle leggi di competenza monocame­ rale, il nuovo testo prevede che ogni disegno di legge ap­ provato dalla Camera dei Deputati sia immediatamente tra­ smesso al Senato. Entro dieci giorni e su richiesta di un terzo dei suoi componenti, il Senato può disporne l’esame, ed en­ tro trenta giorni sottoporre eventuali proposte di modifica alla Camera, la quale si pronuncia in via definitiva. Riguardo alle leggi monocamerali rinforzate (quando ciò sia richiesto dalla tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero dell’interesse nazionale), il Senato, in virtù della cosiddetta Clausola di supremazia prevista dall’art. 117 della Costituzione, può modificare il testo della legge approvato dalla Camera la quale, in seconda battuta, è tenuta a deliberare a maggioranza assoluta. Veniamo alle osservazioni sul testo. Il primo punto particolarmente delicato riguarda la de­ cisione di non abolire il Senato ma di mantenerlo in vita, sebbene con competenze ridotte e con le caratteristiche di composizione di cui diremo. Ci si sarebbe potuti muovere nella direzione di un ordinamento del tutto monocamerale (beninteso, rivedendo quantomeno le norme sulla revisione costituzionale e l’elezione degli organi di garanzia). Oppure si sarebbe potuto mantenere in vita il Senato ma con fun­ zioni differenziate, ad esempio affidando alla Camera quelle di indirizzo politico (fiducia al governo, attività legislativa e atti di politica estera), trasferendo al Senato (ovviamente elettivo) i poteri di controllo e garanzia (potere di interroga­ zione e interpellanza, commissioni di indagine e di inchiesta, elezione dei giudici costituzionali e dei membri del CSM) e 167


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lasciandogli gli attuali poteri relativi all’elezione del presi­ dente della Repubblica e alla revisione costituzionale. La soluzione scelta appare confusa e descrive un orga­ nismo con poteri poco chiaramente delineati. In partico­ lare, sembra del tutto inadeguata la complicata definizione delle materie di competenza esclusivamente monocamerale, quelle di competenza concorrente fra Camera e Senato e le leggi rinforzate, rispetto alle quali il Senato potrebbe essere investito, o forse no. Stando all’infelice esperienza della ri­ forma del titolo V e della legislazione concorrente fra Stato e Regioni, l’esito più che prevedibile è quello di un’alluvione di ricorsi alla Corte Costituzionale per conflitti fra poteri dello Stato. Esattamente l’opposto della promessa semplifi­ cazione delle procedure. Il secondo punto riguarda la riduzione del numero dei senatori. L’intento di ridurre il numero di parlamentari è certamente lodevole, anche per ragioni di funzionalità; ma la stessa cosa si sarebbe potuta ottenere riducendo sia il numero dei senatori sia il numero dei deputati, in modo da mantenere la proporzione fra i due rami del Parlamento. Tale proporzione, invece, passa ora da un rapporto di circa uno a due a un rapporto quasi di uno a sei. Si poteva deci­ dere di abolire del tutto il Senato, ma se si è preferito man­ tenerlo: per quale ragione renderlo quasi irrilevante in occa­ sioni delle sedute comuni? La risposta è semplice: in questo modo pesa molto di più la Camera e, con essa, il premio at­ tribuito alla maggioranza. In terzo luogo, lascia assolutamente perplessi l’elezione indiretta; infatti sono i consigli regionali (e i consigli delle provincie autonome di Trento e Bolzano) a eleggere i sena­ tori tra i propri componenti, in conformità con le scelte degli elettori per i candidati consiglieri in occasione delle elezioni regionali tra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori. Que­ sta soluzione presta il fianco a diverse critiche: innanzitutto, 168


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viene indebolito il peso politico del Senato, che finisce per avere una legittimazione di rango inferiore rispetto all’inve­ stitura popolare della Camera.27 Inoltre, sorge un dubbio di ordine costituzionale: recentemente, la Costituzione è stata riformata per dare il diritto di voto agli italiani all’estero ri­ guardo ai due rami del parlamento, ma non per i consigli re­ gionali (cosa tecnicamente molto meno fattibile). L’attuale assetto crea perciò una disparità di trattamento fra i citta­ dini in patria - che seppure indirettamente influiscono sulla scelta dei senatori - e quelli all’estero, che ne sono del tutto estromessi. Una volta riconosciuto a questi connazionali il diritto di voto per il parlamento, lo si può poi dimezzare sta­ bilendo che non hanno alcun modo di influire sul Senato? Prevedere qualche ricorso alla Corte Costituzionale significa essere facili profeti. La fragile rappresentatività di questo organo risulta ulteriormente ridotta dal fatto che i consigli regionali sono eletti sulla base di leggi di tipo maggioritario, così da rispecchiare in modo distorto gli umori dell’eletto­ rato; e non sappiamo cosa stabilirà la legge sulle modalità con le quali i consigli regionali designeranno i senatori loro spettanti (sistema proporzionale? Maggioritario? Con pre­ mio di maggioranza?). Ancora, la decisione di riservare l’elettorato passivo ai soli sindaci e consiglieri regionali appare infelice per più ra­ gioni: trattandosi di persone già fortemente impegnate sul territorio (in particolare i sindaci), si può prevedere che non avranno molta facilità ad andare quattro volte al mese a Roma, per cui è plausibile che, alla fine, si converrà di or­ ganizzare i lavori per sessioni mensili o, eccezionalmente, bisettimanali. Di conseguenza, l’organo avrà un livello di produttività molto basso. In più, la durata del mandato dei nuovi senatori coincide con quella degli organi di apparte­ nenza, motivo per cui si verificheranno continui turn-over di senatori, che non potranno garantire la necessaria stabilità. 169


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Peggio ancora se consideriamo casi come i sindaci di Roma, Milano, Napoli e Torino, che sono totalmente assorbiti dalle loro competenze: dove troveranno mai il tempo di parteci­ pare ai lavori del Senato? Certo si può scegliere il sindaco di un comune meno impegnativo, con il risultato finale di fare il Senato dei sindaci di Pomezia, Rho, Carmagnola e Nola. Tutte cittadine rispettabilissime, ma sicuramente di peso po­ litico non eccessivo. Considerato tutto ciò, non è irrealistico pensare che da questa legge scaturirà un organo senatoriale a bassa legitti­ mazione, poco rappresentativo e con uno scarsissimo rendi­ mento e che, invece, produrrà ricorrente conflittualità con la Camera: esattamente l’ultima cosa di cui si avverte il bisogno. Ma il punto più delicato, e discutibile, è quello relativo alle norme per l’elezione dei nuovi senatori, rimessa a una emananda legge elettorale che riguarderà, ovviamente, solo il Senato. Va detto che, sin quando questa non sia approvata, l’art. 39 della legge specifica che per l’elezione del Senato, nei consigli regionali e della Provincia autonoma di Trento, ogni consigliere può votare per una sola lista di candidati, formata «da consiglieri e da sindaci dei rispettivi territori»; e che i senatori verranno distribuiti con criterio proporzionale fra le varie liste e con i maggiori resti per i quozienti parziali. Ma non si tratta del sistema definitivo, e non sappiamo cosa verrà fuori né quando. Nel frattempo, tale soluzione non chiarisce come saranno distribuiti i ventuno sindaci fra le re­ gioni (uno per regione? Val d’Aosta come la Lombardia? O alcune regioni non ne avranno nessuno?). La questione non è irrilevante, perché investe già la prima elezione: nel caso, più probabile, di un solo senatore-sindaco per ciascuna re­ gione, come evitare che ne risultino eletti due in due liste di­ verse, o che non ne risulti eletto nessuno? Si potrebbe votare separatamente per i consiglieri regionali e per il sindaco, per cui il sindaco eletto sarebbe quello con più voti, come in un 170


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collegio uninominale. Ma la norma parla di una sola lista per partito o coalizione, che includa sia i consiglieri regionali sia «i sindaci» (quasi che possa essercene più di uno per lista). In pratica, non sarà possibile applicare la norma dell’art. 39 ed eleggere il nuovo Senato, prima che sia pronta la legge costituzionale ad hoc. Ma se la legge non fosse votata prima dello scioglimento delle Camere (poco importa se anticipato o alla normale scadenza) ci troveremmo nella seguente situa­ zione: le nuove elezioni riguarderebbero solo la Camera che, però, non può da sola emanare la legge elettorale per il Se­ nato; si tratterebbe infatti di una legge bicamerale. L’assenza di un Senato impedirebbe dunque di approvare una legge senza la quale non è possibile eleggere il Senato. È il cane che si morde la coda. A meno di una soluzione concordata che superi i limiti della legge e proceda comunque all’elezione dei senatori. Si chiama «legge pastrocchio»: non sarebbe l’unica fra quelle vigenti, ma qui si tratta della Costituzione. In conclusione di queste osservazioni generali sulla legge, ci sembra illuminante questo brano di Patrizia Magarò: Tenendo conto anche di quanto sinteticamente detto in relazione al potere d ’inchiesta, l’analisi condotta in questo breve studio non pare al momento suggerire che il ruolo di controllo del Senato sia (nel suo complesso) destinato a compensarne adeguatamente la debolezza, sia come « C a ­ mera di rappresentanza territoriale» che come «Cam era di riflessione». Il progetto in esame, per la sua scarsa coerenza sistemica non sembra fare chiaramente del senato un fattore di equi­ librio nei nuovi rapporti tra centro e periferia, né agevola la ponderazione delle decisioni assunte dal primo ramo del Parlamento. Viene da chiedersi se non si finisca per riproporre, in una versione inedita e aggiornata, il paradosso di Seyès, dimo­ strando ancora una volta che l’inutilità della seconda C a­

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Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi) mera può determinarsi dove si decida di attribuire ad essa gli stessi poteri della prima, ma di fatto anche quando, diffe­ renziando funzioni e competenze, il secondo ramo del Par­ lamento finisca per aver troppo debole incidenza sui pro­ cessi decisionali.

Insomma, siamo passati dal sistema bicamerale al sistema a una camera e mezza di dubbia funzionalità. Non passerà molto tempo che diventerà necessario rimettere mano alla Costituzione per abolire del tutto il Senato. Qui registriamo un sostanziale punto di convergenza, per quanto imperfetto, con il monocameralismo del PRD e dello Schema «R». In margine alla questione del Senato, possiamo conside­ rare anche un aspetto più generale del processo legislativo. A partire dagli anni Sessanta, il governo ha fatto sempre più frequente ricorso alla decretazione di urgenza, anche in as­ senza di una reale necessità. Ovviamente, questo ha deter­ minato una sensibile variazione degli equilibri istituzionali, a favore del governo nei confronti del Parlamento. Già ne­ gli anni Sessanta la questione suscitò numerose lamentele da parte di giuristi, che non portarono però a nessun muta­ mento; anzi, la prassi registrò un ricorso alla decretazione in costante aumento, insieme a un crescente utilizzo del voto di fiducia, per superare l’ostruzionismo e rendere inemenda­ bile il testo di legge. L’attuale riforma fa un passo avanti e ... due indietro sulla questione. Infatti, l’art. 72 della Costituzione viene modifi­ cato (comma 5 del nuovo art. 72) inserendo l’approvazione dei decreti legge fra i casi in cui non è ammessa la proce­ dura abbreviata. Ciò sembrerebbe andare nella direzione di evitare l’abuso della decretazione; ma al comma 7 la legge si rimangia tutto e stabilisce che (per le leggi monocamerali) si introduca il cosiddetto «voto a data certa». In base a que­ sto, il governo potrebbe chiedere alla Camera dei Deputati 172


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di deliberare che un disegno di legge, indicato come essen­ ziale per l’attuazione del programma governativo, venga iscritto con priorità all’ordine del giorno e approvato defi­ nitivamente entro settanta giorni, termine differibile di non oltre quindici giorni. Quindi, alla decretazione si sostitui­ sce una sorta di «disegno di legge» a procedura accelerata, qualora il governo lo richieda. Insomma, dalla procedura abbreviata si passa a una procedura super-abbreviata, nella quale il parlamento non è chiamato neppure a votare preli­ minarmente sulla necessità e urgenza del procedimento. A stabilire che una norma sia «essenziale per l’attuazione del programma governativo» può essere solo il governo, che pretende la docile approvazione della legge (e, con una mag­ gioranza precostituita forte di un buon margine, non ci sono dubbi sull’esito finale) entro settanta, massimo ottantacinque giorni. Non si verificherà più la valanga di decreti legge per il semplice motivo che non ce ne sarà bisogno: avremo decreti travestiti da disegni di legge. E anche questo è un se­ gnale del processo di «sbilanciamento esecutivista».

IIpresidente della Repubblica Il testo della riforma modifica sensibilmente la figura del presidente della Repubblica per effetto del «combinato di­ sposto» fra legge elettorale e riforma costituzionale. Sinora la composizione del collegio elettorale per il capo dello Stato prevedeva 630 deputati, 320 Senatori (315 più quelli a vita,28 oltre agli ex presidenti) e 58 consiglieri re­ gionali, per un totale di circa 1008-1010 grandi elettori. La maggioranza assoluta (sufficiente dal quarto scrutinio) era perciò di 505-506 elettori. Già l’introduzione del sistema maggioritario ha sbilan­ ciato fortemente la partita a favore della maggioranza go­ 173


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vernativa, ma questo trovava un limitato contrappeso nel Senato eletto «su base regionale» e nei 58 consiglieri regio­ nali che, il più delle volte, erano divisi quasi a metà fra mag­ gioranza e opposizione. Inoltre, la maggioranza era sempre composta da più partiti che, per l’elezione del capo dello Stato, non erano soggetti ad alcun vincolo di coalizione. E c’era da tener conto del ruolo dei franchi tiratori, che al momento del voto spezzavano la disciplina di partito. Per quanto avvantaggiata dal sistema maggioritario, la coali­ zione vincente si trovava pertanto di fronte a diversi limiti e la partita dell’elezione rimaneva abbastanza aperta, come ha dimostrato la tormentata scadenza del 2013, risolta con la rielezione di Napolitano dopo che il PD si era frantumato a causa dell’azione dei franchi tiratori. Salvo rarissime ecce­ zioni (De Nicola nel 1946, Cossiga nel 1985), il presidente è sempre stato eletto dalla quarta votazione in poi. Nel nuovo parlamento in seduta comune, che in totale conterebbe 730 membri (non ci sono più i 58 rappresentanti delle regioni e i senatori sono solo 100, più gli ex presidenti della Repubblica) la maggioranza richiesta è di 2/3, come prima, per i primi tre scrutini, del 60 per cento degli aventi diritto dal quarto al sesto scrutinio e del 60 per cento dei vo­ tanti dal settimo in poi. Il prossimo presidente dovrebbe essere eletto nel 2022, allo scadere del settennato di Mattarella (a meno che questi non si dimetta prima, ritenendo opportuno rimettere il suo mandato dal momento che il referendum inaugura un nuovo sistema costituzionale). Un tempo troppo lungo per poter fare qualsiasi previsione, per più di un motivo: - non sappiamo ancora con quale legge elettorale voteremo; - non sappiamo come andranno le prossime elezioni poli­ tiche, chi vincerà e come si articoleranno le opposizioni grandi e piccole; 174


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- non sappiamo neppure come andranno le elezioni regio­ nali e amministrative e, di conseguenza, come saranno di­ stribuiti i senatori; - non sappiamo quanti saranno i senatori a vita, ancora in vita, e se ne saranno nominati di nuovi; - non sappiamo quale sarà la legge elettorale per il Senato; - non sappiamo se cambierà anche la legge elettorale di re­ gioni e comuni. Troppe variabili per azzardare qualsiasi previsione; pos­ siamo però fare un ragionamento seguendo la logica del si­ stema tratteggiato. Partiamo da un dato: il sistema costituzionale delineato dalla riforma (e con esso la legge elettorale) è essenzialmente esecutivo-centrico e, più particolarmente, premier-centrico, giustificato dalla necessità di decisioni veloci e coerenti, con un’unica impostazione politica e non frutto di mediazioni. Il rischio di un presidente ostile o, comunque, non in sintonia con il governo, perciò, è un’eventualità non funzionale alla logica del sistema. Di conseguenza, l’occupazione della casella del Quirinale acquisisce un valore strategico ancora maggiore rispetto all’attuale. Vediamo dunque quali carte potrà avere in mano la maggioranza. Facciamo un’ipotesi molto semplice: 630 deputati e 100 se­ natori (non teniamo conto di eventuali senatori a vita in più), totale 730, quorum dalla quarta votazione in poi, e non pren­ diamo in considerazione la lieve diminuzione a partire dal settimo scrutinio che può, al massimo, far scendere di duetre voti il quorum. Dunque, quorum a 438. La maggioranza ha 340 voti alla Camera, che però possono aumentare con una parte dei 12 eletti nelle circoscrizioni all’estero e con i 9 rappresentanti delle minoranze nazionali che non si compu­ tano ai fini del premio di maggioranza (proprio perché, non 175


