Medioevo n. 198, Luglio 2013

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belgrado 1456 francesco datini la fenice caravella lonato gualchiere dossier teodorico

Mens. Anno 17 n. 7 (198) Luglio 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 9,00; Spagna € 8,00; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 7 (198) luglio 2013

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

dossier Teodorico

i due volti del re

immaginario

Il risveglio della fenice

luglio 1456

la

ottomana

minaccia

€ 5,90



sommario

Luglio 2013 ANTEPRIMA

COSTUME E SOCIETÀ

mostre Basilewsky, cacciatore di tesori

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musei Tre musei per il dialogo

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appuntamenti L’alpeggio come un ring A tu per tu con un capolavoro La Francigena in festa A colpi d’archibugio per una pergamena Nozze principesche L’Agenda del Mese

56 68 luoghi

10 12 14

lombardia Lonato Rivivere il Quattrocento di Sandra Baragli

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CALEIDOSCOPIO

STORIE

immaginario

battaglie Belgrado Non passa l’ottomano

L’uccello di fuoco

di Federico Canaccini

La fenice 30

di Luca Pesante

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marineria Esplorare e... deportare

Francesco Datini

Vita (e lettere) di un mercante

di Domenico Sebastiani La caravella

protagonisti 44

44

di Martino Sacchi

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cartoline Lassú sulle montagne

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libri Lo scaffale

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musica Suoni d’oltre Manica La piú celebre delle follie

112 113

Dossier

teodorico

il goto che volle farsi romano di Furio Cappelli

scienza e tecnica Gualchiere

Batti il ferro...

di Flavio Russo

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100

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Ante prima

Basilewsky, cacciatore di tesori mostre • Lascia per la prima volta

le sale dell’Ermitage una delle piú importanti raccolte d’arte mai costituite in Europa. Frutto della passione di un diplomatico russo dell’Ottocento

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ffre diverse chiavi di lettura la mostra delle opere appartenenti alla raccolta di Alexander Basilewsky. Il diplomatico, collezionista di spicco nell’Europa dell’Ottocento, visse a lungo a Parigi, frequentando un cenacolo di cui facevano parte personaggi come il pittore romantico Gustave Doré e Alfred Darcel, futuro direttore del museo di Cluny. L’intera serie di manufatti, messa in vendita

nel 1884, venne acquistata dallo zar Alessandro III per il Museo Ermitage, che inaugurò cosí la sezione di Medioevo e Rinascimento. L’esposizione permette quindi di vedere una raccolta famosissima in patria, dove Basilewsky è una sorta di gloria nazionale, ma poco conosciuta nel resto d’Europa. Attraverso capolavori mai usciti dalla Russia, la rassegna avvicina a un’idea raffinata dell’età di Mezzo,

In alto valva di specchio in avorio con giocatori di scacchi. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage. In basso cassetta reliquiario di santa Valeria con scene dell’Adorazione dei Magi. Limoges, 1170–1180. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage. con oggetti liturgici di altissima qualità, quali calici, reliquiari, croci, pissidi, piatti di legature per codici.

Quella casa in rue Blanche... L’allestimento delle sale, molto pulito, si ispira a un acquerello del 1870, che riproduce la galleria privata all’ultimo piano dell’abitazione parigina in rue Blanche, nella quale Basilewsky Dove e quando

«Il collezionista di meraviglie, l’Ermitage di Basilewsky» Torino, Palazzo Madama, piazza Castello fino al 13 ottobre. Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; domenica, 10,00-19,00; chiuso lunedí. Info tel. 011 4433501; www.palazzomadamatorino.it Catalogo Silvana Editoriale

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riceveva ogni lunedí la sua cerchia di amici. Il dipinto, riprodotto su scala monumentale, è retroilluminato e domina il percorso espositivo, con «vetrine in legno dipinto noce, che richiamano i mobili di casa del diplomatico», sottolinea la curatrice della rassegna Simonetta Castronovo. Che aggiunge: «le teche sono di due tipologie, quella destinata all’esposizione di un singolo capolavoro e l’altra pensata per una selezione piú ampia di oggetti; talvolta hanno uno schienale di tessuto rosso, con lo stesso punto di colore della tappezzeria riprodotta nell’acquerello». L’interesse di Basilewsky per i secoli bui si colloca, come spiega Castronovo, «nell’ambito della riscoperta del Medioevo, che in Francia va dai restauri firmati da Viollet-le-Duc alla pubblicazione di importanti repertori dedicati alle arti applicate alla trascrizione di inventari, passando per lo studio della contabilità dei re di Francia tra Due e Quattrocento. Sono gli anni in cui nasce il Museo

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di Cluny, diretto da Darcel, che assieme al diplomatico, di cui è consigliere per gli acquisti, scrive il catalogo della collezione Basilewsky, pubblicato nel 1874».

Interessi originali E proprio al catalogo della raccolta si ispira l’ordinamento della mostra. «Se la passione per gli objet d’art di Medioevo e Rinascimento è un tratto classico delle collezioni ottocentesche, gli altri due filoni che si trovano nella raccolta di Basilewsky sono originali: l’interesse per l’arte delle catacombe ha una ragione religiosa, mentre l’attenzione per i manufatti bizantini è legata alle origini del collezionista», precisa la curatrice. E a Palazzo Madama, dopo gli oggetti di culto dei primi cristiani, come le lucerne in bronzo e i vetri dorati in foglia d’oro, su tutti il Sacrificio di Isacco del IV secolo, si trovano materiali bizantini, romanici, avori dalla Sicilia e dall’Italia meridionale, poi Limoges del Duecento e oreficeria

Errata corrige con riferimento al dossier «Eresia e repressione» (vedi «Medioevo» n. 197, giugno 2013), desideriamo segnalare che l’immagine relativa alla morte di Simone de Monfort pubblicata a p. 79 è un’illustrazione a colori di epoca moderna ispirata a una miniatura medievale e non una «miniatura del XIII sec.» come indicato in didascalia. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori. mosana. Una sezione è riservata al mondo profano, alla vita quotidiana nelle corti, con cofanetti portagioie, oggetti per banchetti, specchi, un corno di bufalo con montatura in argento, un pugnale gotico della metà del Trecento. Si trovano quindi le armi che Basilewsky cominciò a collezionare in Oriente e infine il Rinascimento, documentato da maioliche italiane, francesi, e smalti dipinti di Limoges. Stefania Romani

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Ante prima

Tre musei per il dialogo musei • Fervono a

Gerusalemme i lavori per l’allestimento del Terra Sancta Museum, un complesso che intende ripercorrere la storia del cristianesimo e dell’attività svolta dai Francescani nei luoghi santi. E che vuole anche proporsi come strumento di confronto tra religioni diverse

È

ormai ufficiale la nascita del Terra Sancta Museum, realtà espositiva dedicata alle radici del cristianesimo e all’avventura francescana nei luoghi santi, che aprirà i battenti a Gerusalemme nel 2015. La nuova istituzione mira a far luce sulla presenza di cristiani e frati in Terra Santa, valorizzando il ruolo che hanno svolto nel corso dei secoli, per incoraggiare il dialogo fra religioni diverse. Tre musei, nel cuore della Città Vecchia, rientreranno in un complesso unico, di oltre 2500 mq. Con un forte intento didattico, le gallerie renderanno fruibili raccolte nate sia dalle donazioni, sia dagli scavi archeologici condotti negli ultimi centocinquant’anni. Accanto a sculture e monili, sfileranno dipinti, testi miniati, documenti scritti, paramenti liturgici.

Un percorso come un continuum «Il Terra Sancta Museum colma una lacuna, perché la presenza cristiana a Gerusalemme, minoritaria e sempre piú ridotta dal punto di vista numerico, storicamente ha favorito il dialogo e la convivenza interreligiosa», spiega Gabriele

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Allevi, direttore del progetto museologico, precisando anche che «l’allestimento, studiato dallo Studio GTRF Tortelli e Frassoni Architetti Associati è volutamente unitario nei tre musei: pavimentazione, arredi, vetrine, interpareti, didattica, approccio museologico sono uguali, proprio per comunicare con lo stesso linguaggio in diversi luoghi della città e per sottolineare che il percorso espositivo è un continuum». Nel convento della Flagellazione avranno sede il Museo archeologico sulle località evangeliche in Palestina e quello multimediale su Gerusalemme e il Santo Sepolcro da Erode ai giorni nostri. Il primo, proprio nel punto in cui Gesú sarebbe stato condannato, ripropone le tappe salienti della sua vita: alla nascita a Betlemme e agli anni di Nazareth seguono la predicazione a Cafarnao, la vita in Galilea e la Passione. Il Museo multimediale, partendo dalla Città Santa di oggi, per tornare a ritroso

fino all’età di Cristo, ripropone le tappe della Via Dolorosa, con una panoramica sull’evoluzione urbanistica della città.