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essendoci più le coalizioni, si presentano con simboli propri, godendo della esenzione dalla clausola di sbarramento). Dun­ que, un totale di 21 seggi che attribuiamo convenzionalmente per metà alla maggioranza (10-11). Ugualmente, dividiamo a metà i seggi al Senato, per una sommatoria di 340 + 10-11 + 50 per cento (dei voti in Senato, appunto). Il totale fa 400-401 seggi. Mancherebbero dunque 37-38 voti, che la maggioranza potrebbe reperire comodamente tramite accordo con una delle minoranze più forti, pagando il prezzo di un candidato di compromesso; ma proprio per le considerazioni prece­ denti, non è questa la soluzione più probabile. La via più sem­ plice potrebbe essere quella dell’accordo con qualche oppo­ sizione minore o più d’una, magari in cambio di una diversa compensazione (un vicepresidente di assemblea, qualche pre­ sidente di commissione, magari per la vigilanza RAI o il Copasir, al limite consociando il partito al governo ecc.). Prima ancora di questa ipotesi, però, valutiamo altre possibilità, partendo da una constatazione: non è possibile eleggere alcun presidente senza i voti del partito di maggio­ ranza, salvo che non si registri una tripla condizione: un ac­ cordo generale di tutte, ma proprio tutte, le opposizioni, la confluenza di almeno 89 franchi tiratori della maggioranza e nessun franco tiratore nelle file dell’opposizione. Circostanza possibile ma assai improbabile. Soprattutto, non sembra af­ fatto facile un accordo fra le due opposizioni maggiori. Come si vede, la maggioranza gode di un potere di interdizione che gli garantisce un rapporto di forza molto favorevole, e inco­ raggia i gruppi minori a cercare un accordo con essa. D ’altra parte, la possibilità che vi siano franchi tiratori riguarda, ed è perfino più probabile, anche la minoranza. Basti considerare quanti parlamentari sono passati al PD da Scelta Civica, dall’M5S, da SEL. Dunque, la prima mossa prevedibile è la ricerca di franchi tiratori nelle file altrui. Rimane comunque difficile che se ne riescano a raggranel­ 176


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lare una quarantina, che oltretutto dovrebbero bastare a compensare la fisiologica comparsa di franchi tiratori nella maggioranza. C’è inoltre da considerare che la presenza più o meno numerosa di franchi tiratori dipende anche da come verranno fatte le liste dai vari partiti. L’operazione potrebbe avere senso se, più che la ricerca di franchi tiratori, si pre­ parasse (come del resto si immagina da qualche tempo) una consistente scissione all’interno di una delle due opposi­ zioni, o magari in entrambe, con l’offerta di altri vantaggi. Più produttiva potrebbe essere la strada delle «liste ci­ vetta». Non si tratta di «inventare di sana pianta un partito» ma di passare un pacchetto di voti che aiuti un partito circon­ vicino a superare l’asticella del tre per cento. Si tratta di una tattica che potrebbe essere praticata da un partito che abbia la certezza di arrivare al ballottaggio, non importa se da primo o da secondo, perché al secondo turno i voti dell’alleato esterno tonerebbero «alla base». Ad esempio, un centrodestra in piena ripresa, pur senza un vero accordo con la Lega, po­ trebbe fare con quest’ultima un gioco del genere; o potrebbe far nascere una lista moderata di centro con il compito di sot­ trarre voti al PD. Ovviamente, al ballottaggio i voti di quel gruppo si riverserebbero sul candidato di centrodestra. Più realisticamente, tale operazione potrebbe essere tentata dal PD con una lista alla sua destra (magari ALA, o gruppi simili non confluiti nel centrodestra) e alla sua sini­ stra (con una lista mista di qualche ex SEL e qualche ex gril­ lino ecc.), allo scopo di contenere il M5S. Per quanto riguarda il M5S, non riesco a immaginare quale operazione possa fare. Inoltre, la cosa mi sembra estra­ nea alla sua impostazione ideologica; ma non si sa mai. Il vantaggio di questa operazione è duplice: in primo luogo, si aggiungono seggi che vanno oltre i 340, in secondo luogo, la lista che superi il 3 per cento parteciperebbe alla spartizione dei seggi resi disponibili dalla dispersione delle 177


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liste sotto quoziente. Un 3,5 per cento potrebbe facilmente ottenere 24-26 seggi, che risolverebbero già in gran parte il problema dei 38 seggi mancanti; se l’operazione fosse fatta con due liste, il problema sarebbe risolto. Se tutte queste manovre (caccia ai franchi tiratori altrui, scissioni degli avversari, ricerca di gruppi di opposizione mi­ nori, liste civetta ecc.) non avessero successo, non resterebbe che cercare l’alleanza con uno dei gruppi maggiori, magari giocando a metterli in concorrenza fra loro per aumentare il proprio potere contrattuale. Ma è ragionevole supporre che, prima di rassegnarsi a questa eventualità, la maggio­ ranza tenterebbe tutte le altre strade. Di fatto, la possibilità di conquistare la strategica casella del Quirinale imponendo un uomo di partito non è facilissima ma implica molti altri sviluppi, legati all’idea di un presidente non più arbitro su­ per partes, ma appendice della maggioranza. A tale proposito, è importante considerare un altro punto particolarmente delicato, che riguarda la messa in stato d’ac­ cusa del presidente della Repubblica. L’art 90 della Costituzione (rimasto invariato) stabilisce che il presidente risponde solo per i reati di alto tradimento o di attentato alla Costituzione. A decidere sulla messa in stato d’accusa è il parlamento in seduta comune, a maggio­ ranza assoluta. Con la nuova composizione del parlamento in seduta comune, questo significa che al partito di maggio­ ranza bastano i soliti 367 voti per spedire il capo dello Stato davanti all’Alta Corte di Giustizia. Si potrebbe osservare che è difficile che un presidente in­ corra in reati così gravi come i due sopra menzionati, che comunque occorrerebbe dimostrare. L’obiezione non tiene conto di due cose: 1. i due reati, soprattutto quello di attentato alla Costitu­ zione, sono assai indeterminati e dipendono da complesse 178


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valutazioni politico-giuridiche non predeterminabili (ad esempio, nel 1992 il PDS chiese la messa in stato d’accusa di Cossiga, sostenendo - non infondatamente - che gli eccessi esternatori e la prassi del presidente verso la ma­ gistratura alteravano i rapporti fra i poteri dello Stato, e per ciò stesso costituivano attentato alla Costituzione; nel 2014 il M5S, con valutazioni simili, propose la messa in stato d’accusa di Napolitano); 2. per deferire il capo dello Stato all’Alta Corte, non è af­ fatto necessario produrre prove, poiché la valutazione de­ gli elementi a carico è a insindacabile giudizio del parla­ mento. Il presidente magari sarà assolto, ma intanto deve dimettersi, in quanto è del tutto impensabile che un capo dello Stato, messo in stato d’accusa, resti al suo posto. L’evento è improbabile finché il presidente sia in sintonia con la maggioranza parlamentare; ma immaginiamo il caso di un presidente eletto da una maggioranza del partito A che si trovi in carica dopo elezioni politiche che segnino la vitto­ ria del partito B. Sappiamo per esperienza che, in tali circo­ stanze, si sviluppa una certa tensione fra Quirinale e governo (come è stato per il rapporto fra Berlusconi e Scalfaro nel 1994-96). Cosa accadrebbe se il partito di maggioranza ri­ tenesse insopportabile il livello della tensione? Oppure, più semplicemente, se per suoi calcoli politici avesse interesse a liberare la poltrona del capo dello Stato? Sin qui, la messa in stato d’accusa del presidente ha tro­ vato due forti limiti: la composizione bicamerale (in virtù della quale, al solito, il Senato era diviso quasi a metà) e il carattere di coalizione delle maggioranze (ad esempio, il gruppo di Casini non era disponibile ad allinearsi alla mag­ gioranza di centrodestra di cui era parte, per mettere in stato d’accusa Scalfaro). L’architettura istituzionale prevista dalle riforme di Renzi sopprime entrambe queste condizioni. 179


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Un simile ordinamento ha in sé tutte le premesse per vio­ lente crisi istituzionali. Ad esempio, cosa accadrebbe se si scatenasse una gara a chi arriva prima fra il presidente che punta allo scioglimento anticipato del parlamento e la mag­ gioranza che cerca di sbarrargli la strada mettendolo in stato d’accusa? Di fatto, il presidente diventa un ostaggio nelle mani della maggioranza di governo. Si sarebbe potuto modificare l’art. 90 prevedendo una maggioranza più alta per la decisione (ad esempio il settanta per cento), oppure attribuire la decisione ad altro organo (ad esempio il Senato integrato da compo­ nenti designati dal Consiglio Superiore della Magistratura e del Consiglio di Stato). Il fatto che non ci si sia pensato è significativo. Si può ancora fare? Quando si parla di nuovi assetti co­ stituzionali, non contano le intenzioni e gli impegni futuri: conta quello che è scritto nel testo sottoposto a giudizio re­ ferendario. Dopo, potrebbe non esserci né tempo né modo per un’ulteriore revisione costituzionale. E questo ha una ricaduta su tre punti delicatissimi: la nomina dei 5 senatori presidenziali, che non sono più l’ 1,5 per cento circa del Se­ nato, ma il 5 per cento pieno; la nomina dei 5 giudici costitu­ zionali; e il ruolo di presidente del CSM. Un presidente così dichiaratamente di parte pone problemi molto seri in sede di governo della giurisdizione. Ed è un altro evidente esempio dello «sbilanciamento esecutivista» di questa riforma.

Gli organi di garanzia Il punto più delicato della riforma Renzi riguarda il rischio di un sostanziale azzeramento dei meccanismi di controllo e garanzia della Costituzione. Iniziamo dalla Corte Costituzio­ nale. Come nell’ordinamento precedente, i giudici sono quin­ 180


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dici e spettano cinque al presidente della Repubblica, cinque alle giurisdizioni maggiori (CSM, Consiglio di Stato e Cassa­ zione) e cinque al parlamento, ma con una novità: non sono più eletti in seduta comune, ma tre dalla Camera e due dal Senato. È facile dedurre che, in linea di massima, i tre della Camera saranno divisi attribuendone due alla maggioranza e uno alle opposizioni, così come al Senato ne andranno uno alla maggioranza e uno alla minoranza. Per la verità, data la forte quota di maggioranza e la presumibile presenza di più opposizioni, è possibile che la maggioranza si prenda tutti i membri in palio, anche perché si vota nomina per nomina, oppure scelga a quale opposizione concedere il giudice resi­ duo. Naturalmente, opterebbe per quella meno ostile. D ’al­ tra parte, una simile operazione non è neppure necessaria, visto che i due della Camera e l’unico del Senato sommati ai cinque di nomina presidenziale farebbe otto membri su quindici, vale a dire una maggioranza garantita nella Corte. E con questo, la fondamentale funzione di garanzia della Corte Costituzionale diventa puramente virtuale. Non sarà nep­ pure necessario dare corso alla proposta della P2 di limitare i poteri della Corte Costituzionale, perché con una compo­ sizione del genere non ci saranno più sentenze «additive» o, più semplicemente, sentenze sgradite. Analoghe considerazioni riguardo al CSM. La normativa per l’elezione dei componenti laici del CSM resta invariata, per cui è necessario che ciascun candidato, per essere eletto, abbia il 60 per cento dei voti del parlamento in seduta co­ mune, cioè 438 voti. Ipotizzando che il governo abbia a di­ sposizione 48 voti al Senato (cui potrebbero aggiungersi i 5 senatori di nomina presidenziale, oppure alcuni dei parla­ mentari eletti nei collegi all’estero), da sommare ai 354 della Camera, il totale farebbe 407 voti, e dunque al candidato ne mancherebbero solo 31; alleandosi con una forza minore, il governo potrebbe prendersi tutti i membri laici (meno uno 181


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da offrire all’alleato di turno) del CSM, peraltro presieduto da un capo dello Stato eletto nella modalità poco sopra illu­ strate. Basterebbe l’accordo con una delle componenti della magistratura per controllare anche il CSM. Si tratta di un’i­ potesi non semplice da realizzare, ma neppure impossibile, motivo per cui anche il principio dell’autogoverno della ma­ gistratura risulta sensibilmente intaccato. Sempre nel quadro delle garanzie, c’è il punto della revi­ sione. Abbiamo spiegato come già la prassi abbia registrato più di uno strappo rispetto allo spirito, se non alla lettera, dell’articolo 138; per il resto la norma resta inalterata, ma in un quadro istituzionale ben diverso. Innanzitutto pesa, al solito, il forte premio di maggioranza attribuito a un sin­ golo partito che può, da solo, modificare la Costituzione alla Camera (salvo poi il referendum di conferma). Resta la dop­ pia lettura a intervalli e la delibera conforme del Senato, ma è molto probabile che il Governo abbia, in questo ramo del Parlamento, i 51-52 voti necessari. Infatti, occorre conside­ rare come in una buona parte delle regioni ci sia una mag­ gioranza di colore uguale a quella nazionale, mentre, nelle altre, ci sarebbe comunque una quota di minoranza spettante al partito di governo. Al governo basterebbe avere 46-47 se­ natori sui 95 espressi dalle regioni, sommati ai 5 di nomina presidenziale (che si immagina allineati all’indirizzo di mag­ gioranza), per raggiungere i 51-52 voti necessari. Se mancasse qualche voto, non sarebbe difficile trovarlo fra gli ex presi­ denti o fra gli altri, magari con un accordo con qualcuna delle formazioni più piccole, da compensare in qualche modo. Quanto alla durata del dibattito, si può ipotizzare che sarebbe molto più breve rispetto al passato, sia perché si tratterebbe di senatori che hanno anche un altro impegno prioritario, sia perché il loro numero sarebbe un terzo di quello attuale. Inoltre, a favore della tesi governativa, pese­ rebbe psicologicamente sui senatori anche la ben più debole 182


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legittimazione popolare del proprio ramo del parlamento. Oltretutto, si suppone che il governo promuoverà la riforma nel momento in cui fosse sicuro di non incontrare ostacoli in Senato, pur tenendo conto del continuo turn over dovuto ai rinnovi dei consigli regionali. Tutto sommato, basterebbe una sola modifica, quella dell’art. 138, magari per stabilire che, al posto della vecchia delibera conforme in entrambe le camere, basti procedere con il parlamento in seduta comune, dove il governo sarebbe comodamente in maggioranza. Sarebbe facile sostenere che tale esigenza è imposta dallo spirito dei tempi, che vuole de­ cisioni pronte e rapide. D’altro canto, è facile prevedere che sia le imperfezioni del testo, che abbiamo enumerato, sia il più che probabile ri­ pensamento circa la soluzione data al problema del Senato, spingeranno verso un nuovo rimaneggiamento della Costitu­ zione (e già molti esponenti di maggioranza sostengono che la riforma può essere approvata come è perché: «Eventuali imperfezioni potrebbero essere corrette in seguito dal parla­ mento»; dunque una nuova revisione costituzionale è già in programma). Una volta modificato l’art. 138, tutto divente­ rebbe più facile, compreso riscrivere la prima parte della Co­ stituzione (quella che parla dei diritti e delle libertà dei citta­ dini), magari secondo le indicazioni della grande banca ameri­ cana JP Morgan che, già tre anni fa, lamentò l’inadeguatezza, al tempo della globalizzazione, delle costituzioni antifasciste, che troppi diritti e troppe libertà riconoscono ai cittadini. Certo, sussiste il limite esplicito dell’art. 139 che defini­ sce non sottoponibile a revisione costituzionale la forma re­ pubblicana dello Stato, con quel che ne segue, e ci sono an­ che i «limiti impliciti» a una eventuale revisione. Verissimo. Solo che a decidere in proposito sarà la Corte Costituzionale dove, con ogni probabilità, almeno otto giudici su quindici saranno di parte governativa. 183


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A questo punto, è utile una breve riflessione di insieme. Questa riforma travolge l’indipendenza del presidente della Repubblica, rendendolo ostaggio della maggioranza; di con­ seguenza pone le premesse per una Corte Costituzionale addomesticata, mette pesantemente le mani sul CSM, rende inefficace ogni limite a ulteriori riforme costituzionali. È lo scenario di un regime. Forse tutto ciò non è nelle intenzioni di chi propone la ri­ forma; ma non è affatto necessario che lo sia, perché non è detto che al governo restino quelli che la stanno proponendo.

Referendum, iniziativa popolare ed enti locali Apparentemente, la riforma di Renzi apre le porte a una maggiore partecipazione popolare, attraverso uno sviluppo degli istituti di democrazia diretta. Infatti, riguardo alle pro­ poste di legge di iniziativa popolare, offre un termine certo per l’inserimento all’ordine del giorno dei lavori parlamen­ tari (art. 11 della legge che riforma l’art. 71 della Costitu­ zione). I regolamenti della Camera dovranno indicare tempi precisi di esame. La prassi parlamentare nei settant’anni di Repubblica ci ha insegnato che (salvo un paio di eccezioni) nessuna proposta di legge di iniziativa parlamentare è mai arrivata neppure in commissione, ma si è fermata subito dopo la sua presentazione alle camere. In tal senso, la norma sembra garantire finalmente che ciò non accada più, ed è certamente un intento lodevole. Ma ci sono aspetti che la va­ nificano o la rendono di difficile attuazione. La norma rinvia ai regolamenti parlamentari senza ulteriori indicazioni, per cui è possibile che, alla fine, gli stessi contemplino soltanto obblighi formali e facilmente aggirabili. Ciò potrebbe verifi­ carsi, ad esempio, con un sommario esame in commissione, che liquidi la proposta in brevissimo tempo e con una qualsi­ 184


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asi motivazione (rilievi di costituzionalità, assenza di coper­ ture per l’eventuale spesa ecc.). Oppure potrebbe essere che l’obbligo si fermi all’esame in commissione referente e non deliberante, dopodiché la proposta non andrà mai in aula e decadrà. Insomma, ci sono molte possibili scappatoie che fanno prevedere uno scarso successo di questa innovazione, che intanto triplica il numero delle firme necessarie. Più complessa è la partita riguardante i referendum. L’art. 11 della legge, riformando l’art. 71, introduce il seguente comma finale: Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla de­ terminazione delle politiche pubbliche, la legge stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d ’indirizzo, nonché altre forme di consultazione anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le C a­ mere sono disposte le modalità di attuazione.

Anche qui vi è un intento condivisibile, quello cioè di as­ sociare più strettamente il popolo alla definizione dell’indi­ rizzo politico del Paese, potenziando il più importante isti­ tuto di democrazia diretta, il referendum, con l’introduzione di quello propositivo. Va detto però che la norma è decisa­ mente imprecisa, sia riguardo al carattere del referendum (deliberativo o consultivo?) sia riguardo alle procedure e alla possibilità del parlamento di accogliere almeno in parte le proposte ed evitare il referendum. In particolare, c’è un punto da chiarire, a proposito del referendum abrogativo; in altro articolo, si introduce la possibilità del giudizio preven­ tivo di costituzionalità, ma non sappiamo se quella norma sia riferibile anche al referendum propositivo. Nel caso si trattasse di referendum di mero indirizzo o con valenza pu­ ramente consultiva, la questione potrebbe non avere grande rilevanza, perché sarebbe sempre possibile lasciar cadere o modificare la proposta. Ma nel caso di referendum delibe­ 185


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rativi, dove il testo approvato avrebbe ipso facto valore di legge, una pronuncia preventiva sarebbe più che opportuna, dato che dichiarare incostituzionale a posteriori una legge che ha ricevuto l’avallo popolare potrebbe rivelarsi un’ope­ razione molto rischiosa. C’è poi un altro aspetto: che cosa fare di referendum pro­ positivi, anche solo con carattere di indirizzo o consultivi, che tocchino le due materie «interdette» delle leggi tributa­ rie e dei trattati internazionali? Non è scontato che si possa applicare il criterio fissato dalla Costituzione per il referen­ dum abrogativo. Ciò vale particolarmente per i referendum in materia di trattati internazionali, dato che c’è un prece­ dente: nel 1989 si svolse un referendum consultivo sull’en­ trata dell’Italia nella costituenda UE. Perciò non si vede per­ ché si debba escludere un analogo referendum consultivo sull’uscita dell’Italia. Ma in tempi di Brexit è lecito dubitare che nella classe politica ci siano umori favorevoli a una si­ mile proposta. Per il momento, abbiamo poco più di un’intenzione tutta da concretizzare, sciogliendo la riserva di legge. Troppo poco per dire che siamo all’introduzione del referendum propositivo. Cambia anche la norma sui referendum abrogativi: re­ stano le cinquecentomila firme richieste e la prescrizione, per cui il referendum è annullato se non vi partecipi il cin­ quanta per cento più uno degli elettori. Ma (e questa è la novità) se le firme raccolte sono più di ottocentomila, il re­ ferendum è valido se vi partecipa non la maggioranza degli aventi diritto, ma la maggioranza rispetto al numero degli elettori che hanno partecipato alle elezioni politiche imme­ diatamente precedenti. Misura opportuna, che cerca di ri­ solvere un problema sorto a partire dal 1991, quando le asso­ ciazioni venatorie invitarono a boicottare il referendum sulla caccia indetto dai radicali ed ebbero successo. Da allora, in 186


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molte altre occasioni (l’ultima è il referendum sulle trivelle petrolifere del 17 aprile 2016) l’espediente è stato usato, il più delle volte con successo. In effetti, la soglia fisiologica di assenti alle elezioni (che si è ulteriormente espansa per effetto della disaffezione ai meccanismi della democrazia) assegna agli oppositori all’abrogazione un vantaggio molto forte (in qualche caso di circa il trentacinque-quaranta per cento), per cui basta assai poco per ottenere il fallimento del referendum. La conseguenza è una serie di effetti perversi: violazione della parità di condizione degli schieramenti; vio­ lazione della segretezza del voto, perché diventa controlla­ bile il comportamento dell’elettore, che in sé è «neutro» ma, se riferito al mancato raggiungimento del quoziente, diventa produttore di effetti politici. Una revisione del criterio in­ dicato nella Costituzione del 1948 è più che opportuna, se vogliamo rivitalizzare l’istituto referendario; e di ciò va dato atto al legislatore. Tuttavia, anche in questo caso si tratta di un rimedio parziale e ad alto rischio di inefficacia, perché non annulla né il vantaggio del «N o», né la possibilità di controllare il voto. Un’altra novità è l’anticipazione del giudizio di ammis­ sibilità da parte della Corte Costituzionale, dopo le prime quattrocentomila firme raccolte. Anche qui, la norma in sé è accettabile, ma ha scarsa forza innovativa perché quattrocentomila firme sono già una soglia molto alta e il vantaggio per i proponenti è assai limitato. Infatti, se il quesito venisse respinto, occorrerebbe tornare a raccogliere le firme da zero, se venisse ammesso, tutto resterebbe come prima. In definitiva, questo è certamente il punto della riforma più lontano dallo spirito e dalla lettera del PRD e dello Schema «R». Sfortunatamente, è anche il punto più aleatorio. Tutta la riforma va nel senso del rafforzamento dell’ese­ cutivo sia nei confronti del parlamento, del presidente della Repubblica e della Corte Costituzionale, sia della magistra­ 187


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tura (che viene messa sotto tutela da un CSM ben altrimenti orientato), sia degli enti locali. La maggiore novità è la nuova formulazione dell’art. 117, che subordina l’effettivo esercizio nelle materie delegate al fatto che la Regione sia «in condizioni d’equilibrio fra le entrate e le spese del proprio bilancio». Dunque, nessun indebitamento. E questo come evidente prosecuzione della già attuata modifica dell’art. 81 della Costituzione, che fissa l’obbligo del pareggio di bilancio. Più avanti, viene abrogato il comma relativo alla legislazione concorrente. Per il resto, la novità più rilevante è l’abrogazione della parte riguardante le provincie. A dire il vero, come qualcuno ha osservato, questo non coincide con la loro abolizione. Le provincie potranno continuare a esistere se ci sarà una legge ordinaria nazionale o regionale che le preveda. Anche in questo punto, si può notare una coincidenza di indirizzo con il PRD. E lo stesso avviene per l’abrogazione del CNEL. Non che si debba essere necessariamente in disac­ cordo con una misura tutto sommato ragionevole come l’ul­ tima elencata, ma semplicemente notiamo la frequenza di con­ vergenze fra la riforma renziana e quella vagheggiata da Gelli.

P2 e renzismo: differenze e somiglianze sociali Come per ogni soggetto politico, anche per la P2 è utile ana­ lizzare le finalità sociali che erano alla sua base. Il maggior danno prodotto dal «complottismo» è quello di ridurre tutto al progetto criminale di un piccolo gruppo di congiurati, senza capire che ciò che meglio aiuta a comprendere il feno­ meno non è tanto analizzarne la modalità d’azione prescelta, quanto il sottostante intreccio di interessi. Da un punto di vista storiografico, che un soggetto abbia fatto ricorso a me­ todi più o meno criminali è rilevante sino a un certo punto. 188


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L’assassinio di Matteotti fu certamente un delitto gravis­ simo, ma non è indispensabile per segnare il giudizio storico sul fascismo, su cui graverebbe la stessa condanna anche se quel delitto non fosse accaduto; atti come la Legge sul Primo Ministro, lo scioglimento degli altri partiti, l’istituzione del Tribunale Speciale o l’entrata in guerra pesano infinitamente di più, da questo punto di vista.

Tirando le fila Ripetiamo che la P2 ebbe carattere elitario, orientato a un controllo indiretto e occulto del potere. Esso aveva il suo «nucleo traente» nel «partito toscano» alleato al partito ro­ mano, con l’obiettivo di dar vita ad un «terzo polo» bancario che consentisse l’accesso al «salotto buono della finanza». La P2 realizzò una innovazione di metodo basata sulla «poli­ tica di relazione». Per più versi differente è il renzismo, ma con forti punti di contatto che descrivono più di una semplice somiglianza e per questo abbiamo parlato di continuità genetica. Esaminando la riforma costituzionale proposta da Renzi, abbiamo indicato i non pochi punti di identità, più o meno parziale, con quanto proposto dal Piano di Rinascita Demo­ cratica (prosecuzione nella linea del sistema elettorale mag­ gioritario, liquidazione del Senato,29 abolizione delle pro­ vincie, abolizione del CNEL, condizionamento della Corte Costituzionale30 ecc.), il che è solo un indice di convergenza. Altri elementi potremmo ricavarli dalla prassi quotidiana di questo governo, ad esempio l’occupazione della RAI in vi­ sta del referendum; la normativa in materia di banche popo­ lari e di credito cooperativo; quella sulla scuola; la marcata propensione a limitare il diritto di sciopero, per cui anche i sorveglianti dei monumenti nazionali o dei musei svolge­ 189


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rebbero un servizio essenziale e quindi potrebbero essere as­ soggettati alle limitazioni di legge; il modo in cui si è risolto il problema della responsabilità civile dei magistrati, e altro ancora. Tutti punti che fanno rima con i programmi gelliani. Tuttavia, non è questo calcolo ragionieristico a poter dare conto della sostanziale corrispondenza fra la linea politica di Renzi e il Piano di Rinascita Democratica. D ’altra parte, è giusto ribadire che il fatto che una deter­ minata proposta sia contenuta in quell’infausto documento non significa che la stessa sia da rigettare; personalmente non trovo affatto scandalosa l’abrogazione del CNEL che, al contrario, avrebbe dovuto essere decisa almeno mezzo secolo prima, constatando il completo fallimento di questo istituto. Quello che più conta è la confluenza sulla questione cen­ trale: la concezione della Costituzione e la forma di governo, il resto è rilevante solo marginalmente. In primo luogo, di che tipo di Costituzione parliamo? Nella storia ci sono stati due tipi di Costituzione: quelle ottriate o «sovrane» («donate» dal sovrano)31 e quelle «pat­ tizie», o «di garanzia» (risultanti da un ampio accordo fra parti politiche), alle quali si è aggiunto un terzo tipo, quelle di «partito» o «prevaricanti» (nelle quali un singolo partito, talvolta con piccole formazioni di alleati al seguito, impone un suo testo agli altri). La Costituzione italiana del 1948, ad esempio, è una costi­ tuzione pattizia (o di «garanzia») e a dirlo sono i numeri: fu approvata con 458 voti su 556 componenti (82,37 per cento) in un’Assemblea eletta con metodo rigorosamente proporzio­ nale, senza premi di maggioranza o clausole di sbarramento. La riforma costituzionale di Renzi è stata votata alla Ca­ mera con 361 voti favorevoli su 630 (57,3 per cento), in un parlamento eletto con legge maggioritaria (incostituzionale), e al Senato con 180 voti (55,21 per cento) su 326 componenti 190


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eletti con metodo maggioritario. A favore hanno votato il PD, il centro (Scelta Civica, UCD, NCD e varie scissioni di Forza Italia, SVP e UV) e Forza Italia. Contro hanno votato il M5S, la Lega, SEL, Fratelli d’Italia e singoli esponenti. Con­ siderando i risultati alla Camera del febbraio 2013, i partiti favorevoli alla riforma rappresentavano il 55,36 per cento del voto popolare;32 ma va detto che Forza Italia si è poi disso­ ciata schierandosi per il «N o» nel referendum. Dunque, non mi pare ci siano troppi dubbi sul fatto che sia una «Costitu­ zione di partito», nella quale un’occasionale maggioranza (di assai dubbia legittimità costituzionale) ha sopraffatto le altre parti politiche imponendo la sua Costituzione. Da questo punto di vista, la concezione del testo costitu­ zionale è molto prossima a quella di Gelli, che proponeva un comitato di saggi dotati di pieni poteri. Si tratta di una concezione decisionista di tipo squisitamente schmittiano, criticata, a suo tempo, anche da Costantino Mortati che, in quel momento, non era lontano da compromissioni con il regime fascista.33 Molti anni dopo, il tema schmittiano venne ripreso da Gianfranco Miglio che definì la Costituzione «Il patto che i il vincitore offre ai vinti». Questa era ieri la concezione di Gelli ed è oggi quella di Renzi: una Costituzione di partito per un regime di par­ tito. Forse, date le caratteristiche assunte dal dibattito sulla riforma, che parte da una conventio ad excludendum del primo partito italiano per voti popolari, il M5S, ci si sarebbe potuti attendere un richiamo del capo dello Stato allo spirito garantista della nostra Costituzione; ma il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, manteneva probabilmente una perdurante e non sfavorevole memoria delle costitu­ zioni di partito dell’URSS, come quella del 1936. L’aspetto più pericoloso della riforma Renzi è l’abban­ dono del principio della Costituzione «casa comune». La riforma nasce con un peccato originale non emendabile: è 191


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prodotta da un parlamento nel quale (lo ripetiamo perché sia sempre presente nella mente di chi ci legge), grazie a una legge incostituzionale, un partito che ha avuto il venticin­ que per cento dei voti dispone di oltre la metà dei seggi alla Camera; e che, avendo assorbito parte dei parlamentari di Scelta Civica e di SEL, dispone di ulteriori voti. Tuttavia, resta un partito che non ha la maggioranza as­ soluta del consenso popolare. Il partito in questione ha prodotto una riforma costituzionale con il solo ausilio di un asfittico centro che, stando ai risultati delle elezioni de­ gli ultimi mesi, non rappresenta neppure il cinque per cento dell’elettorato. Insomma, siamo di fronte a una «costituzione di minoranza». Una simile pecca non può essere emendata dal referendum confermativo che, anche nel caso di vittoria dei «Sì», risulterebbe una consultazione a posteriori, senza possibilità di discussione nel merito delle singole proposte (è infatti impensabile un referendum «spacchettato», un ri­ medio che sarebbe peggiore del male) e senza la possibilità di emendare il testo. E poiché l’esito più probabile, stando ai sondaggi, è quello di una consultazione vinta da uno dei due schieramenti con un margine risicatissimo, avremmo co­ munque una Costituzione nella quale quasi la metà dell’elet­ torato non si riconoscerebbe. La riforma, insomma, rischia di avere già prodotto la fine della Costituzione come valore comune, e imposto l’idea di una Costituzione del vincitore. Le costituzioni decisioniste e di partito forse offrono mo­ mentanei vantaggi, ma a lungo termine corrodono il senso di appartenenza nazionale e indeboliscono, sulla scena interna­ zionale, i Paesi che le subiscono. E veniamo al secondo punto di contatto con l’ideologia piduista: la forma di governo. Tanto Gelli quanto Renzi sono sostenitori della centralità del governo rispetto al par­ lamento e del primato della governabilità sulla rappresen­ tanza. Di più, sono entrambi fautori di un esecutivo senza 192


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«inutili intralci» costituzionali, in cui i meccanismi di con­ trollo e di garanzia sono sostanzialmente azzerati. Questa impostazione leaderistica e priva di contrappesi istituzio­ nali porta con sé un corollario: l’ostilità per qualsiasi tipo di corpo intermedio (partiti, sindacati, associazioni...), rim­ piazzato dal rapporto diretto del leader con la base eletto­ rale. Gelli non nascondeva la sua ostilità verso i sindacati e concepiva i partiti come schieramenti fluidi, comitati eletto­ rali al servizio del leader-presidente. L’avversione al PCI - che implicitamente il PRD conside­ rava hors-la-loi - non era determinata solo dalle posizioni in politica estera o dal suo (sempre più formale) anticapitali­ smo, ma anche dal suo modello organizzativo a forte radica­ mento territoriale, assistito da una robusta serie di organismi di massa. Dunque, il modello è quello di una repubblica presiden­ ziale (nella sostanza) ma, per certi versi, con maggiori con­ tatti con il modello sudamericano che non con quello degli USA, che è molto attento al bilanciamento dei poteri. Alcuni autori sostengono che: Non siamo dunque a un cambiamento della Costituzione, a una sua trasformazione in qualcosa di diverso [ . ] ad un suo stravolgimento: siamo di fronte a una incisiva modifi­ cazione che punta ad adeguare e ammodernare la sola se­ conda parte della Costituzione per renderla più funzionale (o meno disfunzionale) [...] non nascerà nessuna «seconda Repubblica», almeno dal punto di vista giuridico-costituzionale (anche se so che così la si chiamerà , se non addirittura « t e r z a » .) 34

E successivamente si sostiene che: L a riforma costituzionale non tocca direttamente la forma di governo che resta parlamentare così come hanno voluto

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Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi) i costituenti [ . ] [il regime parlamentare] dal punto di vista giuridico mantiene tutte quante le sue caratteristiche (sfidu­ cia permanentemente a disposizione della Camera ovvero della maggioranza dei suoi deputati, potere di scioglimento presidenziale come soluzione cui ricorrere in caso di incapa­ cità di esprimere una maggioranza qualsiasi, piena possibi­ lità di sostituire il Presidente del Consiglio in carica).35