Un incontro leggendario Nel convento di San Salvatore, all’ingresso del quartiere cristiano, si snoderanno invece le sale del Museo storico sui Francescani in Terra Santa, con testimonianze su quanto hanno fatto i frati per custodire i luoghi santi, accogliere

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i pellegrini e curare la comunità locale. Se la presenza francescana è regolamentata dalla bolla pontificia di Clemente VI, del 1342, l’incontro tra il Poverello e il sultano Malik Al Kamila, a lungo ritenuto leggendario, avviene nel 1219, segnando l’avvio di un’attività permanente. «Il Terra Sancta Museum è perciò uno strumento di dialogo – racconta Allevi – perché fa toccare con mano l’impegno dei Francescani, che, pur vivendo di stenti, hanno sempre avuto attenzione per la comunità del luogo», visto che nel corso dei secoli importano dal Vecchio Continente medicine, norme igieniche, tipografia, scuola, energia elettrica. In un’operazione museologica di questa portata, ci sono diversi aspetti da segnalare. Per esempio, la sala del Santo Sepolcro, nella quale saranno riuniti i reperti prima collocati in quattro o cinque sedi diverse. Poi va sottolineata la qualità artistica del Tesoro di Betlemme, un gruppo di manufatti di epoca crociata, in cui figurano una testa di pastorale vescovile, candelieri di dimensioni diverse, campane e canne d’organo, a dimostrazione di come i crociati abbiano impiegato le migliori maestranze a livello europeo. Per aggiornamenti sui lavori: www.terrasanctamuseum.org, www.custodia.org oppure www.fmc-terrasanta.org Stefania Romani

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Nella pagina accanto modellino in legno e madreperla della basilica del Santo Sepolcro, XVII sec. Gerusalemme, Terra Sancta Museum In basso vasi da farmacia in maiolica savonese, dono della Repubblica di Genova. XVII e XVIII sec. Gerusalemme, Terra Sancta Museum.

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Ante prima

L’alpeggio come un ring appuntamenti • Tra la primavera e l’autunno il Cantone svizzero del Vallese

si anima di una serie di combattimenti a dir poco singolari. Protagoniste di sfide accanite, ma non cruente, sono infatti le... vacche della razza d’Hérens

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gni anno, nel Cantone svizzero del Vallese, dalla primavera inoltrata all’inizio dell’autunno, si svolge le Combat de reines, il Campionato delle regine, un curioso appuntamento che ha come protagoniste le vacche di razza d’Hérens. Provenienti da una valle laterale, che, situata nel distretto di Hérens, termina nella vallata del Rodano, immediatamente a sud di Sion, queste mucche hanno un temperamento vivace e molto bellicoso. Nella zona ne sono stati censiti 13mila esemplari. Se l’organizzazione dei Combats de reines è relativamente recente, l’origine dei combattimenti è invece un rituale antichissimo, connesso alla vita comunitaria degli armenti nei pascoli. Con l’arrivo della bella stagione le mucche escono dalle stalle. Prima Un combattimento tra due vacche della razza d’Hérens.

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di affrontare l’enarpa, ossia la salita agli alpeggi, vengono radunate e la formazione del nuovo gruppo mette in discussione gli equilibri gerarchici precedenti. In ogni mandria, infatti, per istinto naturale, si stabilisce una gerarchia tra le bovine, che non tollerano la vicinanza delle consimili, senza aver prima chiarito i reciproci rapporti di superiorità.

In lotta per la guida del gruppo A cercare la sfida sono in prevalenza le bestie che hanno una posizione forte nel gruppo. Esse devono capire, o far capire, a chi spetta guidare il branco. Desiderose di definire il proprio ordine interno, le vacche lottano le une contro le altre con accanimento, in uno scontro a muso duro. I combattimenti avvengono naturalmente, corna contro corna. Nessuno spargimento di sangue, nessun ferito. Gli attacchi sferrati in battaglia sono generati da potenza e strategia: le Hérens, contrariamente

ai tori, non si abbandonano mai alla violenza. L’animale sconfitto, nonostante appartenga a una delle razze bovine piú bellicose del pianeta, accetta di buon grado la perdita. Organizzato in base a calendari stagionali, questo campionato di forza con vista mozzafiato sul Cervino, è uno spettacolo del tutto pacifico, a cui partecipa un folto numero di appassionati. Le concorrenti prendono parte ai rendezvous, divise secondo l’età e il peso. Nel Vallese – a differenza della confinante Val d’Aosta, ove si affrontano nell’arena a turno, due per volta – nel campo di battaglia entrano insieme una quindicina di aspiranti regine. Una volta nel ring, i «padroni» affidano i capi ai rabatteurs, i guardiani-mandriani. Qui, ciascuna è libera di scegliersi l’avversaria. I giudici invitano a disporre le bestie in posizione di lotta, a tenere sotto controllo quelle troppo focose e a incitare le recalcitranti. La gara comincia con uno squillo di tromba. Chi vince il combat, si prepara subito a un altro incontro. La vacca che a fine giornata non ha mai perso, si aggiudica il titolo di regina. Al termine dell’estate la piú forte, ossia la «reine», la regina, motivo di orgoglio e vanto per l’allevatore, marcia alla testa del gregge. La finale cantonale, che incorona la regina delle regine, la reine de les reines, si svolge dopo le eliminatorie regionali, disputate sui pascoli di tutto il Vallese. Per informazioni e il calendario delle gare: www.evolene-region.ch Chiara Parente

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Ante prima

A tu per tu con un capolavoro

appuntamenti • Per dipingere l’Ultima Cena di S. Maria delle Grazie, Leonardo

sperimentò una tecnica innovativa, rivelatasi, nel tempo, tutt’altro che duratura. L’affresco rischiava di svanire, ma è stato recuperato grazie a un lungo restauro. E ora, fino a dicembre, c’è un’occasione in piú per ammirare un’opera eccezionale

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ono in programma fino al prossimo dicembre le aperture straordinarie del Cenacolo vinciano: grazie a Eni, per cinque venerdí (19 luglio, 13 settembre, 15 novembre, 6 dicembre e 20 dicembre), le luci del Refettorio di S. Maria delle Grazie a Milano, dove Leonardo ha dipinto l’Ultima Cena, non si spegneranno e sarà possibile ammirare il capolavoro. Il genio di Vinci realizzò l’opera per volere di Ludovico Maria Sforza detto il Moro, in un arco di tempo che va dal 1494 al 1497. L’artista, trattandosi di pittura su muro, non si è affidato alla tradizionale quanto resistente tecnica dell’affresco, che impone una veloce stesura del colore sull’intonaco ancora umido, ma ha voluto sperimentare un metodo innovativo che gli consentisse di intervenire sull’intonaco asciutto e, quindi, di poter tornare a piú riprese sull’opera curandone ogni minimo particolare. Le intuizioni di Leonardo, purtroppo, si rivelarono sbagliate e ben presto, per un’infelice concomitanza di cause, la pittura cominciò a deteriorarsi.

Salvataggio in extremis Nel corso dei secoli, di conseguenza, si susseguirono molti restauri nel disperato tentativo di salvare il capolavoro. Nel 1999, dopo oltre vent’anni di lavoro, si è concluso l’ultimo intervento conservativo che, grazie alla rimozione di tante ridipinture, ha riportato in

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L’Ultima Cena affrescata da Leonardo da Vinci per il Refettorio di S. Maria delle Grazie a Milano. 1494-1497. luce quanto restava delle stesure originali. Le precarie condizioni del dipinto obbligano il Museo a osservare rigide regole di visita consentendo l’ingresso di 30 persone ogni 15 minuti.

La cultura per la crescita Fin dai tempi di Enrico Mattei la cultura è per Eni un importante terreno di iniziative attraverso cui coniugare la propria natura di grande società energetica con il tessuto sociale e culturale dei Paesi in cui opera. Eni è convinta, infatti, che favorire l’accesso alla cultura sia un valore e uno strumento di crescita per tutta la società. In un periodo in cui, al trend di disinvestimento economico risponde un aumento costante della domanda in cultura, l’impegno di Eni è quello di facilitare l’accesso e la conoscenza all’arte, al teatro, alla musica, al cinema. Le visite guidate al Cenacolo vinciano sono in programma dalle 19,30 alle 22,30. La prenotazione è gratuita, ma obbligatoria, telefonando allo 02 92800360 (attivo dal lunedí al sabato dalle 8,00 alle 18,30). Per ulteriori informazioni, si può consultare il sito web: www.cenacolovinciano.net (red.) luglio

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Ante prima

La Francigena in festa appuntamenti • Escursioni,

celebrazioni religiose, rievocazioni, rassegne enogastronomiche, visite guidate, concerti: c’è tutto questo e molto altro nel ricco calendario di eventi della terza edizione del Festival dedicato al grande percorso devozionale

È

in corso, fino al prossimo 30 settmebre, la terza edizione del Festival europeo «Via Francigena Collective Project», una manifestazione che propone oltre 230 eventi in Italia, Svizzera, Francia, sino a Canterbury in Inghilterra, volti a valorizzare e a promuovere i territori che esso attraversa. La via Francigena («strada originata dalla Francia»), trae il suo nome dal territorio francese, che allora comprendeva la Valle del Reno e i Paesi Bassi, e si affermò come il principale asse di collegamento tra Nord e Sud dell’Europa, lungo il quale transitavano mercanti, eserciti, pellegrini. Tra la fine del I millennio e l’inizio del II, la pratica del pellegrinaggio assunse un’importanza crescente. I luoghi santi della cristianità erano Gerusalemme, Santiago de Compostela e Roma, e la Francigena rappresentò lo snodo centrale delle grandi vie della fede. Infatti, i pellegrini provenienti dal nord percorrevano la via per dirigersi a Roma, ed eventualmente proseguire lungo la via Appia verso i porti pugliesi, dove s’imbarcavano verso la Terra Santa. Il pellegrinaggio divenne presto un fenomeno di massa, e ciò esaltò il ruolo della via Francigena, che

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divenne un canale di comunicazione determinante per la realizzazione dell’unità culturale che caratterizzò l’Europa nel Medioevo.