Sulla carta, il ragionamento funziona: effettivamente sfi­ ducia parlamentare al governo, scioglimento anticipato della Camera e sostituibilità del presidente del Consiglio sono tutte cose previste dalla Costituzione anche dopo la ri­ forma; ma questo ragionamento prescinde dai meccanismi reali e non formali del sistema politico. Il ragionamento di Carlo Fusaro non tiene adeguatamente conto dei mecca­ nismi determinati dalla legge elettorale, di cui pure si oc­ cupa, ma troppo superficialmente. Innanzitutto, sottovaluta il passaggio dal sistema del premio alla coalizione a quello del premio al partito: in un sistema basato su coalizioni, in­ torno al partito principale ci sono formazioni politiche or­ ganizzate che possono passare ad altra coalizione (come nel caso della crisi di governo del 2008, con il passaggio delle formazioni di Mastella e Dini al centrodestra), o che sono in grado di affrontare autonomamente le elezioni (come in occasione della crisi del 1994, con l’uscita della Lega dal go­ verno Berlusconi). Con l’Italicum si passa al premio al par­ tito che, da solo, ha ottenuto i 340 seggi. Ne consegue che le uniche strade per una crisi di governo sono la defezione di un gruppo consistente di deputati (magari con la tecnica ben nota dei franchi tiratori su un provvedimento ritenuto essenziale dal governo il quale, se non formalmente, politi­ camente sarebbe indotto alle dimissioni) o un’aperta ribel­ lione, preludio di una scissione (poiché è automatica l’espul­ sione dei «ribelli» dal partito), o un rovesciamento dei rap­ porti di forza all’interno del partito. 194


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La prima ipotesi trova un limite nel rischio di nuove ele­ zioni, con quello conseguente di venire individuati ed esclusi dalle liste, o essere collocati in posizioni tali da rendere diffi­ cile l’elezione. Nessun deputato vorrebbe correre un rischio del genere, e senza risultato, dato che difficilmente il par­ tito potrebbe accettare di cambiare un presidente del Con­ siglio (che nel caso del PD è anche il segretario) e un nuovo governo, se non per un rimescolamento di carte interno (la terza ipotesi). La seconda ipotesi, quella dell’aperta ribellione, si scon­ trerebbe con le prevedibili misure disciplinari della maggio­ ranza e con la più che probabile esclusione dalle liste. Sa­ rebbe perciò la premessa immediata di una scissione, acca­ dimento che però si scontrerebbe con il quasi certo ricorso alle urne e con la difficoltà di organizzare una forza politica autonoma in breve tempo. Di fatto, tanto la prima quanto la seconda opzione hanno qualche possibilità di successo solo se precedute da una lunga congiura palatina che riesca a unire un numero sufficiente di deputati in grado di imporre un rapporto di forze favorevole a sé. Non è cosa semplice da realizzare, tenendo conto che il presidente del Consiglio ha a sua disposizione molti strumenti per premiare chi gli è fedele e per colpire e arginare i suoi oppositori. Resta la terza opzione, il ribaltone interno alla direzione del partito o nel corso di un congresso. Anche in questo caso la manovra dovrebbe misurarsi con le azioni di contrasto del presidente del Consiglio (a maggior ragione se questi è anche il segretario del partito), per cui dovrebbe essere preceduta da un lungo lavoro al coperto. Peraltro, ci sarebbe un ulte­ riore impedimento: il rovesciamento dei rapporti nel partito non sarebbe automaticamente seguito da un analogo rove­ sciamento nel gruppo parlamentare. Qui la maggioranza dei deputati sarebbe quella designata dalla precedente direzione del partito, vale a dire dal segretario in carica, sia attraverso 195


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la scelta dei cento capilista, sia attraverso gli altri meccanismi premiali per gli «amici»; e alcuni di loro sarebbero ministri o sottosegretari. Anche in questo caso, si potrebbe rischiare una scissione e nuove elezioni, che non converrebbero né al leader uscente né a quello entrante. La spinta al rovescia­ mento del governo in carica troverebbe perciò diversi freni. In teoria sarebbe possibile anche un rovesciamento di al­ leanze in parlamento, in cui il gruppo che esce dal partito di maggioranza stringa un’alleanza con le opposizioni per formare un nuovo governo, ma le probabilità di successo sarebbero molto scarse: in un sistema politico tripolare non è semplice costituire un’alleanza tra diversi gruppi di op­ posizione, probabilmente disomogenei, e un terzo gruppo proveniente dalla maggioranza, per costituire un governo di dubbia durata. Quanto alla possibilità che il presidente della Repubblica svolga un ruolo autonomo nello scioglimento anticipato della Camera, vale la pena ricordare la debolezza strutturale di questa carica nel nuovo ordinamento. Pertanto, le caratteristiche parlamentari del sistema re­ stano sulla carta; nella realtà, sono soltanto ipotesi attuabili in casi eccezionali. D ’altra parte, la legge elettorale offre margini di manovra sin qui poco indagati. Ad esempio, una forza politica sicura di arrivare al ballottaggio avrebbe interesse a dar vita a una lista civetta di fiancheggiamento che abbia la ragionevole probabilità di superare il tre per cento, sia per sottrarre voti a uno degli avversari, sia per raccogliere altri seggi: i voti dei fiancheggiatori si aggiungerebbero a quelli del partito «amico» al ballottaggio e i suoi seggi (realisticamente una ventina) potrebbero aggiungersi ai 340 assicurati dal premio. Dunque, se non si può parlare di regime pienamente presidenzialista, siamo comunque ben oltre l’ordinamento par­ lamentare. Quello di Renzi è una sorta di cripto-presidenzia­ 196


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lismo che, a differenza di quello che afferma Fusaro nel suo saggio, in concreto non è giuridicamente molto meno forte del cancelliere tedesco, o del presidente del Consiglio fran­ cese, o del premier inglese. Al contrario di Fusaro, Nadia Urbinati e David Ragazzoni ritengono che la riforma fondi la vera Seconda Repubblica; espressione che dal 1994 in poi è stata usata in modo quan­ tomeno improprio, dato che la Costituzione sarebbe rima­ sta sin qui sostanzialmente invariata. Di certo, l’attuale or­ dinamento segna una decisa accelerazione sulla strada della liquidazione del regime parlamentare e verso il passaggio a modelli di «governo forte» di tipo gaullista o, forse, sudamericano.36 La polemica sull’uso dell’espressione «Seconda Re­ pubblica» suscita qualche residua perplessità e merita una riflessione a sé. Urbinati e Ragazzoni condividono la posi­ zione dei «puristi» che la ritengono una definizione giorna­ listica, priva di qualsiasi valore storico o giuridico, dal mo­ mento che la Costituzione è rimasta la stessa e, perciò, siamo sempre nella Prima Repubblica. In realtà, l’uso di numerare le diverse repubbliche è nato in Francia ed è presente solo in quel Paese e nel nostro. Dato che in Francia a ogni «repubblica» è corrisposta una diversa carta costituzionale, si è finito per ritenere che sia l’adozione di un nuovo testo costituzionale a sancire il passaggio da una «repubblica» all’altra. L’idea è un po’ ingenua, perché non tiene conto di un dato: ogni passaggio è stato scandito, prima di tutto, da eventi catastrofici che hanno causato la fine dell’ordinamento precedente, e solo a seguito di que­ ste «biforcazioni catastrofiche» si è determinata la neces­ sità di elaborare una nuova Costituzione. Dunque, il prius è l’avvenimento politico; il testo costituzionale ne è il seguito logico. Perciò è al momento della rottura che dobbiamo ri­ servare la nostra attenzione. L’atto formale di adottare una nuova costituzione non è il dato qualificante del processo, 197


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ma solo quello derivato. Infatti, molti Paesi hanno ripetuta­ mente cambiato costituzione formale, come l’URSS (costi­ tuzioni del 1918, 1924, 1936, 1947, 1977) o la Cina (1954, 1975, 1982), Paesi nei quali il sistema politico è rimasto 10 stesso, per cui a nessuno verrebbe in mente di dire che oggi siamo nella «Terza Repubblica Cinese», o che quella di Breznev era la «Quinta Repubblica Sovietica». Neppure la Germania distingue l’attuale regime come «Seconda Repub­ blica» rispetto a Weimar (che aveva un’altra Costituzione), o Terza, tenendo conto della riunificazione, visto che è rimasta la stessa legge fondamentale. Altrettanto potremmo dire di Paesi come Brasile, Sudafrica, Polonia, Ungheria, Romania che hanno cambiato Costituzione oltre che regime politico, ma per i quali nessuno parla di «Seconda Repubblica», pre­ ferendo utilizzare altre espressioni.37 La consuetudine di «numerare» le repubbliche non è in sé un criterio scientifico, ma solo un modo come un altro di distinguere il succedersi dei regimi politici. Ad esempio, noi distinguiamo nettamente tre periodi nella nostra storia nazionale - liberale, fascista e repubblicano - non tenendo minimamente conto della continuità formale fra il primo e 11 secondo, durante i quali restò vigente lo Statuto. Alcuni suggeriscono di parlare di un primo e di un secondo periodo della storia repubblicana. Veniamo ai fatti certi. Dopo il biennio 1992-94, si sono determinate le seguenti dinamiche formali: 1. il testo costituzionale non è stato cambiato nel suo com­ plesso, ma in alcune parti; 2. è stata radicalmente modificata la legge elettorale; 3. la prassi costituzionale è sensibilmente mutata, segnando uno spostamento dei rapporti di forza, soprattutto fra parlamento e governo. Un’altra rilevante innovazione nella prassi è quella che ha fatto sì che il presidente del 198


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Consiglio prevalesse nettamente sui ministri, divenendo una figura diversa da quella voluta dalla Costituzione, a metà fra il premier e il cancelliere. In questo senso, è ri­ levante l’apposizione del nome del candidato presidente del Consiglio sulla scheda elettorale, perché, di fatto, li­ mita i poteri di scelta del capo dello Stato. Non c’è sempre bisogno di una riforma costituzionale complessiva per mutare la natura costituzionale di un si­ stema. Nel nostro caso, è stato determinante il mutamento della legge elettorale, che ha portato con sé quello del si­ stema dei partiti. Di fatto, il passaggio al sistema maggiori­ tario ha avviato la decostituzionalizzazione del nostro ordi­ namento: la Costituzione è restata in vigore in attesa di una riforma complessiva che sta giungendo alla fine, ma non è ancora all’ultima tappa. Parlare di una perdurante Prima Re­ pubblica, se vogliamo usare questa espressione, fa perdere di vista l’unitarietà di quel processo di decostituzionalizzazione che è partito dal referendum di Occhetto, Segni e Pannella e ha segnato sostanzialmente lo «sfondamento» della cultura politica di cui Gelli si era fatto portatore. Chiamatela Prima, Seconda, Terza Repubblica o come vi pare: ciò che importa è che si colgano i mutamenti della costituzione ma­ teriale e i punti di rottura fra un ordinamento precedente e uno successivo. Come già è stato evidenziato, gran parte del progetto gelliano non era affatto originale: molte idee erano già dibattito corrente; basti leggere la stampa dell’MSI, del PLI, di settori indipendenti della destra, o i testi di intellettuali come Giu­ seppe Prezzolini, Panfilo Gentile, Giuseppe Maranini, Gia­ como Perticone, Mario Vinciguerra, o anche Luigi Sturzo, per ritrovarle. Il ruolo politico della P2 fu quello di connet­ tere quell’insieme di idee in un programma organico, impo­ nendolo nel dibattito politico. Ed è significativo che quel 199


Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi)

ruolo abbia resistito anche allo scioglimento della loggia. La P2 ha «sdoganato» (per usare un termine più recente della cronaca politica) una cultura all’epoca «maledetta», tro­ vandosi in perfetta sintonia con il vento culturale imposto dall’ascesa neoliberista, e ha «inventato» forme di azione po­ litica assai discutibili ma di indubbia efficacia. Renzi non spunta dal nulla, ma sorge in un solco lontano nel tempo, che ha nella vicenda della P2 la svolta decisiva, con la reintroduzione nel dibattito politico delle tematiche circa la centralità dell’esecutivo e la compressione della de­ mocrazia. L’espressione «governo forte» deve far riflettere: forte nei confronti di chi? Prima di tutto nei confronti della società civile e della sua fisiologica conflittualità. E questo era un caposaldo dei programmi gelliani come oggi lo è della riforma renziana. Certamente le corrispondenze non sono perfette e diversi punti del progetto gelliano restano inevasi. D ’altro canto, i figli non sono mai identici ai padri, ma hanno lo stesso dna. Si tratta per di più di una riforma che apre la strada ad altre revisioni, sia perché rende molto più semplice il pro­ cesso revisionale, sia perché un’eventuale vittoria del «Sì» determinerebbe da un lato una sorta di «autorizzazione» a spingersi oltre, dall’altro la necessità di «perfezionare» il te­ sto approvato. Del resto, lo stesso Renzi ha già annunciato una seconda ondata quando, nel 2014, si disse disposto a «una cauta apertura al presidenzialismo» proposto dall’ex Cavaliere. Ma non prima di aver portato a casa la riforma del Senato. Dunque... Le bocce sono ancora in pieno movimento e non è facile immaginare come si urteranno, modificando le rispettive traiettorie. Si pensi alla questione della legge elettorale. In primo luogo, occorrerà attendere la decisione della Corte Costituzionale, che potrebbe riproporre la bocciatura del di­ cembre 2013. In secondo luogo, c’è di mezzo il referendum, 200


4. Il pensiero

politico di

Renzi

che potrebbe segnare la vittoria del «N o» e con ciò imporre una nuova legge elettorale. Infine, incombe la probabilità di una manipolazione dell’Italicum per via parlamentare, e non sappiamo quali caratteristiche possa assumere. Ciò che è certo, è che per molti aspetti questa riforma de­ scrive una Costituzione unica fra quelle di tipo liberal-democratico, fra le quali si pone in una posizione border line. Nessuna costituzione liberale prevede così scarsi contrap­ pesi dell’azione di governo, nessuna ha meccanismi di con­ trollo e garanzia così fragili, nessuna un parlamento tanto impotente e una funzione legislativa così pesantemente rias­ sorbita dall’esecutivo (si pensi ai disegni di legge con vota­ zione «a data certa»); e soprattutto, è in questione la stessa rigidità del testo costituzionale. Può benissimo darsi che gli scenari che abbiamo ipotiz­ zato non si realizzino. Clausewitz diceva che la guerra è av­ volta nella nebbia ed è il regno dell’incertezza. La stessa cosa possiamo dire della politica, dove tutto è incerto per defi­ nizione. Può darsi che l’assalto della maggioranza al Quiri­ nale fallisca o non venga neppure tentato; che una crisi in­ ternazionale spacchi il partito di maggioranza, o che questo resista alla tentazione di stravincere; ma può anche darsi, al contrario, che la maggioranza voglia attuare un regime e ci riesca. Quando è in ballo la Costituzione, non basta che un’e­ ventualità del genere sia poco probabile, è necessario che la possibilità che si attui venga esclusa alla radice. Il limite di resistenza di un testo costituzionale è dato dalle ipotesi più estreme, come avviene negli stress test (quelli non truccati, possibilmente) che simulano le condizioni peggiori per indi­ viduare il punto di rottura. E questa Costituzione non resiste neanche a test molto modesti. Questa volta il programma di Gelli potrebbe essere non solo attuato ma addirittura sopravanzato. 201


Da G elli a Renzi (passando per B erlusconi)

Molti lamentano l’alleanza di Renzi con Verdini, che ve­ dono come un segno di pericoloso affiancamento con una certa destra. Ma questo non è affatto il problema maggiore. Quel che conta è che il segretario del PD dica le stesse cose che diceva Gelli quarant’anni fa.

Per quanti intendano continuare il dialogo, sono a disposi­ zione sul mio blog www.aldogiannuli.it e sulla sua mail.

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Appendice

Il P i a n o

di

Ri n a s c i t a D e m o c r a t i c a



Premessa 1. L’aggettivo democratico sta a significare che sono esclusi dal presente piano ogni movente od intenzione anche occulta di rovesciamento del sistema. 2. Il piano tende invece a rivitalizzare il sistema attraverso la solle­ citazione di tutti gli istituti che la Costituzione prevede e disci­ plina, dagli organi dello Stato ai partiti politici, alla stampa, ai sindacati, ai cittadini elettori. 3. Il piano si articola in una sommaria indicazione di obiettivi, nella elaborazione di procedimenti - anche alternativi - di at­ tuazione ed infine nell’elencazione di programmi a breve, me­ dio e lungo termine. 4. Va anche rilevato, per chiarezza, che i programmi a medio e lungo termine prevedono alcuni ritocchi alla Costituzione suc­ cessivi al restauro delle istituzioni fondamentali.