Un cammino che nutre lo spirito Sandro Polci, direttore di «Via Francigena Collective Project», ha definito la Francigena come «un cammino che nutre lo spirito senza indulgere in solitudini claustrali; anzi, nutrendosi di luoghi

e paesaggi, incontri e pensieri condivisi» e questa «leggerezza riflessiva» è il fondamento del Festival – dedicato quest’anno alla cittadinanza europea, a vent’anni dalla sua introduzione –, che si articola in: cammini ed escursioni; eventi culturali, riti religiosi e rievocazioni storiche e rassegne enogastronomiche; visite guidate e arte: concerti, teatro, danza,

La via Francigena in due immagini premiate dal concorso fotografico internazionale «InVia 2011». pittura. Eventi, organizzati dal e sul territorio, espressione di civiltà e convivenza nelle specificità locali, sia mitteleuropee che mediterranee. È complementarietà nelle differenze, coscienza di quanto sia rilevante creare un sentimento favorevole e condiviso, soprattutto nelle complessità odierne. I territori coinvolti, secondo il fitto programma, danno un respiro ampio e una prospettiva europea al Festival di uno dei maggiori itinerari culturali del Consiglio d’Europa. Punto di forza della rassegna – patrocinata dalla Federazione Europea dei Cammini di San Giacomo di Compostella – è quello di poter offrire risonanza e visibilità alle iniziative «francigene» proposte e organizzate dai Paesi aderenti e dagli Enti locali, mettendole «a fattore comune» e garantendone una comunicazione coordinata nel rispetto delle peculiarità di ciascun territorio. Ulteriori informazioni e il programma completo del Festival disponibili agli indirizzi web: www.festival.viefrancigene.org e www.civita.it (red.) luglio

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Ante prima

A colpi d’archibugio per una pergamena appuntamenti • Cava de’ Tirreni rievoca uno degli eventi

gloriosi della sua storia, quando un gruppo di valorosi cittadini intervenne al fianco del re Ferdinando Ferrante I d’Aragona

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ella notte fra il 6 e il 7 luglio 1460 cinquecento militi di Cava de’ Tirreni, cittadina nell’entroterra della costiera amalfitana, accorsero in aiuto di re Ferdinando Ferrante I d’Aragona, che nella battaglia di Sarno per il possesso del trono del regno di Napoli stava per soccombere contro l’esercito del cugino, Giovanni d’Angiò. Secondo la leggenda, l’aiuto del popolo cavoto fu determinante e il sovrano aragonese, per esprimere la propria gratitudine, inviò alla municipalità di Cava una pergamena firmata in bianco, affinché la cittadina campana potesse presentargli qualsiasi richiesta. Quel documento, che non fu mai compilato, è tuttora conservato nel Palazzo di Città. Ogni anno, nella prima domenica di luglio, in occasione dei festeggiamenti in onore del Santissimo Sacramento, la Pergamena Bianca rappresenta il premio simbolico della Disfida fra i trombonieri degli otto casali cittadini di Sant’Anna, Sant’Anna all’Oliveto,

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Monte Castello, Borgo ScacciaventiCroce, Santissimo Sacramento, Filangieri, Senatore, Santa Maria del Rovo (che appartengono agli antichi quattro Distretti in cui fu divisa Cava alla fine del XIII secolo: Sant’Adjutore, Mitilianum, Corpo di Cava e Pasculanum).

Spari a tempo Ogni casale è formato da un capitano, 36 trombonieri (piú 4 di riserva), 20 tamburini, 8 chiarine, 8 sbandieratori e un portastendardo; durante l’esibizione si sistema su una piazzola e, una volta ultimate le operazioni di caricamento, al comando del proprio capitano i trombonieri aprono il fuoco in ordine progressivo. Il tempo ottimale fra il primo e l’ultimo sparo è stabilito in 75 secondi. La Pergamena Bianca viene assegnata da una giuria che si avvale di tre cronometristi incaricati di rilevare i tempi di caricamento e di tutte le esecuzioni di sparo. Per proclamare il gruppo vincitore, viene adottata

Cava de’ Tirreni. Due immagini della Disfida dei Trombonieri. una tabella di punteggi che prevede, fra le varie situazioni, una penalità massima di 50 punti per ogni mancato sparo o per uno sparo eseguito non nell’ordine di fila. Quest’anno la 39ª Disfida dei Trombonieri si svolgerà alle 19,00 di domenica 7 luglio allo Stadio «Simonetta Lamberti». Nella settimana successiva, il centro storico di Cava de’ Tirreni sarà animato da cortei storici, esibizioni di sbandieratori e altri spettacoli medievali; le rievocazioni si chiuderanno domenica 14 luglio, in piazza San Francesco, con la suggestiva consegna della Pergamena Bianca al casale vincitore. Protagonista di questa rievocazione è dunque il trombone, una sorta di archibugio, dal quale si differenzia per la lunghezza della canna, piú corta e piú larga verso la bocca, tanto da somigliare a una tromba. Questo tipo di imboccatura consentiva un facile caricamento anche di notte, senza spreco di polvere. A Cava de’ Tirreni il trombone rappresentava la principale arma ad avancarica del XVI secolo e veniva chiamato anche pistone, per il suo modo di caricamento nella canna, dove veniva «pestata» la polvere nera composta da salnitro, zolfo e carbone. Tiziano Zaccaria luglio

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Ante prima

Nozze principesche appuntamenti • La cittadina

bavarese di Landshut rivive il fastoso sposalizio tra Giorgio di Wittelsbach e Jadwiga Jagellona, celebrato nel 1475

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el 1450 Ludovico IX, detto il Ricco, salí sul trono del ducato di Baviera-Landshut. Uomo di guerra (nel 1462 nella battaglia di Giengen sconfisse Alberto III Achille di Brandeburgo, che aveva cercato di estendere la propria influenza

Due momenti delle Landshuter Hochzeit 1475, che animano la cittadina bavarese di Landshut. in Franconia), ma anche di cultura (nel 1472 fondò l’Università di Ingolstadt), Ludovico IX è passato alla storia in particolare per il matrimonio del figlio primogenito Giorgio con la principessa polacca Jadwiga Jagellona, celebrato nel 1475 a Landshut.

Diplomazia «matrimoniale» In un periodo di grandi mutamenti, queste nozze furono il risultato della mediazione diplomatica voluta dallo stesso imperatore del Sacro Romano Impero Federico III e furono molto piú di una festa di famiglie reali europee. Nel 1474 gli ambasciatori del ducato di Baviera-Landshut avevano negoziato lo sposalizio con la corte reale di Cracovia; la promessa sposa Jadwiga, figlia di Casimiro IV, re di Polonia, partí con un seguito numeroso e, dopo un viaggio di due mesi, fu accolta con grandi onori a Landshut. Qui Ludovico IX dichiarò l’unione «voluta dalla provvidenza per il bene del cristianesimo e del Sacro Romano Impero»: in quegli anni erano infatti forti le tensioni con l’impero ottomano, che aveva

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conquistato la vicina Ungheria e rappresentava un pericolo crescente. Nella cattedrale di S. Martino l’arcivescovo di Salisburgo celebrò la cerimonia nuziale alla presenza dello stesso Federico III, dopodiché diecimila ospiti banchettarono e festeggiarono. Oggi le «Landshuter Hochzeit 1475» («Le nozze principesche del 1475»), vengono rievocate ogni quattro anni a Landshut, cittadina bavarese nota anche come Dreihelmenstadt («Città dei tre elmi»), dal simbolo municipale che rappresenta appunto tre elmi utilizzati dalla milizia cittadina in età medioevale. Quest’anno la rievocazione si sviluppa dal 28 giugno al 21 luglio. Nel suggestivo scenario di questa magnifica città gotica, circa duemila figuranti in costume animeranno un fitto calendario di appuntamenti, con gli eventi principali concentrati nei quattro week end. Cortei storici, feste e concerti musicali nel cortile della residenza ducale, giostre cavalleresche daranno vita a una delle piú imponenti rievocazioni medievali d’Europa. T. Z. luglio

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Viva la libertà! P

er la Repubblica di San Marino evocare il Medioevo significa esprimere la propria essenza. È infatti durante l’Età di Mezzo che la piccola comunità religiosa – fondata dal santo Marino, secondo la tradizione, nel 301 a.C. – evolve in uno Stato organizzato, dapprima denominato Comune e successivamente Repubblica, dando vita alle istituzioni che ancora oggi ne rappresentano il cuore pulsante. La capitale, arroccata sul Monte Titano, e circondata da tre ordini di mura costruite tra l’XI e il XIV secolo, ha mantenuto pressoché inalterata la propria struttura attraverso i secoli. Rappresenta perciò uno scenario unico, inserito dal 2008 nella Lista del Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. Un palcoscenico naturale di rara suggestione per un fantastico viaggio nel tempo, che culmina nelle Giornate Medioevali, in scena dal 25 al 28 luglio. Un’avventura avvincente fatta di suoni, colori, profumi e sapori, uniti per creare atmosfere impalpabili che avvolgono le contrade, le piazze e gli angoli piú remoti della città vecchia. Dalla sua posizione privilegiata – il punto piú alto è situato a 750 m sul livello del mare – la città offre splendide vedute sulla riviera adriatica e sui sinuosi rilievi del Montefeltro.

Spettacoli, giochi e scene di vita quotidiana

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Gran finale con le balestre Come sempre, la serata finale è dedicata al tiro con la balestra, una tradizione radicata nella storia secolare della Repubblica e magistralmente ripresa nel 1956 con la costituzione della Federazione Sammarinese Balestrieri. Dalle locande si spandono profumi soavi: sono i piatti appositamente preparati per l’occasione, ispirati a ricette del XIV e XV secolo, serviti alla maniera medioevale. Ancora una volta, nella fioca e tremolante luce delle torce che proiettano ombre misteriose sulle antiche mura, seguendo il ritmo cadenzato dei tamburi, San Marino ritrova il suo passato. Le Giornate Medioevali rappresentano una splendida occasione per un soggiorno in Repubblica. Per saperne di piú: Ufficio di Stato per il Turismo; tel. 0549 882914; e-mail: info@visitsanmarino.com; www.visitsanmarino.com

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informazione pubblicitaria

Guarnigioni, duelli, saltimbanchi, giullari e musici si avvicendano lungo le strette e ripide vie, contornate dalla pietra arenaria dei vecchi palazzi. Di fronte alla Basilica che conserva le reliquie del Santo, nel luogo in cui sorgeva l’antica pieve, gli arcieri riorganizzano le Cerne, l’ingegnoso sistema difensivo che ha saputo preservare, in epoca di conflitti e invasioni, il bene piú caro al popolo

del Titano, la libertà. La Guaita, la fortezza piú antica, probabilmente già in essere prima del Mille, riacquista la sua funzione di posto di guardia e luogo di protezione per la popolazione. A renderla viva sono i giochi dei fanciulli, le attività domestiche e artigianali, le gesta degli armigeri che si addestrano per difendere l’inviolabilità della Torre, definita da Benvenuto da Imola Mirabile Fortilitium. Al calare del sole, il cuore della festa è presso la Cava dei Balestrieri, suggestivo anfiteatro scavato nella roccia. Le luci e gli animi si accendono, l’emozione sale e ha inizio lo spettacolo principale, quello piú atteso. I gruppi storici sammarinesi portano in scena vicende legate alla storia del paese, mentre prestigiosi ospiti da città storiche vicine e lontane completano il quadro fornendo una visione di ampio respiro.


agenda del mese

a cura di Stefano Mammini

Mostre zurigo ANIMALI. Animali reali e fantastici dall’antichità all’epoca moderna U Museo nazionale fino al 14 luglio

Il successo che le loro storie riscuotono nel cinema e nella cultura popolare dimostra quanto gli animali, reali o fantastici, siano saldamente ancorati nel nostro immaginario. La mostra allestita a Zurigo ripercorre una storia millenaria che ha visto trasformarsi miti e leggende. Imponenti arazzi provenienti da palazzi reali, pregiate sculture in avorio conservate in gabinetti

di curiosità, nonché opere di oreficeria antica prodotte in area mediterranea rievocano le proprietà e il simbolismo associati a determinati animali. info www.animali. landesmuseum.ch versailles Tesoro del Santo Sepolcro. Doni delle corti reali europee a Gerusalemme U Castello, Sala delle Crociate fino al 14 luglio

La mostra riunisce oltre

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250 oggetti e opere d’arte, provenienti da un tesoro voluto per esaltare lo splendore della basilica del Santo Sepolcro, nonché di quelle di Betlemme e di Nazareth, e formatosi grazie ai doni inviati nei Luoghi santi dai piú importanti re d’Europa. Un insieme, quindi, assai variegato, nel quale sono confluiti manufatti assai diversi per provenienza, stile e ambito cronologico: solo per fare un esempio, si va da smalti limosini del XII secolo a una ancor piú antica campana di fabbricazione cinese. Dalla fine del XIV secolo, il fenomeno si intensifica e, limitandoci alle sole donazioni di origine regale, giungono in Terra Santa lampade in oro e argento, candelabri, vasi liturgici impreziositi da smalti e pietre preziose, paramenti sacri… Un tesoro spettacolare, i cui rappresentanti, oltre che a Versailles, sono attualmente esposti anche

nella Maison de Chateaubriand a Châtenay-Malabry. info www. chateauversailles.fr Firenze Percorsi di meraviglia. Opere restaurate del Bargello U Museo Nazionale del Bargello fino al 18 agosto

Protagonista della mostra è il monumentale arazzo quattrocentesco raffigurante l’Assalto finale a Gerusalemme, tornato a splendere

dopo il restauro. Databile intorno al 1480, l’arazzo, prodotto dalla manifattura di Tournai, giunse al Bargello nel 1888, in seguito alla donazione della Collezione Louis Carrand. Imponente per dimensioni (4,32 x 4,02 m) e spettacolare per la vivacità narrativa e cromatica, fu realizzato su un cartone attribuito al Maestro di Coetivy, miniatore noto anche come pittore e disegnatore di vetrate. L’opera è esposta insieme a quattro valve di specchio in avorio trecentesche, di arte francese, e a oreficerie e smalti, di grande varietà e di grande pregio artistico, sempre appartenenti alla raccolta di arti applicate del Bargello, restaurate negli ultimi due anni. Una seconda sala è invece dedicata al grande altorilievo in terracotta policroma raffigurante la Madonna in trono col Bambino e angeli, risalente al 1420, realizzato da Dello Delli. info tel. 055 2388606;

e-mail: museobargello@ polomuseale.firenze.it; www.polomuseale.firenze.it

Firenze La Primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400-1460 U Palazzo Strozzi fino al 18 agosto

In undici sezioni, la mostra documenta la genesi del Rinascimento nel capoluogo toscano, soprattutto attraverso la scultura. Partendo dalla riscoperta dell’antico nella

«rinascita» che, a cavallo tra Duecento e Trecento, ebbe come protagonisti Nicola Pisano e Arnolfo di Cambio, si passa all’assimilazione della ricchezza espressiva del Gotico, di derivazione francese, per giungere, infine, all’alba del Rinascimento; il tema è esplicitato nella prima parte del percorso dove troviamo le due formelle «di prova» con il Sacrificio di Isacco di Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi eseguite per il concorso indetto nel 1401 per la luglio

MEDIOEVO


seconda porta del Battistero fiorentino e il modello della Cupola brunelleschiana. È nei luoghi di solidarietà e di preghiera come chiese, confraternite e ospedali che si concentra la committenza artistica piú prestigiosa, creando un connubio perfetto tra Bellezza e Carità. Attorno al simbolo della città, il modello ligneo della cupola di S. Maria del Fiore del Brunelleschi, il percorso espositivo presenta tipologie scultoree determinanti anche per l’evoluzione delle altre arti figurative, a diretto confronto con i classici. info tel. 055 2645155; www.palazzostrozzi.org New York La ricerca dell’unicorno U The Metropolitan Museum of Art, The Cloisters fino al 18 agosto

The Cloisters, la sezione del Metropolitan Museum of Art di New York dedicata all’arte e all’architettura dell’Europa medievale, compie 75 anni e, per festeggiare la ricorrenza, propone una mostra sul tema dell’unicorno. L’esposizione riunisce una quarantina di opere, selezionate fra quelle della collezione permanente del Met e ottenute in prestito da istituzioni pubbliche e private. Si tratta di autentici capolavori, tra i quali possiamo ricordare il magnifico ciclo degli arazzi

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luglio

Buoninsegna sul retro della grande pala d’altare con la Maestà realizzata per il Duomo di Siena tra il 1308 e il 1311. info tel. 0577 286300: e-mail: opasiena@ operalaboratori.com; www.operaduomo.siena.it Chieti

dell’Unicorno, una serie di sette tessuti, realizzati forse a Bruxelles (o Liegi), tra il 1495 e il 1505 e considerati come una delle piú alte espressioni dell’arte tardo-medievale, un prezioso bestiario scritto e miniato in Inghilterra prima del 1187, e un desco da parto – un tondo dipinto su entrambi i lati che veniva offerto come dono cerimoniale alle donne delle famiglie piú abbienti che avevano appena partorito – di produzione fiorentina, sul quale compare una coppia di unicorni che tirano una carrozza dorata, simbolo di castità. info www.metmuseum.org Siena RESURREXI. Dalla Passione alla Resurrezione U Cripta e Museo dell’Opera fino al 31 agosto