Obiettivi 1. N ell’ordine vanno indicati: a. i partiti politici democratici, dal PSI al PRI, dal PSD I alla D C al PLI (con riserva di verificare la Destra Nazionale);


A ppendice b. la stampa, escludendo ogni operazione editoriale, che va sollecitata al livello di giornalisti attraverso una selezione che tocchi soprattutto: Corriere della Sera, Giorno, Gior­ nale, Stampa, Resto del Carlino, Messaggero, Tempo, Roma, Mattino, Gazzetta del Mezzogiorno, Giornale di Sicilia, per i quotidiani; e per i periodici: Europeo, Espresso, Panorama, Epoca, Oggi, Gente, Famiglia Cristiana. La RAI-TV va di­ menticata; c. i sindacati, sia confederali C ISL e U IL, sia autonomi, nella ricerca di un punto di leva per ricondurli alla loro naturale funzione anche al prezzo di una scissione e successiva costi­ tuzione di una libera associazione dei lavoratori; d. il Governo, che va ristrutturato nella organizzazione ministe­ riale e nella qualità degli uomini da proporre ai singoli dica­ steri; e. la magistratura, che deve essere ricondotta alla funzione di garante della corretta e scrupolosa applicazione delle leggi; f. il Parlamento, la cui efficienza è subordinata al successo dell’operazione sui partiti politici, la stampa e i sindacati. 2. Partiti politici, stampa e sindacati costituiscono oggetto di sol­ lecitazioni possibili sul piano della manovra di tipo economico finanziario. La disponibilità di cifre non superiori a 30 o 40 miliardi sembra sufficiente a permettere ad uomini di buona fede e ben selezio­ nati di conquistare le posizioni chiave necessarie al loro controllo. Governo, Magistratura e Parlamento rappresentano invece obiettivi successivi, accedibili soltanto dopo il buon esito della prima operazione, anche se le due fasi sono necessariamente destinate a subire intersezioni e interferenze reciproche, come si vedrà in dettaglio in sede di elaborazione dei procedimenti. 3. Primario obiettivo e indispensabile presupposto dell’opera­ zione è la costituzione di un club (di natura rotariana per l’ete­ rogeneità dei componenti) ove siano rappresentati, ai migliori livelli, operatori, imprenditoriali e finanziari, esponenti delle professioni liberali, pubblici amministratori e magistrati, non­

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ché pochissimi e selezionati uomini politici, che non superi il numero di 30 o 40 unità. Gli uomini che ne fanno parte debbono essere omogenei per modo di sentire, disinteresse, onestà e rigore morale, tali cioè da costituire un vero e proprio comitato di garanti rispetto ai politici che si assumeranno l’onere dell’attuazione del piano e nei confronti delle forze amiche nazionali e straniere che lo vorranno appoggiare. Importante è stabilire subito un collega­ mento valido con la massoneria internazionale.

Procedimenti 1. Nei confronti del mondo politico occorre: a. selezionare gli uomini - anzitutto - ai quali può essere af­ fidato il compito di promuovere la rivitalizzazione di cia­ scuna rispettiva parte politica (per il PSI, ad esempio, Man­ cini, Mariani e Craxi; per il PRI: Visentini e Bandiera; per il PSDI: Orlandi e Amidei; per la DC: Andreotti, Piccoli, Forlani, Gullotti e Bisaglia; per il PLI: Cottone e Quilleri; per la Destra Nazionale [eventualmente]: Covelli); b. in secondo luogo valutare se le attuali formazioni politi­ che sono in grado di avere ancora la necessaria credibilità esterna per ridiventare validi strumenti di azione politica; c. in caso di risposta affermativa, affidare ai prescelti gli stru­ menti finanziari sufficienti - con i dovuti controlli - a per­ mettere loro di acquisire il predominio nei rispettivi partiti; d. in caso di risposta negativa usare gli strumenti finanziari stessi per l’immediata nascita di due movimenti: l’uno sulla sinistra (a cavallo fra PSI-PSDI-PRI-Liberali di sinistra e D C di sinistra), e l’altro sulla destra (a cavallo fra D C conser­ vatori, liberali, e democratici della Destra Nazionale). Tali movimenti dovrebbero essere fondati da altrettanti clubs promotori composti da uomini politici ed esponenti della società civile in proporzione reciproca da 1 a 3 ove i primi rappresentino l’anello di congiunzione con le attuali parti ed i secondi quello di collegamento con il mondo reale.

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A ppendice Tutti i promotori debbono essere inattaccabili per rigore mo­ rale, capacità, onestà e tendenzialmente disponibili per un’a­ zione politica pragmatistica, con rinuncia alle consuete e fruste chiavi ideologiche. Altrimenti il rigetto da parte della pubblica opinione è da ritenere inevitabile. 2. Nei confronti della stampa (o, meglio, dei giornalisti) l’impiego degli strumenti finanziari non può, in questa fase, essere previ­ sto nominativamente. Occorrerà redigere un elenco di almeno 2 o 3 elementi, per ciascun quotidiano o periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro. L’azione dovrà essere condotta a macchia d ’olio, o, meglio, a catena, da non più di 3 o 4 elementi che conoscono l’ambiente. Ai giornalisti acquisti dovrà essere affidato il compito di «sim ­ patizzare» per gli esponenti politici come sopra prescelti in en­ trambe le ipotesi alternative 1c e 1d. In un secondo tempo occorrerà: a. acquisire alcuni settimanali di battaglia; b. coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso una agenzia centralizzata; c. coordinare molte TV via cavo con l’agenzia per la stampa locale; d. dissolvere la RAI-TV in nome della libertà di antenna ex art. 21 Costit. 3. Per quanto concerne i sindacati la scelta prioritaria è fra la sol­ lecitazione alla rottura, seguendo cioè le linee già esistenti dei gruppi minoritari della C ISL e maggioritari dell’U IL, per poi agevolare la fusione con gli autonomi, acquisire con strumenti finanziari di pari entità i più disponibili fra gli attuali confe­ derati allo scopo di rovesciare i rapporti di forza all’interno dell’attuale trimurti. Gli scopi reali da ottenere sono: a. restaurazione della libertà individuale, nelle fabbriche e aziende in genere per consentire l’elezione dei consigli di fabbrica, con effettive garanzie di segretezza del voto;

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b. ripristinare per tale via il ruolo effettivo del sindacato di collaboratore del fenomeno produttivo in luogo di quello legittimamente assente di interlocutore in vista di decisioni politiche aziendali e governative. Sotto tale profilo, la via della scissione e della successiva in­ tegrazione con gli autonomi sembra preferibile anche ai fini dell’incidenza positiva sulla pubblica opinione di un fenomeno clamoroso come la costituzione di un vero sindacato che agiti la bandiera della libertà di lavoro e della tutela economica dei lavoratori. Anche in termini di costo è da prevedere un impiego di strumenti finanziari di entità inferiori all’altra ipotesi. 4. Governo, Magistratura e Parlamento. È evidente che si tratta di obiettivi nei confronti dei quali i pro­ cedimenti divengono alternativi in varia misura a seconda delle circostanze. È comunque intuitivo che, ove non si verifichi la favorevole circostanza di cui in prosieguo, i tempi brevi sono - salvo che per la Magistratura - da escludere essendo i proce­ dimenti subordinati allo sviluppo di quelli relativi ai partiti, alla stampa e ai sindacati, con la riserva di una più rapida azione nei confronti del Parlamento ai cui componenti è facile estendere lo stesso modus operandi già previsto per i partiti politici. Per la Magistratura è da rilevare che esiste già una forza interna (la corrente di magistratura indipendente della Ass. Naz. Mag.) che raggruppa oltre il 40 per cento dei magistrati italiani su po­ sizioni moderate. È sufficiente stabilire un accordo sul piano morale e program­ matico ed elaborare una intesa diretta a concreti aiuti mate­ riali per poter contare su un prezioso strumento, già operativo nell’interno del corpo anche al fine di taluni rapidi aggiusta­ menti legislativi che riconducano la giustizia alla sua tradizio­ nale funzione di elementi di equilibrio della società e non già di eversione. Qualora invece le circostanze permettessero di contare sull’a­ scesa al Governo di un uomo politico (o di un’équipe) già in sintonia con lo spirito del club e con le sue idee «ripresa demo­

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A ppendice cratica», è chiaro che i tempi dei procedimenti riceverebbero una forte accelerazione anche per la possibilità di attuare subito il programma di emergenza e quello a breve termine in modo contestuale all’attuazione dei procedimenti sopra descritti. In termini di tempo ciò significherebbe la possibilità di ridurre a 6 mesi e anche meno il tempo di intervento, qualora sussista il presupposto della disponibilità dei mezzi finanziari.

Programmi Per programmi si intende la scelta, in scala di priorità, delle nume­ rose operazioni in forma di: a. azioni di comportamento politico ed economico; b. atti amministrativi (di Governo); c. atti legislativi; necessari a ribaltare - in concomitanza con quelli descritti in materia di procedimenti - l’attuale tendenza di sfascimento delle istituzioni e, con essa, la disottemperanza della Costituzione i cui organi non funzionano più secondo gli schemi originali. Si tratta, in sostanza, di «registrare» - come nella stampa in tricromia - le funzioni di ciascuna istituzione e di ogni organo relativo in modo che i rispettivi confini siano esattamente delimitati e scompaiano le attuali aree di sovrappo­ sizione da cui derivano confusione e indebolimento dello Stato. A titolo di esempio, si considerano due fenomeni: 1. lo spostamento dei centri di potere reale dal Parlamento ai sin­ dacati ed al Governo ai padronati multinazionali con i corre­ lativi strumenti di azione finanziaria. Sarebbero sufficienti una buona legge sulla programmazione che rivitalizzi il C N E L e una nuova struttura dei Ministeri accompagnate da norme am­ ministrative moderne per restituire ai naturali detentori il po­ tere oggi perduti; 2. l’involuzione subita dalla scuola negli ultimi 10 anni quale ri­ sultante di una giusta politica di ampliamento dell’area di istru­

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zione pubblica, non accompagnata però dalla predisposizione di corpi docenti adeguati e preparati nonché dalla programma­ zione dei fabbisogni in tema di occupazione. Ne è conseguente una forte e pericolosa disoccupazione intel­ lettuale - con gravi deficienze invece nei settori tecnici nonché la tendenza a individuare nel titolo di studio il diritto al posto di lavoro. Discende ancora da tale stato di fatto la spinta all’eguali­ tarismo assoluto (contro la Costituzione che vuole tutelare il di­ ritto allo studio superiore per i più meritevoli) e, con la delusione del non inserimento, il rifugio nella apatia della droga oppure nell’ideologia dell’eversione anche armata. Il rimedio consiste: nel chiudere il rubinetto del preteso automatismo: titolo di stu­ dio - posto di lavoro; nel predisporre strutture docenti valide; nel programmare, insieme al fenomeno economico, anche il relativo fabbisogno umano; infine nel restaurare il principio meritocratico imposto dalla Costituzione. Sotto molti profili, la definizione dei programmi intersecherà temi e notazioni già contenute nel recente Messaggio del Presi­ dente della Repubblica - indubbiamente notevole - quale dia­ gnosi della situazione del Paese, tenendo, però, ad indicare terapie più che a formulare nuove analisi. Detti programmi possono essere esecutivi - occorrendo - con normativa d ’urgenza (decreti legge). a. Emergenza a breve termine. Il programma urgente comprende, al pari degli altri provve­ dimenti istituzionali (rivolti cioè a «registrare» le istituzioni) e provvedimenti di indole economico-sociale: a1. Ordinamento giudiziario. Le modifiche più urgenti inve­ stono: i. la responsabilità civile (per colpa) dei magistrati; ii. il divieto di nomina sulla stampa i magistrati comunque in­ vestiti di procedimenti giudiziari;

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A ppendice iii. la normativa per l’accesso in carriera (esami psicoattitudi­ nali preliminari); iv. la modifica delle norme in tema di facoltà libertà provviso­ ria in presenza dei reati di eversione - anche tentata - nei confronti dello Stato e della Costituzione, nonché di viola­ zione delle norme sull’ordine pubblico, di rapina a mano armata, di sequestro di persona e di violenza in generale. a2. Ordinamento del Governo: i. legge sulla Presidenza del Consiglio e sui Minister (Cost. art. 95) per determinare competenze e numero (ridotto, con eliminazione o quasi dei Sottosegretari); ii. legge sulla programmazione globale (Cost. art. 41) incen­ trata su un Ministero dell’economia che ingloba le attuali strutture di incentivazione (Cassa Mezz. - PPSS - M edio­ credito Industria - Agricoltura), sul C N E L rivitalizzato quale punto d ’incontro delle forze sociali e sindacali, im­ prenditoriali e culturali e su procedure d ’incontro con il Parlamento e le Regioni; iii. riforma dell’amministrazione (Cost. artt. 28 - 97 - 98) fon­ dato sulla teoria dell’atto pubblico non amministrativo, sulla netta separazione della responsabilità politica da quella am­ ministrativa che diviene personale (istituzione dei Segretari Generali di Ministero) e sulla sostituzione del principio del silenzio-rifiuto con quello del silenzio-consenso; iv. definizione della riserva di legge nei limiti voluti e richie­ sti espressamente dalla Costituzione e individuazione delle aree di normativa secondaria (regolamentare) in ispecie di quelle regionali che debbono essere obbligatoriamente limi­ tate nell’ambito delle leggi cornice. a3. Ordinamento del Parlamento: i. ripartizione di fatto, di competenze fra le due Camere (fun­ zione politica alla CD e funzione economica al SR);

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ii. modifica (già in corso) dei rispettivi Regolamenti per ridare forza al principio del rapporto (Cost. art. 64) fra maggioranzaGoverno da un lato, e opposizione, dall’altro, in luogo della at­ tuale tendenza assemblearistica; iii. adozione del principio delle sessioni temporali in funzione di esecuzione del programma governativo. b. Provvedimenti economico-sociali: b1. abolizione della validità legale dei titoli di studio (per sfol­ lare le università e dare il tempo di elaborare una seria ri­ forma della scuola che attui i precetti della Costituzione); b2. adozione di un orario unico nazionale di 7 ore e 30’ effet­ tive (dalle 8,30 alle 17) salvi i turni necessari per gli impianti a ritmo di 24 ore, obbligatorio per tutte le attività pubbliche e private; b3. eliminazione delle festività infrasettimanali e dei relativi ponti (salvo 2 giugno - Natale - Capodanno e Ferragosto) da riconcedere in un forfait di 7 giorni aggiuntivi alle ferie annuali di diritto; b4. obbligo di attuare in ogni azienda ed organo di Stato i turni di festività - anche per sorteggio - in tutti i periodi dell’anno, sia per annualizzare l’attività dell’industria turistica, sia per evitare la «sindrome estiva» che blocca le attività produttive; b5. revisione della riforma tributaria nelle seguenti direzioni: i. revisione delle aliquote per i lavoratori dipendenti aggior­ nandole al tasso di svalutazione 1973-76; ii. nettizzazione all’origine di tutti gli stipendi e i salari delle P.A. (onde evitare gli enormi costi delle relative partite di giro); iii. inasprimento delle aliquote sui redditi professionali e sulle rendite; iv. abbattimento delle aliquote per donazioni e contributi a fondazioni scientifiche e culturali riconosciute, allo scopo di sollecitare l’autofinanziamento premiando il reinvesti­ mento del profitto;

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A ppendice v. alleggerimento delle aliquote sui fondi aziendali destinati a riserve, ammortamenti, investimenti e garanzie, per solleci­ tare l’autofinanziamento delle aziende produttive; vi. reciprocità fra Stato e dichiarante nell’obbligo di mutuo ac­ quisto ai valori dichiarati ed accertati; b6. abolizione della nominatività dei titoli azionari per ridare fiato al mercato azionario e sollecitare meglio l’autofinan­ ziamento delle aziende produttive; b7. eliminazione delle partite di giro fra aziende di Stato ed istituti finanziari di mano pubblica in sede di giro conti reci­ prochi che si risolvono - nel gioco degli interessi - in passi­ vità inutili dello stesso Stato; b8. concessione di forti sgravi fiscali ai capitali stranieri per agevolare il ritorno dei capitali dall’estero; b9. costituzione di un fondo nazionale per i servizi sociali (case - ospedali - scuole - trasporti) da alimentare con: i. sovraimposta IVA sui consumi voluttuari (automobili - ge­ neri di lusso); ii. proventi dagli inasprimenti ex b5.iv; iii. finanziamenti e prestiti esteri su programma di spesa; iv. stanziamenti appositi di bilancio per investimenti; v. diminuzione della spesa corrente per parziale pagamento di stipendi statali superiori a L. 7.000.000 annui con speciali buoni del Tesoro al 9 per cento non commerciabili per due anni. Tale fondo va destinato a finanziare un programma biennale di spesa per almeno 10.000 miliardi. Le riforme di strut­ tura relative vanno rinviate a dopo che sia stata assicurata la disponibilità dei fabbricati, essendo ridicolo riformare le gestioni in assenza di validi strumenti (si ricordino i guasti della riforma sanitaria di alcuni anni or sono che si risolvette nella creazione di 36.000 nuovi posti di consigliere di am­ ministrazione e nella correlativa lottizzazione partitica in luogo di creare altri posti letto).