L’itinerario si sviluppa principalmente in due sedi: nella Cripta, un ambiente interamente affrescato, e nel Museo dell’Opera istituito nel 1860 per conservare i capolavori provenienti

dalla cattedrale. Il ciclo figurativo che si dispiega lungo le pareti della Cripta annovera episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Nelle suggestive sale attigue all’ambiente affrescato, dove si ammirano parte delle antiche strutture della basilica, riconducibili al periodo che va dal XII al XIV secolo, sono esposti alcuni codici

miniati provenienti dalla cattedrale e appartenenti alla liturgia pasquale. Uscendo dalla Cripta, e attraversando l’antico portale gotico del Duomo Nuovo, si giunge al Museo dell’Opera, dove, al primo piano di una sala climatizzata, è possibile ammirare le Storie della Passione dipinte da Duccio di

Illuminare l’Abruzzo. Codici miniati tra Medioevo e Rinascimento U Museo Palazzo de’ Mayo fino al 31 agosto

La miniatura è una delle espressioni artistiche che hanno maggiormente caratterizzato l’Età di Mezzo, tanto da esserne diventata, oggi, una delle icone. La mostra allestita a Chieti non si limita però a esaltare ancora una volta solo il valore estetico di queste

raffigurazioni, ma documenta una realtà ben circoscritta, cioè quella della produzione libraria miniata affermatasi in Abruzzo tra l’XI e il XIV secolo, e, soprattutto, presenta materiali spesso inediti, nonché, in un caso, miniature recuperate sul mercato antiquario – al quale erano approdate in seguito al trafugamento – e

salvate dalla dispersione. Grazie ai prestiti concessi da istituzioni pubbliche, ecclesiastiche e private italiane e straniere, è stato possibile riunire una settantina di opere che dunque documentano la vivacità della produzione abruzzese, che ebbe tra i suoi

centri di produzione principali lo scriptorium della cattedrale di S. Giustino a Chieti, oppure quelli di S. Liberatore alla Maiella, S. Clemente a Casauria e S. Maria della Vittoria presso Scurcola Marsicana. info tel. 0871 359801; e-mail: info@ fondazionecarichieti.it; www.fondazionecarichieti.it Montepulciano Il Boccaccio inciso. La vita e le opere. Gli ex libris di 73 artisti illustrano e narrano U Museo Civico e Pinacoteca Crociani fino all’8 settembre (dal 6 luglio)

La Società Bibliografica Toscana, si è inserita nel complesso delle manifestazioni organizzate nel presente anno per il VII

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agenda del mese centenario della nascita di Giovanni Boccaccio, allestendo una mostra itinerante di ex libris, aventi come soggetto il Boccaccio e le sue opere, commissionati per l’occasione ad alcuni artisti. In questo modo, la SBT ha voluto non limitarsi a riflettere, come accaduto in precedenti occasioni sulle fortune editoriali delle opere dell’autore festeggiato, con un’esposizione «effimera», ma compiere un’operazione che generasse una produzione artistica la cui durata nel tempo andrà ben oltre il periodo espositivo, in quanto gli ex libris resteranno nelle collezioni dei soci della SBT che li hanno commissionati. Dopo la tappa di Montepulciano, l’esposizione approderà a Certaldo, città natale di Boccaccio, dal 14 settembre al 12 ottobre. info tel. 0578 717300 Roma Costantino 313 d.C. U Colosseo fino al 15 settembre

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Dopo essere stata presentata a Milano, giunge a Roma la grande rassegna che celebra l’anniversario dell’emanazione, nel 313 d.C., dell’Editto di Milano da parte dell’imperatore romano d’Occidente Costantino e del suo omologo d’Oriente, Licinio. Con esso il cristianesimo, dopo secoli di persecuzioni, veniva dichiarato lecito e si inaugurava cosí un periodo di tolleranza religiosa e di grande innovazione politica e culturale. info tel. 06 39967700; www.pierreci.it Fano Guido Reni, La consegna delle chiavi. Un capolavoro ritorna U Pinacoteca San Domenico fino al 29 settembre

Le stanze della Pinacoteca accolgono la Consegna delle Chiavi, tela dipinta da Guido Reni per l’altare maggiore della chiesa fanese di S. Pietro in Valle, confiscata in epoca napoleonica, e oggi al Musée du Louvre di Parigi. L’opera

è accompagnata da altri due prestigiosi capolavori del pittore bolognese, due Annunciazioni, una realizzata per la chiesa di S. Pietro in Valle e oggi nella Pinacoteca Civica del Palazzo Malatestiano, e l’altra proveniente da Ascoli Piceno. Guido Reni (1575-1642) rappresenta uno degli esponenti di spicco del barocco italiano, e la mostra, oltre a costituire un’occasione imperdibile per ammirare uno dei suoi maggiori capolavori, recuperato, seppur temporaneamente, dopo quasi tre secoli di assenza dal territorio italiano, costituisce altresí una testimonianza del mecenatismo culturale del patriziato marchigiano nel corso del diciassettesimo secolo, nel momento in cui diversi aristocratici iniziano a mostrare interesse nei confronti della produzione artistica dei maggiori

esponenti della scuola emiliano-bolognese, quali Ludovico Carracci, Domenichino, Guercino, Tiarini, Geminiani, Simone Cantarini e Guerrieri. Per tutta la durata della mostra è stato predisposto un itinerario guidato alla scoperta delle opere del Seicento fanese. info tel. 0721 802885; www.fondazionecarifano.it

presso il Medagliere del Museo Nazionale Romano, mentre la fibula fu affidata al Museo Nazionale dell’Alto Medioevo. L’accorpamento tra le Soprintendenze Archeologiche di Ostia e Roma ne ha favorito la riunificazione, in attesa di una sua definitiva sistemazione. Le fibule erano impiegate per la chiusura di capi di vestiario e di mantelli, costituendo un elemento di continuità con l’abbigliamento dei tempi piú antichi, sia femminili che maschili. In questo caso la preziosità dell’oggetto e la sua squisita fattura, memore della precedente tradizione classica, fanno pensare a una committenza di alto rango. Le monete che compongono il gruzzolo rappresentano uno spaccato della

roma Il Tesoretto di Montecassino U Museo Nazionale dell’Alto Medioevo fino al 30 settembre

È la prima esposizione del cosiddetto Tesoretto di Montecassino, costituito da una fibula aurea e da 29 monete d’oro databili tra i secoli XI-XII. Proviene dal Lazio meridionale, ove fu rinvenuto nel 1898, presso la Badia di Cassino. Il prezioso insieme fu quindi separato: le monete vennero depositate

monetazione aurea dei Normanni di Sicilia. Si tratta di 29 tarí in oro emessi dalle zecche siciliane di Palermo e Messina sotto tutti i signori normanni che in quegli anni si sono avvicendati. info tel. 06 54228199 luglio

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firenze Nello splendore mediceo. Papa Leone X e Firenze U Museo delle Cappelle Medicee fino al 6 ottobre

La rassegna celebra Leone X, primo papa di casa Medici, a cinquecento anni dall’elezione al soglio pontificio. La mostra segue la vita di Giovanni, figlio secondogenito di Lorenzo il Magnifico,

dalla nascita a Firenze, nel 1475, fino al 9 marzo 1513, quando venne eletto papa, e al suo breve ritorno in patria nel 1515. Uno dei capitoli salienti del percorso è quello in cui si rievocano il pontificato di Leone X e i suoi riflessi su Roma. Gli anni del papato leonino furono celebrati come una nuova «età dell’oro», in cui la capitale della cristianità poté rivivere per opera non solo di artisti, ma anche di poeti e di umanisti, le istanze del mondo classico. Sono gli anni in cui si iniziarono o si proseguirono le grandi fabbriche dell’Urbe: fra le altre la basilica di S. Pietro, mentre Raffaello dette seguito a imprese

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luglio

pittoriche straordinarie. info www.polomuseale. firenze.it Pieve di Cadore Tiziano, Venezia e il papa Borgia U Palazzo COSMO fino al 6 ottobre

La si potrebbe definire una mostra dossier, una mostra indagine, una potente lente di ingrandimento attraverso la quale il pubblico può penetrare nei diversi aspetti storici, stilistici, compositivi, iconografici di un’opera chiave degli inizi della carriera del grande Tiziano Vecellio. Un modo affascinante e insolito di cogliere i significati e i processi creativi che stanno «dietro» e «dentro» un capolavoro. L’esposizione vuole essere il racconto, assolutamente inedito, di quella notissima e fondamentale opera, conservata al Museum voor Schone Kunsten di Anversa, in cui Tiziano dipinge «Il vescovo Jacopo Pesaro e papa Alessandro VI davanti a San Pietro». Un’opera che ora si conosce meglio, grazie alla recente pulitura e alle preliminari indagini e che – dopo tanti tentativi compiuti negli anni passati – è prestata in Italia per la prima volta solo in occasione degli eventi tizianeschi di questa stagione. info tel. 0435-212170; www.tizianovecellio.it perugia RAFFAELLO E PERUGINO. Modelli nobili per Sassoferrato a

Perugia U Nobile Collegio del Cambio fino al 20 ottobre

La mostra, che propone il confronto fra tre grandi maestri – Perugino, Raffaello e Sassoferrato –, è la prima importante estensione fuori dalla Toscana del progetto «La città degli Uffizi». Per Raffaello si tratta di un ritorno a Perugia, che avviene attraverso il celeberrimo Autoritratto (dipinto tra il 1504 e il 1506), capolavoro collocato nella Sala dell’Udienza del Nobile Collegio, la stessa che, con il suo maestro

Perugino, lo vide all’opera, probabilmente come semplice collaboratore, agli esordi della carriera. Insieme al suo Autoritratto giungono dagli Uffizi quello del suo maestro, il Perugino appunto, e quello non meno straordinario di un artista posteriore che ai due ispirò il proprio lavoro, ovvero Giovan Battista Salvi detto il Sassoferrato. Un gioco di autoritratti in cui si esemplifica la nuova consapevolezza degli artisti del Rinascimento. info tel. 075 5728599

Tivoli Cacce principesche. L’arte venatoria nella prima età moderna U Villa d’Este fino al 20 ottobre

Le sale della villa tirburtina ospitano oltre sessanta opere, rare e talvolta inedite (dipinti, sculture, armi, utensili e stampe) inerenti alle cacce principesche, praticate nelle corti italiane tra il Cinque e il Settecento. Manifestazione del potere e dell’eleganza delle élite di tutta Europa, la caccia fu, sin dal Medioevo, uno dei piú importanti momenti di aggregazione sociale. La mostra trova una sede eccezionale a Villa d’Este, decorata con temi venatori già nei primi decenni del Seicento dalla scuola di Antonio Tempesta. Inoltre, la villa, il suo parco e i boschi circostanti furono, sin dal primo Cinquecento, i palcoscenici delle leggendarie cacce degli Estensi e dell’aristocrazia papale. info tel. 0774 335850; www.villadestetivoli.info

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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battaglie belgrado

Luglio 1456

di Federico Canaccini

Non passa

l’ottomano All’indomani della conquista di Costantinopoli, la potenza ottomana sembra non avere rivali e Maometto II decide di fare breccia anche in Europa. L’avanzata è inesorabile e le truppe del sultano sono a un passo dal dilagare. Ma, sotto le mura di Belgrado, le forze guidate dall’ungherese Janos Hunyadi riescono a resistere a un lungo assedio e sventano la minaccia che aveva tenuto l’Occidente con il fiato sospeso...

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avanzata turco-ottomana in Occidente è legata, almeno nell’immaginario collettivo, a tre grandi e celebrati episodi militari: la caduta di Bisanzio nel 1453, la battaglia navale di Lepanto del 1571, vinta dalla flotta cristiana, e il fallito assedio turco di Vienna nel 1683. Un episodio meno noto di questo lungo confronto tra l’Occidente cristiano e l’Oriente ottomano, è la battaglia di Nàndorfehèrvàr, il fallito assedio di Belgrado che, seppur temporaIl sacrificio di Titus Dugovics, olio su tela di Sandor Wagner. 1859. Budapest, Galleria Nazionale Ungherese. Nelle fasi finali dell’assedio di Belgrado, i Turchi erano riusciti a salire sulle mura e a issare il proprio vessillo, ma Dugovics, un soldato serbo, si lanciò contro di loro e, conscio di non poterli soverchiare, si gettò nel vuoto trascinando con sé la bandiera nemica.

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battaglie belgrado l’espansione ottomana 1301 Battaglia di Bafeo (presso Nicomedia). 1326 Conquista di Bursa, nuova capitale dello Stato ottomano. 1331 Conquista di Nicea. 1346 Orhan sposa Teodora figlia del basileus Giovanni VI Cantacuzeno. 1354 Conquista di Gallipoli in Tracia. 1360-1365 Conquista di Adrianopoli e trasferimento della capitale. 1371 Battaglia sulla Marizza; Bisanzio diviene Stato vassallo degli Ottomani. 1389 Battaglia della Piana dei Merli (Kosovo); Murad I cade sul campo. 1390-1400 Annessione degli emirati dell’Anatolia occidentale. 1391 La Serbia diviene Stato vassallo ottomano. 1394-1402 Assedio di Costantinopoli da parte di Bayazid I. 1394 Occupazione ottomana di Tessalonica. 1396 Vittoria sui crociati a Nicopoli. 1397 Sottomissione dell’emirato di Karaman nell’Anatolia centro-meridionale. 1402 Sconfitta di Ankara; Bayazid I prigioniero di Tamerlano; gli emirati anatolici riacquistano l’indipendenza. 1402-1413 Interregno: i figli di Bayazid I lottano per il potere. 1422 Murad II assedia Costantinopoli e Tessalonica. 1425 ca. Riconquista degli emirati dell’Anatolia occidentale. 1430 Conquista di Tessalonica. 1438-1439 Campagna contro la Serbia. 1444 Vittoria sui crociati a Varna. 1453 Conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II. 1456 Fallito assedio di Belgrado. 1458-1460 Conquista del Peloponneso. 1459 Annessione della Serbia. 1461 Conquista del Regno di Trebisonda. 1463-1479 I guerra veneto-ottomana. 1463 Annessione della Bosnia. 1468-1474 Annessione dell’emirato di Karaman. 1480 Fallito assedio di Rodi. 1480 Conquista di Otranto, persa l’anno seguente. 1485-1491 Guerra ottomano-mamelucca. 1499-1503 II guerra veneto-ottomana. 1514 Conquista dell’Anatolia orientale e dell’Azerbaigian. 1515 Conquista del Kurdistan. 1516-1517 Annessione della Siria e dell’Egitto. 1521 Conquista di Belgrado. 1522 Conquista di Rodi. 1526 Battaglia di Mohács; fine del Regno di Ungheria e inizio della rivalità tra Ottomani e Asburgo. 1529 Fallito assedio di Vienna. 1571 Sconfitta a Lepanto.

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Macchine belliche

La bombarda di Urban Si narra che, poco prima dell’assedio di Costantinopoli, un cristiano di nome Urban, fonditore di pezzi di artiglieria, di origine ungherese o sassone, avesse disertato per mettersi al servizio del sultano. Maometto II gli chiese di realizzare, in tre mesi appena, un cannone capace di fare breccia nelle mura di Costantinopoli. Dopo tre mesi, Urban invitò il sultano a una dimostrazione, centrando, a grande distanza, una nave cristiana alla fonda nel Bosforo. Impressionato da tale successo, Maometto gli richiese un cannone grande il doppio del precedente. Il disertore realizzò cosí una bombarda di dimensioni colossali, in grado di sparare proiettili in pietra del peso di oltre 600 kg e che, per essere messa in posizione e armata, richiedeva l’impiego di ben 60 buoi e oltre 400 uomini. Prima d’essere trasportata dinnanzi alle mura di Bisanzio, la macchina fu provata presso Adrianopoli. Il suo boato fu sentito a chilometri di distanza e il proiettile sparato, affondò per oltre 2 m nel terreno. Ma l’arma di distruzione di Urban ebbe vita breve: esplose, infatti, presso la Porta di san Romano, al secondo giorno di assedio. A sinistra miniatura raffigurante l’assedio di Costantinopoli del 1453 da parte delle truppe ottomane, dal Voyage d’Outremer di Bertrardon de la Broquière. 1458 (?). Parigi, Bibliothèque nationale de France.

neamente, impedí di fatto alle forze turche di giungere senza ostacoli fino al cuore d’Europa. Agli inizi del XV secolo i Turchi ottomani, dopo aver preso il controllo dell’impero musulmano al posto degli Arabi, rivolsero le loro mire verso l’Occidente. Gli Ottomani, che in origine erano una modesta tribú nomade, si erano stabiliti a Bursa, forti delle loro doti di arcieri a cavallo. Agli inizi del Trecento già controllavano lo stretto dei Dardanelli e, quindi, i traffici commerciali sul Mar Nero. Un secolo piú tardi Costantinopoli era ormai accerchiata dai Turchi e solo l’espansione di Tamerlano a est impedí agli Ottomani di concentrarsi su tale obiettivo. Ma si trattò solo di un rinvio. Sbarcati in Europa, infatti, gli Ottomani occuparono nel 1431 l’Albania e, nel 1446, sottomisero l’intero Peloponneso. Il 10 novembre del 1444, presso

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In alto monastero di Moldovita (Romania), chiesa dell’Annunciazione. Particolare dell’affresco di Toma di Suceava raffigurante l’assedio di Costantinopoli. 1537. Si riconoscono le micidiali bombarde dell’esercito turco.

Varna, l’esercito cristiano, mobilitato per fermare la nuova avanzata turca, venne sonoramente sconfitto. Il sultano Murad II riportava la sua piú grande vittoria. Sbaragliando le truppe cristiane, aveva in pratica ottenuto libero accesso ai Balcani. Adrianopoli divenne la nuova capitale dell’impero ottomano, la prima fondata su suolo europeo.