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Per quanto concerne la realizzabilità del piano edilizio in presenza della caotica legislazione esistente, sarà necessaria una legge che imponga alle Regioni programmi urgenti stra­ ordinari con termini brevissimi surrogabili dall’intervento diretto dello Stato; per quanto si riferisce in particolare all’edilizia abitativa, il ricorso al sistema dei comprensori obbligatori sul modello svedese ed al sistema francese dei mutui individuali agevolati sembra il metodo migliore per rilanciare questo settore che è da considerare il volano della ripresa economica; b10. aumentare la redditività del risparmio postale elevando il tasso al 7 per cento; b11. concedere incentivi prioritari ai settori: i. turistico; ii. trasporti marittimi; iii. agricolo specializzato (primizie - zootecnia); iv. energetico convenzionale e futuribile (nucleare - geoter­ mico - solare); v. industria chimica fine e metalmeccanica specializzata di tra­ sformazione; in modo da sollecitare investimenti in settori ad alto tasso di mano d ’opera ed apportatori di valuta; b12. sospendere tutte le licenze ed i relativi incentivi per im­ pianti di raffinazione primaria del petrolio e di produzione siderurgica pesante. c. Pregiudiziale è che oggi ogni attività secondo quanto sub a. e b. trovi protagonista e gestore un Governo deciso ad essere non già autoritario bensì soltanto autorevole e deciso a fare rispet­ tare le leggi esistenti. Così è evidente che le forze dell’ordine possono essere mobili­ tate per ripulire il paese dai teppisti ordinari e pseudo politici e dalle relative centrali direttive soltanto alla condizione che la Magistratura li processi e condanni rapidamente inviandoli in carceri ove scontino la pena senza fomentare nuove rivolte o condurre una vita comoda.

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A ppendice Sotto tale profilo, sembra necessario che alle forze di P.S. sia restituita la facoltà di interrogatorio d ’urgenza degli arrestati in presenza dei reati di eversione e tentata eversione dell’ordina­ mento, nonché di violenza e resistenza alle forze dell’ordine, di violazione della legge sull’ordine pubblico, di sequestro di per­ sona, di rapina a mano armata e di violenza in generale. d. Altro punto chiave è l’immediata costituzione di una agenzia per il coordinamento della stampa locale (da acquisire con ope­ razioni successive nel tempo) e della TV via cavo da impiantare a catena in modo da controllare la pubblica opinione media nel vivo del Paese. È inoltre opportuno acquisire uno o due periodici da contrap­ porre a Panorama, Espresso, Europeo sulla formula viva «Setti­ manale».

Medio e lungo termine Nel presupposto dell’attuazione di un programma a breve termine come sopra definito, rimane da tratteggiare per sommi capi un programma a medio e lungo termine con l’avvertenza che mentre per quanto riguarda i problemi istituzionali è possibile fin d ’ora formulare ipotesi concrete, in materia di interventi economico-sociali, salvo per quel che attiene pochissimi grandi temi, è necessa­ rio rinviare nel tempo l’elencazione di problemi e relativi rimedi. a. Provvedimenti istituzionali. a1. Ordinamento Giudiziario: i. unità del Pubblico Ministero (a norma della Costituzione articoli 107 e 112 ove il P.M. è distinto dai giudici); ii. responsabilità del Guardasigilli verso il Parlamento sull’ope­ rato del P.M. (modifica costituzionale); iii. istruzione pubblica dei processi nella dialettica fra pubblica accusa e difesa di fronte ai giudici giudicanti, con abolizione

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di ogni segreto istruttorio con i relativi e connessi pericoli ed eliminando le attuali due fasi di istruzione; iv. riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento (modifica costitu­ zionale); v. riforma dell’ordinamento giudiziario per ristabilire criteri di selezione per merito delle promozioni dei magistrati, imporre limiti di età per le funzioni di accusa, separare le carriere requirente e giudicante, ridurre a giudicante la fun­ zione pretorile; vi. esperimento di elezione di magistrati (Costit. art. 106) fra avvocati con 25 anni di funzioni in possesso di particolari requisiti morali. a2. Ordinamento del Governo: i. modifica della Costituzione per stabilire che il Presidente del Consiglio è eletto dalla Camera all’inizio di ogni legisla­ tura e può essere rovesciato soltanto attraverso le elezioni del successore; ii. modifica della Costituzione per stabilire che i Ministri per­ dono la qualità di parlamentari; iii. revisione della legge sulla contabilità dello Stato e di quella sul bilancio dello Stato (per modificarne la natura da com­ petenza in cassa); iv. revisione della legge sulla finanza locale per stabilire - pre­ vio consolidamento del debito attuale degli enti locali da ri­ assorbire in 50 anni - che Regioni e Comuni possono spen­ dere al di là delle sovvenzioni statali soltanto i proventi di emissioni di obbligazioni di scopo (esenti da imposte e detraibili) e cioè relative ad opere pubbliche da finanziare, se­ condo il modello USA. Altrimenti il concetto di autonomia diviene di sola libertà di spesa basata sui debiti; v. riforma della legge comunale e provinciale per sopprimere le provincie e ridefinire i i compiti dei Comuni dettando nuove norme sui controlli finanziari;

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A ppendice a3. Ordinamento del Parlamento. Ufficio Affari Riservati: i. nuove leggi elettorali, per la Camera, di tipo misto (unino­ minale e proporzionale secondo il modello tedesco) ridu­ cendo il numero dei deputati a 450 e, per il Senato, di rap­ presentanza di secondo grado, regionale, degli interessi eco­ nomici, sociali e culturali, diminuendo a 250 il numero dei senatori ed elevando da 5 a 25 quello dei senatori a vita di nomina presidenziale, con aumento delle categorie relative (ex parlamentari - ex magistrati - ex funzionari e imprendi­ tori pubblici - ex militari ecc.); ii. modifica della Costituzione per dare alla Camera premi­ nenza politica (nomina del Primo Ministro) ed al Senato preponderanza economica (esame del bilancio); iii. stabilire norme per effettuare in uno stesso giorno ogni 4 anni le elezioni nazionali, regionali e comunali (modifica co­ stituzionale); iv. stabilire che i decreti-legge sono inemendabili. a4. Ordinamento di altri organi istituzionali: i. Corte Costituzionale: sancire l’incompatibilità successiva dei giudici a cariche elettive in enti pubblici; sancire il di­ vieto di sentenze cosiddette attive (che trasformano la Corte in organo legislativo di fatto); ii. Presidente della Repubblica: ridurre a 5 anni il mandato, san­ cire l’ineleggibilità ed eliminare il semestre bianco (modifica costituzionale); iii. Regioni: modifica della Costituzione per ridurre il numero e determinarne i confini secondo criteri geo-economici più che storici. b. Provvedimenti economico sociali: b1. nuova legislazione antiurbanesimo subordinando il diritto di residenza alla dimostrazione di possedere un posto di la­ voro e un reddito sufficiente (per evitare che saltino le fi­ nanze dei grandi Comuni);

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Rinascita Democratica

b2. nuova legislazione urbanistica favorendo le città satelliti e trasformando la scienza urbanistica da edilizia in scienza dei trasporti veloci suburbani; b3. nuova legislazione sulla stampa in senso protettivo della dignità del cittadino (sul modello inglese) e stabilendo l’ob­ bligo di pubblicare ogni anno i bilanci nonché le retribuzioni dei giornalisti; b4. unificazione di tutti gli istituti ed enti previdenziali ed as­ sistenziali in un unico ente di sicurezza sociale da gestire con formule di tipo assicurativo allo scopo di ridurre i costi attuali; b5. disciplinare e moralizzare il settore pensionistico stabilendo: il divieto del pagamento di pensioni prima dei 60 anni salvo casi di riconosciuta inabilità; il controllo rigido sulle pensioni di invalidità; l’eliminazione del fenomeno del cumulo di più pensioni; b6. dare attuazione agli articoli 39 e 40 della Costituzione re­ golando la vita dei sindacati, limitando il diritto di sciopero nel senso di: i. introdurre l’obbligo di preavviso dopo aver espedito il con­ cordato; ii. escludere i servizi pubblici essenziali (trasporti; dogane; ospedali e cliniche; imposte; pubbliche amministrazioni in genere) ovvero garantirne il corretto svolgimento; iii. limitare il diritto di sciopero alle causali economiche ed as­ sicurare comunque la libertà di lavoro; b7. nuova legislazione sulla partecipazione dei lavoratori alla proprietà azionaria delle imprese e sulla gestione (modello tedesco); b8. nuova legislazione sull’assetto del territorio (ecologia, di­ fesa del suolo, disciplina delle acque, rimboscamento, inse­ diamenti umani); b9. legislazione antimonopolio (modello USA); b10. nuova legislazione bancaria (modello francese);

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A ppendice b11. riforma della scuola (selezione meritocratica - borse di studio ai non abbienti - scuole di Stato normale e politec­ nica sul modello francese); b12. riforma ospedaliera e sanitaria sul modello tedesco. c. Stampa. Abolire tutte le provvidenze agevolative dirette a sa­ nare bilanci deficitari con onere del pubblico erario ed abolire il monopolio RAI-TV.

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Note

Introduzione. La P2 fra letteratura, cronaca giudiziaria e storia 1. Ad esempio, Aldo Alessandro Mola e Pier Carpi. 2. Parlamentari come Alberto Cecchi, Sergio Flamigni, Luigi Cipriani, Massimo Teodori, Tina Anselmi, Giuseppe D’Alema e, per certi versi, Giorgio Pisano; o giornalisti come Eugenio Scalfari, Sara Bonsanti, Marco Travaglio, Gianfranco Piazzesi, Pino Buongiorno, Mario Gua­ rino; consulenti delle commissioni parlamentari di inchiesta come Giuseppe De Lutiis, Gianni Cipriani ecc. 3. Essenzialmente Giorgio Galli; mentre vanno considerati testi «neutri» quelli di giornalisti come Sandro Neri o Anna Vinci, che hanno curato libri-intervista o riordinato atti. 4. Ad esempio l’Unione Democratica per la Nuova Repubblica, fondata da Randolfo Pacciardi nel 1964 e che, alle politiche del 1968, raccolse circa centomila voti. 5. Consideriamo a parte, come una sorta di preistoria, il periodo in cui la loggia fu governata dal suo fondatore, Giancarlo Elia Valori, ben presso rimpiazzato dal rampante Gelli. 6. Operazione ripetuta soprattutto nei confronti di Craxi e Berlusconi, e di cui parleremo più avanti. 7. Hans Kelsen, Il primato del Parlamento, Giuffrè, Milano, 1982, p. 84 sgg. 8. Nella primavera del 2002, a Roma, incontrai un giovane studioso da­ nese, che peraltro conosceva benissimo l’italiano. Quella mattina i giornali riportarono una frase dell’allora presidente del Consiglio Silvio


No te a lle pagine 14-29 Berlusconi che, replicando all’accusa di aver prodotto solo disegni di legge nel suo interesse, dichiarava: «Non è vero: su 640 leggi prodotte, solo tre erano nel mio interesse». Il mio amico, un po’ meravigliato, disse che probabilmente aveva capito male l’affermazione del Cava­ liere, il quale non poteva aver detto una cosa del genere, ma, quando gli risposi che, invece, aveva detto proprio quello che aveva capito, mi rispose: «E non succede niente?». No, non succedeva nulla perché ne­ gli italiani si era un po’ appannato il senso dell’epressione «stato di di­ ritto». Forse è utile rinfrescarlo. 9. Cioè «donata» dal re: dal francese octroyè. 10. Forse il Movimento 5 Stelle, sostenitore (non so se lo sia ancora oggi) del mandato imperativo, farebbe bene a riflettere di più su questo punto. 11. Cfr. Maria Donzelli e Regina Pozzi (a cura di), Patologie della politica, Donzelli, Roma, 2003. 12. Ferdinando Petruccelli della Gattina, I moribondi di Palazzo Carignano, Milano, 1862. 13. Federico De Roberto, l'Imperio, Mondadori, Milano, 1981. 14. Per questo, spesso si associa il presidenzialismo al bonapartismo. 15. «L’unto del Signore», avrebbe detto qualcuno un secolo e mezzo più tardi. 16. Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma, 1974, pp. 70-72. 17. Juan J. Linz, Arturo Valenzuela, Il fallimento del presidenzialismo, il Mulino, Bologna, 1994, in particolare il saggio iniziale di Linz, pp. 19­ 155. 18. Riprendo l’idea da un suggerimento datomi da Rino Formica tre anni fa. 19. Renato Pasta, Fermenti culturali e circoli massonici nella Toscana del Settecento, in Storia d’Italia, Annali 21, a cura di Gian Mario Cazzaniga, Einaudi, Torino, 2006, pp. 447-482. 20. Fra cui il ministro Giuseppe Medici e il presidente della Camera Bru­ netto Bucciarelli-Ducci. 1. L'uomo e la loggia 1. Silverio Corvisieri, Il mago dei generali, Odradek, Roma, 2011. 2. Sandro Neri, Licio Gelli. Parola di venerabile, Aliberti editore, Reggio Emilia, 2006, pp. 34 sgg. 3. Gianfranco Piazzesi, La caverna dei sette ladri, Baldini & Castoldi, Mi­ lano, 1996, pp. 34-36.

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No te alle pagine 29-40 4. Pier Carpi, Il Venerabile, Gribaudo e Zarotti, Parma, 1993, pp. 191-201. 5. Per la verità, sulla vicenda sembra stesse indagando anche Carla Co­ sta, figura leggendaria nell’ambiente salotino, la più nota «volpe ar­ gentata» (corpo per le azioni dietro le linee composto di sole donne) catturata proprio a Pistoia. Dell’arresto venne accusato un personag­ gio di ultima fila dei servizi salotini a Milano. Ma, quando nel 1981 scoppiò lo scandalo e venne fuori il doppio gioco di Gelli, Carla Costa iniziò a pensare di essere stata venduta proprio da lui e a indagare. Non riuscì però ad approdare a nulla perché, pochi mesi dopo, morì in circostanze assai poco chiare. 6. L’attestato contiene però una clausola nella quale Carobbi aggiunge: «Resta salva la facoltà di esaminare con maggiore cura le attività svolte dal Gelli Licio onde stabilire definitivamente la sua posizione». 7. Sandro Neri, Licio Gelli. Parola di venerabile, cit., p. 76. 8. Loggia del Grande Oriente di Italia (GOI), detto anche Massoneria di Palazzo Giustiniani. 9. Nata per scissione nel 1908 proprio per i dissensi sul nodo delle scuole cattoliche e da sempre più incline a un’intesa con la Chiesa. Anche al fascismo piazza del Gesù e il suo gran maestro Raul Palermi furono più prossimi rispetto ai massoni di Palazzo Giustiniani. 10. Aldo Alessandro Mola, Gelli e la P2, Bastogi, Foggia, 2008, p. 210. 11. Ivi, p. 213. 12. Ivi, p. 211. 13. Sandro Neri, Licio Gelli. Parola di venerabile, cit., p. 73. 14. Aldo Alessandro Mola, Gelli e la P2, cit., p. 214. 15. Doc. XXIII, n. 2-ter/13, vol. XIII, pp. 234 sgg., verbale stenografico. 16. Proc. pen. nr. 1575 RGGI. Requisitoria del pm Elisabetta Maria Cesqui, pp. 40-48. 17. Sentenza-ordinanza del dottor Guido Salvini del 18 marzo 1995, in Atti Proc. pen. contro Azzi Nico 2643/84 RGPM, n. 721/881. 18. Proc. pen. 91/97 RGPM. Tribunale di Brescia, pm Francesco Pian­ toni. 19. L’argomento è vasto e complesso e anche un semplice riassunto ri­ chiederebbe alcune decine di pagine; non volendo annoiare il lettore, rinvio (e me ne scuso) al mio Il Noto servizio. Le spie di Giulio An­ dreotti, Castelvecchi, Roma, 2013, in cui l’argomento è ampiamente trattato. 20. Nella mia vita ho conosciuto abbastanza bene alcune persone che ri­ sultano nell’elenco di Castiglion Fibocchi: due deputati socialisti come Beniamino Finocchiaro e Vito Vittorio Lenoci, il professor Edoardo De

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No te a lle pagine 40-58 Vecchio, che insegnava Storia contemporanea nella mia facoltà a Bari, e il professor Massimo dell’Aquila, del PRI, già militante azionista, che fa­ ceva parte, come me, della commissione toponomastica della mia città. Faccio molta fatica a immaginare qualcuno dei quattro coinvolto in una trama eversiva, e sono portato a credere che la loro adesione alla loggia abbia avuto a che fare con beghe di partito o accademiche. 21. Pp. 60 sgg. 22. Un racconto molto dettagliato dell’«Operazione Gianoglio» (o Gianolio) si trova in Aldo Alessandro Mola, Gelli e la P2, cit., pp. 227­ 244. 23. In occasione del terremoto in Friuli nel 1976, l’OMPAM offrì consi­ stenti aiuti che però rimasero inutilizzati. 24. Aldo Alessandro Mola, Gelli e la P2, cit., p. 261. 25. Si veda il libro di Roberto Fabiani, I massoni in Italia, l’Espresso, Roma, 1978. 26. Adriano Sofri, L'ombra di Moro, Sellerio, Palermo, 1991, p. 20. 27. Con Martelli, Gelli si sarebbe intrattenuto anche per «parlare di mas­ soneria». Vero è che Fichte scrisse Filosofia della massoneria e che Martelli era un fine intenditore di filosofia tedesca dell’Ottocento, a cominciare da Hegel, ma a mio modesto avviso non era di Fichte e di Hegel che discuteva con Gelli. 28. Sandro Neri, Licio Gelli. Parola di venerabile, cit., p. 224: passo in­ teressante nel quale Gelli, chissà perché, tira in ballo Paolo VI, che sarebbe stato al corrente anche lui dell’esistenza della P2. 29. Ivi, pp. 224-225. 30. Ivi, pp. 190-191. 31. Sulla questione, Marco Marsili, Dalla P2 alla P4. Trenta anni di politica e affari all’ombra di Berlusconi, Termidoro edizioni, Milano, 2011. 32. In seguito Gelli affermò di aver garantito a Leone il voto dei parla­ mentari che controllava, in tutto 140. Tuttavia, è molto probabile che si sia trattato solo di una vanteria; diversamente i voti per Leone sareb­ bero stati ben più dei 518 ottenuti. 33. Sandro Neri, Licio Gelli. Parola di venerabile, cit., pp. 194-195. Nelle stesse pagine, Gelli dice che Sindona, Calvi e Cuccia sono stati i tre banchieri di maggiore successo di quella stagione. Affermazione che ha un suo fondamento e alla quale possiamo aggiungere che certa­ mente il più bravo dei tre fu Cuccia, non fosse altro perché riuscì a evitare la sorte toccata agli altri due. 34. Gelli scrive che la P2 era composta da «Uomini d’ogni fede e di ogni politica, alti servitori dello Stato, prelati e militari», Licio Gelli, La ve­