L’Europa ha paura

Enorme fu l’impressione suscitata in Occidente da una simile e rapidissima espansione. I traffici commerciali erano ora piú difficoltosi e un nuovo vento di crociata attraversò l’Europa; ma la risposta a ta-

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battaglie belgrado Kijev

L’ESPANSIONE OTTOMANA NEI SECOLI XIV-XVII PODOLIA

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Conquiste di Maometto II (1451-1481)

le chiamata fu molto debole. Cosí, alla metà del XV secolo, dell’impero romano d’Oriente rimaneva soltanto la penisola su cui sorgeva l’antica capitale bizantina, l’attuale Istanbul. Nel 1451, quando salí al potere il sultano Maometto II, piú tardi detto «il Conquistatore» (vedi box alla pagina accanto), i tempi erano ormai maturi per attuare quello che non appariva piú come un progetto irraggiungibile: conquistare Bisanzio. Dopo aver occupato la sponda europea del Bosforo e aver concluso vittoriosamente la conquista della Tracia, il sultano mobilitò tutte le

1516

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Territori ottomani nel 1451

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EGITTO

Conquiste di Bayazid II e Selim I (1500-1520) Conquiste di Solimano il Magnifico (1520-1566)

sue truppe per sferrare l’attacco alla «Nuova Roma», quella Costantinopoli fondata e battezzata cosí 1000 anni prima dal suo ideatore, l’imperatore Costantino.

Gli Ottomani nel Bosforo

Nel 1452 il sultano fece edificare una serie di fortilizi lungo lo stretto del Bosforo cosí da rendere impossibile qualsiasi traffico con la metropoli cristiana. E, un anno piú tardi, il 2 aprile, giunse in vista delle mura di Costantinopoli, con una flotta di oltre 150 navi da guerra e piú di 150 000 uomini armati. Maometto II fece costruire enormi pezzi d’ar-

Ni

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Conquiste nel 1566-1683

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Data di conquista o sottomissione

Confine dell’impero

Nella pagina accanto il sultanto ottomano Maometto II, detto il Conquistatore, in una miniatura tratta dall’opera Foggie diverse et vestire de Turchi. XVII sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

tiglieria a ingegneri cristiani (vedi box a p. 33) sottomessi dai Turchi, e, dal 6 aprile, ordinò che la città fosse accerchiata. Furono abbattute fortificazioni millenarie e innalzate palizzate di legno. L’imperatore bizantino, Costantino XI Paleologo, aveva raccolto poco piú di 10 000 armigeri e gli (segue a p. 38) luglio

MEDIOEVO


maometto ii

Il sultano che voleva farsi imperatore Maometto II (1432-1481) viene spesso ricordato col titolo di El-Fatih, «il Conquistatore». Fu sultano dell’impero ottomano dal 1444 al 1446, e, piú tardi, dal 1451 al 1481. Fu il primo ad accostare il titolo occidentale di «cesare» accanto a quelli piú consoni di «sultano» (sovrano di uno Stato musulmano) o di khan, legato alla dominazione turca. Nel corso del suo primo regno, in vista della battaglia di Varna (che si concluse con la disfatta cristiana), Maometto scrisse al padre, Murad II (che aveva abdicato in suo favore), chiedendogli di riprendere il trono per combattere i cristiani. Ma Murad rifiutò, poiché da tempo aveva scelto di trascorrere una vita contemplativa e lontana dai fragori della guerra. Con una seconda e perentoria lettera, però, il figlio convinse il padre a mettersi nuovamente a capo delle truppe: «Se tu sei il sultano – scrisse Maometto – vieni e conduci le tue armate. Se invece il sultano sono io, allora ti ordino di raggiungermi e di condurre qui le mie armate!». Nella piana di Varna, nel novembre 1444, fu dunque Murad II, nuovamente sultano, a condurre le truppe ottomane che sconfissero la coalizione cristiana guidata da Ladislao III. Sconfitto a Jalowaz, però, Murad fu costretto ben presto ad abdicare. Due anni dopo aver ripreso nuovamente il titolo di sultano (1451), Maometto II pose fine all’impero bizantino, conquistando Costantinopoli (1453) e altre città in Anatolia e nei Balcani. Il suo regno, perlopiú ricordato per la presa della città sul Bosforo, fu anche caratterizzato dalla tolleranza dimostrata verso gli sconfitti, in particolare verso i Bizantini. Pur concedendo una certa autonomia alle diverse comunità religiose presenti a Bisanzio, Maometto prese a rimodellare la città per farla divenire la capitale turca, cosí come sarebbe poi rimasta sino al 1920. Questo anche perché il sultano si considerava l’erede al trono dell’impero romano, che aveva tecnicamente conquistato con la presa di Costantinopoli, e perciò adottò il titolo di «Kayser-i Rum» e, perseguendo questo programma, invase l’Italia nel 1480. L’obiettivo era quello di conquistare Roma e riunificare l’antico impero sotto la mezzaluna e, sulle prime, sembrò che il suo progetto potesse davvero concretizzarsi, dopo aver preso, con relativa facilità, il porto di Otranto. Ma, nello stesso, anno una ribellione in Albania lo costrinse a richiamare parte dell’esercito, e le truppe rimaste furono soverchiate l’anno seguente dalle milizie cristiane raccolte dal papa.

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luglio

Nell’amministrazione proseguí la via tracciata dai Bizantini. Maometto II si circondò di intellettuali cristiani, italiani e greci, commissionando a Gentile Bellini da Venezia il proprio ritratto. Uomo di grande cultura, sembra che conoscesse e parlasse sette lingue già a 21 anni, quando conquistò Costantinopoli. Riordinò per la prima volta il diritto penale e costituzionale, precedendo, quindi, il piú noto Solimano il Magnifico. Morto nel 1481, fu sepolto nella Moschea Fatih di Istanbul, dove il suo sepolcro è tuttora conservato.

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battaglie belgrado Xilografia raffigurante Janos Hunyadi e Giovanni da Capestrano che combattono contro i Turchi a Belgrado, da un originale di Gustave Doré. 1877. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la battaglia di Varna, combattuta nel 1444 tra le forze turche e un’alleanza cristiana, che venne sbaragliata, dal Tadj al-Tawarikh (La Corona degli Annali). 1616. Parigi, Musée Jacquemart-André.

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Janos Hunyadi

Lo spauracchio dei Turchi Il condottiero ungherese Janos Hunyadi nacque intorno al 1387 da una nobile famiglia valacca. Da giovanissimo, iniziò a servire il re Sigismondo, che accompagnò a Francoforte per l’incoronazione nel 1410. Piú tardi, nel 1437, quando riuscí a respingere i Turchi, Sigismondo lo ricompensò donandogli terre e dandogli la possibilità di sedere al consiglio di corte; nel 1438 lo nominò anche Ban (una sorta di governatore) della frontiera meridionale del regno magiaro, comprendente i Carpazi e il nodo fluviale formato da Sava, Drava e

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Danubio, l’area piú soggetta alle incursioni ottomane. All’indomani della morte improvvisa del re d’Ungheria, Alberto d’Austria (1439), Janos appoggiò l’elezione di Ladislao I Jagellone (re di Polonia dal 1434) contro Ladislao V, il Postumo, figlio ancora minorenne del defunto Alberto. Nel 1440 Hunyadi ottenne molti riconoscimenti dal nuovo sovrano, tra cui il castello di Nándorfehérvár (Belgrado) e la capitania di Transilvania. I successi degli anni successivi, tra cui il trionfo contro un enorme esercito ottomano presso Sibiu, gli valsero la fama di avversario invincibile tra i Turchi e lo portarono a intraprendere la cosiddetta «lunga campagna» a fianco di re Ladislao contro gli Ottomani. Superato il passo delle Porte di Traiano (situato una settantina di km a sud-est di Sofia, n.d.r.), Hunyadi conquistò Nis e sconfisse ripetutamente i diversi eserciti turchi che gli sbarravano il passaggio, fino a conquistare la capitale bulgara. Forte di questi successi, Hunyadi fu contattato dal legato apostolico, il cardinale Giuliano Cesarini, e dai despoti di Serbia (George Brankovic) e Albania (Gjergj Kastrioti), per cacciare i Turchi dall’Europa. Venne dunque allestito un grande esercito, ma, quando tutto era ormai pronto, giunse nel campo di Szeged un’ambasceria di Murad per offrire ai generali cristiani una tregua decennale. Due giorni piú tardi il cardinal Cesarini fu informato del fatto che una flotta veneta era salpata in direzione del Bosforo, per impedire che il sultano potesse riattraversare i Dardanelli e puntare su Costantinopoli e poi verso l’Europa. Il cardinale volle coinvolgere anche il re Ladislao, che marciò verso le coste del Mar Nero, per raggiungere, seguito dalla flotta veneziana, la capitale dell’impero d’Oriente. Ma,

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alla luce dell’accordo stipulato col sultano, Brankovic, temendo ritorsioni in caso di sconfitta, informò Murad dell’avanzata cristiana, convincendo anche Kastrioti a non unirsi alla spedizione. Cosí, quando l’esercito cristiano giunse in vista di Varna, scoprí che le galere veneziane non erano riuscite a prevenire lo sbarco ottomano. Il 10 novembre 1444, le due armate si scontrarono e i cristiani furono sbaragliati. Il re Ladislao morí in battaglia e Hunyadi riuscí a mettersi in salvo. Il 5 giugno 1446 Il giovane Ladislao V, ora unico reggente, designò Hunyadi governatore d’Ungheria in sua vece, e, due anni piú tardi, il neopapa Nicola V lo nominò principe e gli ingiunse di riprendere la guerra contro i Turchi. Schieratosi con le sue milizie e un cospicuo esercito, Janos fu sconfitto nella battaglia del Kossovo (vedi «Medioevo» n. 189, ottobre 2012): fu catturato e subí l’umiliazione di essere imprigionato dal suo vecchio nemico, il traditore serbo George Brankovic. Il generale ungherese fu però riscattato dai suoi e, tornato in patria, dopo aver rimediato alle difficoltà createsi in Ungheria a causa del vuoto di potere, condusse le sue truppe in Serbia e costrinse Brankovic ad accettare condizioni di pace durissime.