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No te alle pagine 58-76 rità, Demetra edizioni, Lugano, 1989, p. 34. Nomi di prelati nella lista non ne compaiono, ma sappiamo che l’elenco è assai incompleto. 35. Riccardo Sabbatini, Il Leone presidia 11 patti di sindacato, in Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2006. 36. Massimo Teodori, P2: la controstoria, Sugarco, Milano, 1986. 37. Quando scoppiò lo scandalo, Montanelli ricordò di aver incontrato Gelli, definendolo il più grande magliaro che avesse mai conosciuto. Gelli lo accusò di ingratitudine per aver dimenticato il suo interessa­ mento per trarre il Giornale fuori dalle difficoltà economiche in cui si trovava. 38. Anna Vinci (a cura di), La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, Chiarelettere, Milano, 2011. 39. E certamente negativo è il giudizio di chi scrive queste pagine. 40. Accomunati dalla ben nota vicenda corruttiva della Lockheed. 41. C’è, ad esempio, il curioso racconto di Di Bella su come la sua no­ mina a direttore del Corriere della Sera gli sia stata comunicata in an­ ticipo da parte di un misterioso gruppo di personaggi, in Germania, dove fu condotto con un esclusivo e misterioso viaggio aereo, senza che gli fosse detto prima il perché né, dopo, chi fossero le persone incontrate. 42. Sandro Neri, Licio Gelli. Parola di venerabile, cit., p. 202. 2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica 1. Michel Crozier, Samuel Huntington, Joji Watanuki, La crisi della de­ mocrazia, Franco Angeli, Milano, 1975. Prefazione di Gianni Agnelli. 2. Giuseppe Are, Serenella Pegna, Gli anni della discordia, Longanesi, Milano, 1982. 3. Requisitoria del pm Elisabetta Maria Cesqui, cit., pp. 62 sgg. 4. La dizione Destra Nazionale fu decisa dopo la confluenza del Partito Democratico di Unità Monarchica nell’MSI. 5. Proprio in quegli anni Giacomo Mancini fu sottoposto a una violentis­ sima compagna scandalistica da parte del settimanale Candido diretto da Giorgio Pisanò, legato al «Noto Servizio», che molti punti di con­ tatto ebbe con la P2. 6. Oliviero Bergamini, La democrazia della stampa, Laterza, Roma-Bari, 2006, pp. 327-330. Già negli anni Cinquanta, non erano mancate in­ chieste giornalistiche coraggiose come quella di Besozzi sulla morte del bandito Giuliano, o quelle dell’Espresso sulla corruzione nella ca­ pitale, ma si era trattato di casi abbastanza isolati che, essenzialmente,

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No te a lle pagine 76-90 avevano toccato i rotocalchi, mentre i quotidiani «indipendenti» erano restati su posizioni rigidamente filogovernative, salvo il caso del Giorno, voluto dal presidente dell’ENI Mattei, che ostentava posi­ zioni eterodosse. Sul finire degli anni Sessanta, però, con la comparsa di una nuova generazione di giornalisti, iniziò a penetrare anche nei quotidiani un nuovo spirito più critico nei confronti delle istituzioni. 7. Sul tema si vedano il classico Pio Baldelli, Informazione e controinfor­ mazione, Mazzotta, Milano, 1976, poi ripubblicato da Stampa Alter­ nativa, Milano, 1998, e Massimo Veneziani, Controinformazione, Castelvecchi, Roma, 2006. Scusandomi per la fastidiosa autocitazione, rimando anche al mio Bombe a inchiostro, BUR, Milano, 2008. 8. Accanto al quotidiano del partito, l’Unità, c’erano anche Paese Sera a Roma e L'ora a Palermo, e i settimanali Rinascita e Vie Nuove. 9. Posso darne testimonianza avendo visitato, per conto della autorità giudiziaria, l’archivio dell’UAR, presso il quale ebbi occasione di rin­ venire un’intera collezione del bollettino folta di note a margine e di rinvii ad altri fascicoli. 10. Giampaolo Pansa, Comprati e venduti. I giornali e il potere negli anni ’70, Bompiani, Milano, 1977. 11. La campagna non risparmiò neppure temi di gossip, come la pretesa relazione amorosa di Giulia Crespi con il leader del Movimento Stu­ dentesco Mario Capanna, che sarebbe stato protetto durante la sua la­ titanza proprio dalla signora. Sia Capanna che la signora Crespi hanno sempre smentito questa diceria di cui nessuno, peraltro, è stato mai in grado di fornire il benché minimo indizio, ma la cosa ebbe il suo ruolo nell’indurre Giulia Crespi alla vendita della testata. 12. Il recupero della categoria di «dispotismo orientale» fu dovuto a Suzanne Labin che la riprese (per la verità stravolgendola e facendone un uso decisamente improprio) dagli studi del grande orientalista Karl August Wittfogel. 13. Carl Schmitt, Teoria del partigiano, Il Saggiatore, Milano, 1980. 14. Licio Gelli, La verità, Demetra edizioni, Lugano, 1989, pp. 57-72. 15. La letteratura politologica è divisa sulla definizione del modello della Quinta Repubblica, da alcuni definito «semipresidenziale», da altri «iperpresidenziale» o «presidiale». Non è questa la sede per affron­ tare la questione, per cui ci teniamo sulla definizione «media» di pre­ sidenzialismo. 16. Va ricordato a questo proposito che l’intesa fra le componenti PSI e PSDI della UIL fu caldeggiata e resa possibile dall’azione di Bettino Craxi, da poco eletto segretario del PSI, a riprova del fatto che Craxi

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No te alle pagine 90-122 non fu mai uno strumento nelle mani di Gelli, anche se, con molta spregiudicatezza, ne accettò il finanziamento attraverso il conto Prote­ zione presso l’UBS. 17. Proposta probabilmente ispirata dal desiderio di liberarsi dei movi­ menti di estrema sinistra fra i militari di leva, come i PID di Lotta Con­ tinua, che si temeva potessero risultare di ostacolo in caso di azioni di forza militari. 18. Il nome di Mancini andrebbe studiato meglio alla luce dell’alterna posizione del leader socialista che, schierato alla destra del partito sino al 1969, ebbe poi una svolta a sinistra sino al 1972, quando, a seguito della campagna del «Noto Servizio», non fu sostituito alla segreteria del partito da De Martino. In seguito (luglio 1976) dette il suo appog­ gio determinante per l’elezione di Craxi alla segreteria. Non sappiamo la data esatta in cui fu steso il PRD, ma dovrebbe essere in un mo­ mento prossimo all’estate del 1976. 19. Da notare l’assenza di Fanfani e Forlani. 20. Interessante l’espressione «giudici giudicanti»: il giudice è sempre giudicante, semmai si distingue fra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti. Una topica che rivela la non sconfinata cultura giuridica dell’estensore che evidentemente pensava che il pm fosse un giudice. 21. Così lo definisce Roberto Chiarini. 3. Il lungo intermezzo da Gelli a Renzi 1. Ricordiamo l’inedita «riunione dei capigruppo di maggioranza» pre­ sieduta dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel 2013, quasi che il capo dello Stato fosse diventato il capo della maggioranza governativa. 2. James O ’Connor, La crisifiscale dello Stato, Einaudi, Torino, 1978. 3. Claus Offe, Ingovernabilità e mutamento delle democrazie, il Mulino, Bologna, 1982. 4. Polibio definì «oclocrazia» il governo della feccia priva di cultura e senso della polis. 5. Giovanni Orsina, Ilberlusconismo, Marsilio, Venezia, 2013. 6. Massimo Teodori, P2: la controstoria, cit. 7. Quello che sorprende è constatare come cambino le opinioni nel tempo: nel 1973, quando i radicali si muovevano nell’area della Nuova sinistra e promuovevano diverse manifestazioni con Magistratura De­ mocratica, il PR si espresse contro il sistema elettorale maggioritario, al tempo vigente per l’elezione del CSM, reclamando il passaggio al

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No te a lle pagine 122-144 sistema proporzionale su lista che poi venne effettivamente approvato nel 1977. 8. Personalmente ho sottoscritto alcuni di quei referendum: ad esempio, quello sul finanziamento pubblico dei partiti. 9. Sandro Neri, Licio Gelli. Parola di venerabile, cit. 10. Andrea Possieri, Il peso della storia, il Mulino, Bologna, 2007; Carlo Baccetti, Il PDS, il Mulino, Bologna, 1997; Franco Andreucci, Da Gramsci a Occhetto, Della Porta, Pisa, 2014; Alexander Hobel, Marco Albeltaro, Novantanni dopo Livorno, Editori Riuniti, Roma, 2014; Mauro Fotia, Debole come una quercia, Edizioni Dedalo, Bari, 1999; Paolo Bellucci, Marco Maraffi, Paolo Segatti, PCI, PDS, DS, Donzelli, Roma, 2000. 11. Giorgio Napolitano, Dal PCI al socialismo europeo, Laterza, RomaBari, 2005; Giuseppe Chiarante, La fine del PCI, Carocci, Roma, 2009; Gianni Cervetti, Compagno del secolo scorso, Bompiani, Milano, 2016; Lucio Magri, Il sarto di Ulm, Il Saggiatore, Milano, 2009; Claudio Pe­ truccioli, Rendiconto, Il Saggiatore, Milano, 2001. 12. A questo proposito è utilissimo leggere l’intervista a Giorgio Amen­ dola contenuta in Giacomo Luciani, Il PCI ed il capitalismo occiden­ tale, Longanesi, Milano, 1977. 13. Lucio Magri, Il sarto di Ulm, cit., pp. 348-352. 14. Riflessioni molto interessanti in Giuseppe Chiarante, La fine del PCI, Carocci, Roma, 2009, pp. 101-104. 15. Ivi, pp. 95-99. 16. Gianni Cervetti, Compagno del secolo scorso, cit., p. 317. 17. Mauro Fotia, Debole come una quercia. cit. Per una descrizione dei processi di trasformazione dell’identità politica del PCI-PDS-DS, vedi anche Paolo Bellucci, Marco Maraffi, Paolo Segatti, PCI, PDS, DS, cit. 18. Lucio Magri, Il sarto di Ulm, cit., pp. 300-402. 4. Il pensiero politico di Renzi 1. Valerio Onida, Gaetano Quagliariello, Perché è saggio dire No, Rubbet­ tino, Soveria Mannelli, 2016, p. 23. 2. Anche se, ripetiamo, non tutti i membri della loggia erano consapevoli dei piani del Venerabile e alcuni furono strumentalizzati. 3. Dallo spagnolo arrebatar, che significa «strappare», «scippare». 4. Si pensi allo stipendio della «consulente» Paola Muraro (oltre cento­ mila euro annui) che si è difesa dicendo: «Sono i valori di mercato», dove per mercato occorre intendere le laute concessioni medie degli enti locali.

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No te alle pagine 144-153 5. Renzi sembra condividere la passione di Gelli e di Berlusconi per l’intelligence nella quale inserire amici. Non gli è riuscita, tuttavia (almeno sino al momento in cui scriviamo), l’operazione di nominare responsabile della cyber security il suo amico Carrai, per la fiera oppo­ sizione dei servizi USA, stando alle indiscrezioni giornalistiche. 6. A favore del «Sì» si sono espressi apertamente i vertici della Confindustria e il patriarca di Banca Intesa Giovanni Bazoli. 7. A tale riguardo, è vero, c’era già stato Franceschini nel 2009, succeduto a Veltroni, ma si era trattato di un passaggio interinale abbastanza breve e di scarso peso. 8. Come vedremo, le provincie non sono state affatto abolite ma sempli­ cemente soppresse dal testo costituzionale, il che non impedisce di istituirle di nuovo con legge ordinaria, magari sotto la copertura di «città metropolitane». 9. Colgo l’occasione per lanciare una proposta: perché non istituire una commissione parlamentare di indagine che appuri quanti sono i consu­ lenti di amministrazione centrale e di enti locali, quanto percepiscono e quanto incidono sui costi complessivi delle istituzioni? E, infine, quanti potrebbero essere tranquillamente sostituiti da personale in organico a stipendio ordinario, magari con una contenuta integrazione? 10. Gli autori intendono quella che nasce con la Costituzione riformata da Renzi. 11. Nadia Urbinati, David Ragazzoni, La vera seconda Repubblica, Raffaello Cortina, Milano, 2016, p. 180. 12. Consideriamo a parte il caso degli USA, dove pure non mancò una forte caratterizzazione elitaria del sistema, ma con modalità peculiari, contraddistinte dall’equilibrio fra poteri presidenziali e controlli par­ lamentari. 13. Il sistema proporzionale fu inizialmente adottato da tutti i Paesi dell’Europa occidentale, tranne la Gran Bretagna. La Francia passerà al maggioritario uninominale a doppio turno solo nel 1962. 14. In Francia accadrà con il passaggio dalla Quarta alla Quinta Repub­ blica, fra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta. 15. Carl Schmitt fu il giurista ufficiale del regime nazista e, per questo, subì per almeno tre decenni una damnatio memoriae nell’ambiente giuridico e politologico europeo. A riproporne le teorie, a partire dall’ultimo scorcio degli anni Settanta, non furono solo autori di destra come Ales­ sandro Campi, ma anche di sinistra come Massimo Cacciari. 16. Ricordiamo Gianfranco Miglio, Una repubblica migliore per gli ita­ liani, Giuffrè, Milano, 1983.

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No te a lle pagine 158-169 17. Federico del Giudice, La Costituzione rottamata?, Edizioni Simone, 2016, ebook. 18. Eccetto Val d’Aosta e Trentino. 19. Nel sistema elettorale Imperiali, vigente sino al 1993, era ammesso che qualsiasi candidato potesse presentarsi al massimo in tre diverse circoscrizioni. 20. Antonino Spadaro in Antonio Ruggieri, Alessio Rauti (a cura di), Fo­ rum sull’Italicum, Giappichelli, Torino, 2015, pp. 7-8. 21. Si tenga presente che nel sistema elettorale francese, che prevede il doppio turno, sono ammessi al ballottaggio i primi due candidati solo se la somma dei loro voti superi il sessantacinque per cento, altrimenti è ammesso anche il terzo candidato. Un’avvertenza che il legislatore avrebbe potuto considerare ma che, invece, è stata totalmente igno­ rata, e non a caso. 22. Questo nel caso in cui un capolista si presenti in una sola circoscri­ zione, ma è verosimile che alcuni si presentino in più circoscrizioni. La possibilità attribuita all’eletto di scegliere per quale collegio optare, favorirà tuttavia i candidati più graditi alla direzione del partito. 23. Qui, per ragioni di brevità, accenniamo solo al diabolico meccani­ smo degli «scivolamenti», per il quale votando per un partito a Mi­ lano si può determinare l’elezione di un altro candidato dello stesso partito a Trieste e, di conseguenza, farne riuscire uno di partito di­ verso a Bari. 24. L’adesione a un partito implica un vincolo disciplinare più stretto di quanto non sia l’appartenere ad altro partito, per quanto coalizzato. E la presenza di altri partiti nella maggioranza rende più facile un’even­ tuale rottura della maggioranza, con passaggio ad altra coalizione. 25. Vero è che alcuni partiti (come il PD e il M5S) hanno sperimentato forme di compilazione delle liste sottratte alla decisione del vertice del partito, tramite le primarie o le consultazioni online, ma si tratta di decisioni organizzative proprie del singolo partito e modificabili in qualsiasi momento, non assistite dal vincolo di legge. 26. Articolo che ha stabilito un singolare primato, passando dalle nove parole dell’ordinamento originario alle 439 dell’attuale stesura, ricca di rinvii ad altri articoli della Costituzione e di riserve di legge, per l’ar­ dua lettura del malcapitato cittadino che volesse orientarsi. Suggerisco ai colleghi costituzionalisti di rivolgere una domanda in proposito a tutti gli studenti per verificare quanti di loro siano in grado di rispon­ dere correttamente. 27. Un antico brocardo avvertiva: Delegatus delegare non potest.

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No te alle pagine 173-198 28. In verità, la presidenza Pertini portò i senatori di nomina presiden­ ziale a undici per effetto di una disinvolta interpretazione del testo costituzionale. In seguito si è tornati alla prassi di un totale di cinque senatori a vita, di nomina presidenziale. 29. Per la verità, il Piano di Rinascita Democratica parlava di pura e sem­ plice abrogazione mentre qui il Senato è stato mantenuto, ma tanto depotenziato da risultare una sopravvivenza meramente formale e forse solo momentanea. 30. Anche qui non si tratta di una identità di misure, ma dello stesso risul­ tato - e forse ancora più spinto - ottenuto per altra via, con la preco­ stituzione di una maggioranza governativa nel suo seno. 31. Un caso particolare è quello della Costituzione giapponese, attual­ mente vigente, che venne imposta dagli occupanti americani. 32. Occorrerebbe anche considerare il ben più alto astensionismo nelle elezioni del 2013 rispetto a quelle del 1946. 33. Sulla teoria dell’indirizzo politico in Mortati, vedi Mario Dogliani, Costituzione Materiale ed indirizzo politico, in Alessandro Catelani, Silvano Labriola (a cura di), La costituzione materiale, Giuffrè, Mi­ lano, 2001. 34. Guido Crainz, Carlo Fusaro, Aggiornare la Costituzione, Donzelli, Roma, 2016, pp. 48-49. 35. Ivi, pp. 67 e 89. 36. In fondo, quando parlava di presidenzialismo, Gelli, più che Roose­ velt o Eisenhower pensava piuttosto a Peròn, per il cui ritorno al po­ tere aveva collaborato attivamente. 37. Unica eccezione, forse, quella spagnola dove si parla di una Prima Repubblica (1812) e di una Seconda (1931), e dove i movimenti re­ pubblicani chiedono la fine della monarchia e il passaggio alla Terza Repubblica.

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Indice dei nomi

Action Franjaise 15 Agnesi, Giacomo 56 Alba Dorata 157 Allavena, Giovanni 56 Alleanza Nazionale (AN) 109, 120, 131 Almirante, Giorgio 31, 75, 139 Al Qaeda 156 Amato, Giuliano 153 Ambrosoli, Giulio 53 Amendola, Giorgio 127, 228n Andreotti, Giulio 21, 32, 33, 51, 58, 60, 61, 73, 75, 78, 79, 98, 114, 115, 141, 207 Angeli, Franco 56 Angelini, Fiorenzo 60 Anselmi, Tina 62, 64, 221n Are, Giuseppe 71 Area Popolare (AP) 110, 162 Ascarelli, Roberto 35 Aspen Institute 132 Baran, Paul 112 Barrès, Maurice 15 Bazoli, Giovanni 229n Bellocchio, Antonio 38 Benedetti, Ermenegildo 48 Benvenuto, Giorgio 90

Bergamelli, Albert 7, 47 Berlinguer, Enrico 125, 126 Berlusconi, Silvio 52, 54, 56, 62, 78, 105, 109-124, 126, 129, 140, 142­ 144, 146, 150, 179, 194, 221n, 222n, 229n Bernabei, Ettore 37 Bisignani, Luigi 132-136 Blair, Tony 73 Bonaparte, Luigi Napoleone 17 Bonghi, Ruggiero 15 Bonsanti, Sara 221n Bordiga, Amadeo 16 Borghese, Junio Valerio 7, 39, 75, 80, 83 Boschi, Francesco 38 Boschi, Maria Elena 144 Bossi, Umberto 110, 117 Brenneke, Richard 64 Brigate Rosse (BR) 79 Bruschi, Ivan 42 Bucciarelli-Ducci, Brunetto 222n Buongiorno, Pino 221n Cacciari, Massimo 229n Calvi, Roberto 8, 51, 54, 56, 57, 64, 67, 78, 79, 224n


Indice dei nomi Campi, Alessandro 229n Campora, Héctor José 44 Capanna, Mario 226n Caradonna, Giulio 30 Carniti, Pierre 90 Carobbi, Italo 29, 223n Carpi, Pier 29, 221n Carrai, Marco 144, 229n Casini, Pier Ferdinando 179 Castelli, Roberto 115 Cavallo, Luigi 67 Ceausescu, Nicolae 30, 37 Cecchi, Alberto 221n Cesqui, Elisabetta Maria 39, 40, 74 Chiarini, Roberto 227n Ciancimino, Vito 61 Ciano, Costanzo 24 Cipriani, Gianni 221n Cipriani, Luigi 221n Civati, Beppe 138 Colombo, Gherardo 52 Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) 29 Comitato Esecutivo per i Servizi di In­ formazione e Sicurezza (CESIS) 56 Comte, Auguste 115 Concutelli, Pierluigi 47 Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) 89, 90, 148 Confederazione Italiana Sindacati La­ voratori (CISL) 89, 90, 103, 106, 206, 208 Cordero di Montezemolo, Luca 110 Corradini, Enrico 15 Cossiga, Francesco 50, 91, 174, 179 Costa, Carla 223n Costanzo, Maurizio 57 Cousin, Victor 15 Craxi, Bettino 76, 98, 111-115, 127­ 130, 139, 153, 207, 221n, 226n, 227n Crespi, Giulia 78, 226n

Cresti, Giovanni 42, 57 Crispi, Francesco 117, 139 Crozier, Michel 71, 225n Cuccia, Enrico 58, 59, 224n Cuperlo, Gianni 148 D’Alema, Giuseppe 221n D’Alema, Massimo 11, 129, 148 D’Amato, Federico Umberto 46, 66 D’Annunzio, Gabriele 15 De Gasperi, Alcide 139 De Gaulle, Charles 87 De Lutiis, Giuseppe 221n De Marsanich, Augusto 31 De Marzio, Ernesto 31 De Roberto, Federico 16 De Vecchio, Edoardo 224n Del Giudice, Federico 157 Dell’Aquila, Massimo 224n Delrio, Graziano 129 Democratici di Sinistra (DS) 110, 124­ 130, 138, 146, 147, 228n Democrazia Cristiana (DC) 20, 31, 38, 24, 48, 53, 56, 60, 67, 73, 75, 88, 89, 98, 110, 117-120, 125, 138, 141, 150, 205, 207 Democrazia Nazionale (DN) 9, 49, 88, 98, 131 Di Donna, Leonardo 57 Diecidue, Romolo 32, 61 Di Pietro, Antonio 109, 115, 123 Einaudi, Luigi 139 Eisenstadt, Shmuel 71 Elia, Leopoldo 59 Fanfani, Amintore 24, 37, 51, 53, 60, 61, 75, 138, 139, 141, 227n Faraone, Davide 138 Federzoni, Luigi 15 Ferrari, Alberto 57 Finocchiaro, Beniamino 223n

233


Indice dei nomi Fioravanti, Valerio 30 Fiori, Publio 38 Flamigni, Sergio 62, 221n Foa, Vittorio 139 Fogazzaro, Antonio 16 Forattini, Giorgio 113 Formica, Rino 222n Forza Italia (FI) 98, 109, 119, 120, 121, 133, 143, 146,149, 150, 162, 191 Foschi, Franco 56 Franceschini, Dario 229n Franco, Francisco 28 Fratelli d’Italia (FDI) 109, 191 Friedman, Milton 112 Frondizi, Arturo 43 Front National (FN) 157 Fusaro, Carlo 194, 197 Galli, Giorgio 221n Gamberini, Giordano 35, 36 Gelli, Maria Grazia 52, 84, 85 Gelli, Raffaello 28 Gentile, Giovanni 24 Gentile, Panfilo 81, 199 Giachetti, Roberto 138 Giannini, Guglielmo 80, 81, 117 Gigliotti, Frank 85 Giolitti, Giovanni 119, 139 Grassini, Giulio 56 Graziadei, Gianfranco 57 Gronchi, Giovanni 24 Guarino, Mario 62, 221n Guarino, Philip 85 Guevara, Ernesto 43 Guidi, Giovanni 57 Hamer, Dirk 57 Huntington, Samuel 71 Ichino, Pietro 138 Italia dei Valori (IDV) 109, 130

Jucci, Roberto 61 Kappler, Herbert 35, 39 Labin, Suzanne 83, 226n La Malfa, Ugo 139 La Margherita 110, 128, 138, 148 LaPalombara, Joseph 125 La Pira, Giorgio 138 Latilla, Gino 57 Lebole, Mario 32, 42, 56 Ledeen, Michael 85, 145 Lega Nord 131 Lenin, Vladimir Il’ic U. 16, 88 Lenoci, Vito Vittorio 223n Lenzi, Ugo 36 Leone, Giovanni 38, 49, 91, 224n, 225n Letta, Gianni 133 Lima, Salvo 61 Lipset, Seymour M. 71 Lombardo, Ivan Matteo 83 Longanesi, Leopoldo 80 Longo, Pietro 56 Lotti, Luca 144, 155 Luhmann, Niklas 71 Lusi, Luigi 138 Macario, Luigi 90 Magarò, Patrizia 171 Majorana, Angelo 15 Malaparte, Curzio 80 Maletti, Gianadelio 56, 61, 66 Malizia, Saverio 66 Manca, Enrico 56 Mancini, Giacomo 76, 98, 207, 225n, 227n Maranini, Giuseppe 81, 199 Marcucci, Andrea 138 Mariotti, Luigi 38, 49 Martelli, Claudio 51, 114, 224n Marx, Karl 17, 112

234


Indice dei nomi Masi, Mauro 133 Mattarella, Piersanti 7 Mattarella, Sergio 174 Mattei, Enrico 37, 60, 226n Maurras, Charles 15 Medici, Giuseppe 222n Menem, Carlos 19 Miceli, Vito 56, 66 Michelini, Arturo 31 Miglio, Gianfranco 113, 191 Mola, Aldo Alessandro 221n Montanelli, Indro 62, 80, 225n Moro, Aldo 7, 39, 49- 51, 76, 79, 125 Mortati, Costantino 21, 191, 231n Mosca, Gaetano 15, 82 Movimento 5 Stelle (M5S) 131, 145, 146, 177, 179, 191, 222n, 230n Movimento Politico Ordine Nuovo 47 Movimento Sociale Italiano (MSI) 31, 49, 51, 75, 88, 89, 98, 109, 123, 131, 199, 225n Muraro, Paola 228 Mussolini, Benito 28, 117, 119, 139 Muzi, Maria Luisa 32 Napolitano, Giorgio 125, 174, 179, 191, 227n Natta, Alessandro 126 Nenni, Pietro 139 Neri, Sandro 221n Nixon, Richard 83, 85 Noschese, Alighiero 57 Nozick, Robert 112 Nozzoli, Guido 77 Occhetto, Achille 115, 123-129, 165, 199 Occorsio, Vittorio 7, 47 O’Connor, James 112 Offe, Claus 112 Organisation Armée Secrète (OAS) 83

Organizzazione Mondiale del Pen­ siero e dell’Assistenza Massonica (OMPAM) 7, 43-51, 224n Oriani, Alfredo 15 Orsina, Giovanni 119 Ortolani, Umberto 47, 56, 66 Pacciardi, Randolfo 83, 221n Palma, Luigi 15 Palme, Olof 8 Pannella, Marco 115, 121-124, 129, 165, 199 Pareto, Vilfredo 15 Partito Comunista Italiano (PCI) 31, 38, 48, 73, 75, 87-89, 93, 108, 110, 113, 121, 124-130, 138, 146, 148, 193, 228n Partito Democratico della Sinistra (PDS) 110, 124, 129, 146, 147, 179, 228n Partito di Unità Proletaria (PDUP) 125 Partito Nazionale Fascista (PNF) 28 Partito Popolare Italiano (PPI) 138 Partito Radicale 110, 121-127, 186, 227n Partito Repubblicano Italiano (PRI) 90, 98, 146, 205, 207, 224n Partito Socialista Democratico Ita­ liano (PSDI) 56, 90, 98, 205, 207, 226n Partito Socialista Italiano (PSI) 9, 31, 56, 67, 75, 76, 89, 98, 101, 111-115, 125-130, 159, 205, 207, 226n Pattumelli, Giovanni 50 Pecorelli, Mino 8, 51, 64 Pellegrino, Giovanni 62 Pellizzer, Renato 42 Pelosi, Walter 56 Perón, Evita 44 Perón, Isabelita 43- 45

235


Indice dei nomi Perón, Juan Domingo 37, 43-45, 231n Perticone, Giacomo 81, 199 Pertini, Sandro 49, 231n Piazzesi, Gianfranco 221n Pisano, Giorgio 29, 31, 79, 221n, 225n Pizzorno, Alessandro 71, 72 Popolo delle Libertà (PDL) 109 Prestigiacomo, Stefania 133 Prezzolini, Giuseppe 80, 199 Prodi, Romano 129 Putin, Vladimir 42

Serao, Matilde 16 Servizio Informazioni Difesa (SID) 39, 56, 66 Servizio Informazioni e Sicurezza Mili­ tare (SISMI) 7, 56 Servizio Informazioni Forze Armate (SIFAR) 38, 56 Servizio per le Informazioni e la Si­ curezza Democratica (SISDE) 56 Servodio, Giuseppina 138 Sindona, Michele 7, 51, 52, 53, 56­ 58, 61, 67, 78, 79, 85, 224n Siniscalchi, Francesco 48 Sinistra e Libertà (SEL) 146, 176, 177, 191, 192 Sinistra Italiana (SI) 146, 162 Sofri, Adriano 50 Sogno, Edgardo 45, 85, 93 Sonnino, Sidney 15 Speranza, Roberto 148 Sturzo, Luigi 199 Sweezy, Paul 112

Ragazzoni, David 150, 197 Rauti, Pino 31 Reagan, Ronald 85 Rega, José López 44 Richetti, Matteo 138 Rifondazione Comunista 162 Rizzoli, Angelo 51, 76, 78 Roatta, Mario 28 Romualdi, Pino 31 Rosselli, Carlo 127, 128 Rossetti, Siro 38 Ruffo, Fabrizio 117 Saccucci, Sandro 75 Salvini, Guido 39 Salvini, Lino 10, 37, 38, 48, 55 Santovito, Giuseppe 56 Saragat, Giuseppe 35, 39, 139 Sarti, Adolfo 52, 56 Scalfari, Eugenio 221n Scalfaro, Oscar Luigi 179 Scalia, Vito 89 Scaroni, Paolo 133 Scelta Civica 109, 145, 150, 176, 191, 192 Schmitt, Carl 83, 153, 191, 229n Schroder, Gerhard 73 Scricciolo, Loris 57 Segni, Mariotto 115, 123, 129, 130, 165,199

Tacconi, Leandro 89 Tassan Din, Bruno 8, 51, 76, 78 Teardo, Alberto 8 Tedeschi, Mario 30, 83 Teodori, Massimo 62, 121, 221n Tolbert, William 46 Tosato, Emilio 20 Touraine, Alain 71 Travaglio, Marco 221n Turone, Giuliano 52 Ufficio Affari Riservati 46, 66, 77, 218 Unione dei Democratici Cristiani e di Centro (UDC) 146 Unione Democratica per la Nuova Re­ pubblica 221n Unione Italiana del Lavoro (UIL) 89, 90, 103, 206, 226n

236


Indice dei nomi Urbinati, Nadia 150, 197, 229n Vagnoni, Salvatore 50 Valori, Giancarlo Elia 37, 38, 44, 53, 61, 221n Veltroni, Walter 229 Verdini, Denis 132, 135, 144, 202 Villa, Claudio 57 Vinci, Anna 221n

Vinciguerra, Mario 81, 199 Viviani, Ambrogio 123 Von Hayek, Friedrich August 112 Waldheim, Kurt 29, 48 Watanuki, Joji 71 Weber, Max 149 Westmoreland, William 52, 84 Wittfogel, Karl August 226n

237


Indice

Introduzione. La P2 fra letteratura, cronaca giudiziaria e storia Il progetto della P2 e il suo lascito - Il libro che state leggendo Centralità del governo o del parlamento - L a critica del sistema parlamentare, l’antiparlamentarismo e il presidenzialismo - Il pro­ blema del bicameralismo - I partiti regionali e il «partito toscano»

1. L’uomo e la loggia Quando il Venerabile non era ancora venerabile - La nascita della P2 - L’OMPAM e l’inizio della fine - L a caduta e la latitanza - Ra­ diografia di una loggia molto particolare - Fra Andreotti e Gelli: la conglomerata del potere - Cosa fu la P2?

2. Il pensiero politico di Gelli e il Piano di Rinascita Democratica Il contesto storico internazionale - Il contesto nazionale e la svolta della P2 - L a conquista dei partiti - L a conquista dei mass media L a penetrazione nel mondo finanziario - L a cultura politica della P2 - Il memorandum introduttivo allo Schema «R » - Lo Schema «R » - Il Piano di Rinascita Democratica

3. Il lungo intermezzo da Gelli a Renzi Una premessa - Alcune precisazioni - Craxi - Berlusconi - Pan­ nella e il Partito Radicale - Occhetto, il PCI e il PDS-DS-PD - La trasformazione della politica: fra il club, la lobby e la loggia


4. Il pensiero politico di Renzi Renzi: l’uomo e il suo pensiero - Dal popolo di Gelli a quello di Renzi (passando per quello di Berlusconi) - La concezione dello Stato: l’ispirazione di fondo - L a legge elettorale - La questione del bicameralismo - Il presidente della Repubblica - Gli organi di garanzia - Referendum, iniziativa popolare ed enti locali - P2 e renzismo: differenze e somiglianze sociali - Tirando le fila

Appendice. Il Piano di Rinascita Democratica Note Indice dei nomi


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