Nel 1450, Hunyadi, accusato di voler usurpare il comando a Ladislao V, preferí cedere il titolo di governatore e abbandonare la reggenza. Costantinopoli era ormai caduta e gli Ottomani erano alle porte del regno d’Ungheria. Ladislao si appellò ancora una volta a Janos. L’obiettivo dei Turchi era Belgrado, la città-fortezza sul confine meridionale del regno. Hunyadi raccolse tutte le sue truppe e alcuni mercenari, raggiungendo la città alla fine del 1455. Nel frattempo Giovanni da Capestrano era riuscito a mettere insieme un’armata di crociati, equipaggiati alla bell’e meglio. Il 14 luglio, accompagnato dal figlio, Laszlo, e da Michele Szilagyi, il generale ungherese riuscí a forzare il blocco navale ottomano e con la piccola flotta di cui disponeva, sconfisse la poderosa schiera di galere ottomane. Una settimana piú tardi Szilagyi respinse l’attacco delle truppe rumele e Hunyadi compí una sortita, inseguendo i Turchi in fuga e prendendo vantaggio sul campo nemico. Dopo una breve ma intensa battaglia, il generale rimase campione sulla piana antistante Belgrado. Dopo la vittoria, Janos Hunyadi fu contagiato dalla pestilenza scoppiata nel campo e morí l’11 agosto 1456.

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battaglie belgrado aiuti richiesti all’Occidente erano poca cosa. Venezia, legata alla città da molti interessi commerciali, aveva inviato una flotta. Mentre Giovanni Giustiniani, nobile veneziano, guidava un corpo di mercenari, nerbo della difesa. L’assedio durò oltre due mesi. Il 22 aprile i Turchi riuscirono a forzare il blocco sul Bosforo, facendo scivolare le navi dalle colline nell’altrimenti impenetrabile braccio di mare. Il 16 maggio fu sventato un tentativo di conquistare la città attraverso gallerie,

ma il destino di Costantinopoli era ormai segnato. Appena dieci giorni piú tardi venne sferrato l’attacco finale. La città fu accerchiata e sottoposta a un bombardamento incessante. Le mura, erette mille anni prima, furono ridotte a ben poca cosa dalle bombarde turche, e il Corno d’Oro venne attraversato liberamente dalla flotta ottomana. Il 29 maggio su S. Sofia sventolava il vessillo del sultano, mentre l’ultimo basileus della storia, Costantino XI, aveva trovato la morte in battaglia. La presa di Costanti-

nopoli e la sorprendente campagna contro gli altri regni in Crimea, recarono gran prestigio ai vincitori, e lo Stato ottomano fu riconosciuto come un impero vero e proprio. E, a quel punto, Maometto II scelse di proseguire nella sua avanzata.

In marcia per Belgrado

Quando i Turchi decisero di puntare su Belgrado, il re d’Ungheria era un ragazzo e il suo reggente era invece Janos Hunyadi, uno dei piú temuti condottieri d’Europa (vedi box alle pp. 36-37). Alla noti-

dracula

Il principe del terrore Tra i personaggi che si muovono sullo scenario dei Balcani all’epoca dell’assedio di Belgrado, spicca il nome del principe Vlad, meglio noto come Dracula. Era figlio di Vlad Dracul, principe di Valacchia e membro dell’Ordine dei Dragoni (a cui è anche legato il soprannome di Dracula, che significa «Drago»), una compagnia militare istituita da Sigismondo d’Ungheria allo scopo di annientare l’eresia. Nel corso della campagna contro i Turchi, Dracul assunse comportamenti ambigui, accordandosi con gli infedeli. Questo atteggiamento gli costò caro e il principe si vide costretto a scendere a patti piú stretti con i Turchi i quali, per assicurarsi la sua fedeltà, pretesero come ostaggi i suoi due figli, Radu e il nostro Vlad, cioè Dracula. La partecipazione di Dracul alla battaglia di Varna (1444) contribuí a evitare il disastro totale, ma mise a repentaglio la sorte dei suoi figli, vittime dell’ira e delle violenze del sultano. Cercando di trarre vantaggio dalla sconfitta che Janos Hunyadi aveva subito, Dracul lo fece imprigionare e ne chiese la testa. La condizione di nobile, però, salvò l’ungherese che, qualche anno piú tardi, si vendicò, uccidendo Dracul e suo figlio Mircea. Il sultano aveva cosí perso un prezioso, seppur altalenante, collaboratore e, con la speranza di riconquistare questa testa di ponte in Valacchia, liberò suo figlio Vlad, chiedendogli di rivendicare il trono del padre. A seguito della sconfitta del Kossovo (1448) il giovane Dracula, credendo morti in battaglia sia Ladislao che Janos, si proclamò principe di Valacchia con l’appoggio di alcuni mercenari turchi: a quel punto Ladislao mosse subito contro di lui e Dracula riparò in Moldavia. Nel 1453, quando la minaccia

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Ritratto della fine dell’Ottocento del principe Vlad Tepes, meglio noto come Dracula.

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Xilografia raffigurante il principe Dracula che pasteggia vicino a un gruppo di sventurati nemici da lui fatti impalare, mentre un servitore fa a pezzi e cuoce alcune delle vittime. XV sec.

zia dell’imminente assedio, Janos mobilitò un grande esercito, tentando di sollecitare anche la nobiltà, gran parte della quale però rifiutò di unirsi alla sua spedizione. Se la nobiltà rifiutò di unirsi a Hunyadi, il popolo di Ungheria rispose invece con entusiasmo. Oltre ai crociati che Giovanni da Ca-

turca divenne tangibile con la caduta di Bisanzio, Hunyadi accolse la promessa di collaborazione di Dracula e lo accolse a corte. Il suo compito sarebbe stato quello di difendere il confine della Transilvania dalla minaccia ottomana. Nulla attesterebbe una sua partecipazione alla difesa di Belgrado, giacché non viene mai nominato nelle cronache del tempo e, piú della vittoria contro i Turchi, fu la morte di Hunyadi a lasciare campo libero al giovane Dracula. Alla testa delle sue armate, si diresse in Valacchia, dove affrontò e uccise in battaglia Ladislao, proclamandosi unico principe. Divenuto signore, Vlad Dracula si distinse per i suoi metodi brutali. Per assicurarsi la fedeltà dei suoi cortigiani, fece impalare in una notte tutti i nobili legati al signore precedente, rimpiazzandoli con uomini nuovi e di provata fede. Grazie alle scorrerie lungo il Danubio, ai danni dei Turchi, sperava di ottenere aiuti da Mattia Corvino, nuovo re d’Ungheria e da papa Pio II, che, nel 1459, aveva invitato i cristiani a organizzare una nuova crociata. Ma nessuno dei signori europei rispose con entusiasmo a tale appello e Dracula dovette ingaggiare continue scaramucce nei propri territori per non essere travolto dall’avanzata turca di Maometto II. Utilizzando il metodo del terrore, riuscí infine a far ripiegare le truppe del sultano: migliaia di Turchi furono infatti impalati, e il macabro spettacolo intimorí persino Maometto, distogliendolo dal progetto di attaccare Tirgoviste. Prima di ritirarsi definitivamente però,

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il sultano concesse il trono al fratello di Dracula, Radu, cresciuto prigioniero tra i Turchi e ormai loro fedele alleato. Radu intuí l’interesse di molti nobili valacchi a un’alleanza col sultano e col loro sostegno diede la caccia a Dracula, in parte abbandonato dai suoi, delusi per non aver conseguito una definitiva vittoria. Dracula si rifugiò allora nel proprio castello sui Carpazi, ad Arges, per sfuggire alla cattura. Dopo una lunga prigionia sembrò che la fortuna gli arridesse di nuovo. Rieletto principe di Valacchia nel 1476, grazie all’interessamento di Mattia Corvino, si avviava a una nuova fase di governo. Ma in una congiura organizzata dai suoi uomini di corte, che non avevano dimenticato i suoi metodi brutali, il principe trovò la morte fuori Bucarest, presso Snagrov.

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battaglie belgrado Giovanni da Capestrano

Il francescano combattente Il 24 giugno 1386 il barone francese Antoine, giunto in Italia con Luigi I d’Angiò, festeggiava l’arrivo di un nuovo figlio maschio, Giovanni: divenne noto col nome di san Giovanni da Capestrano (perché nato, appunto, nel borgo abruzzese) e fu uno dei piú grandi predicatori del Quattrocento, nonché fervido sostenitore della difesa dell’Europa dal dilagare degli Ottomani. Giovanni viene avviato agli studi di diritto a Perugia e, nel 1413, inizia a lavorare come giudice per gli Angioini. Nel 1414, Ladislao d’Angiò muore e Perugia cade sotto l’assedio di Fortebraccio da Montone. Legato al precedente governo, Giovanni viene gettato in carcere: forse proprio a seguito di questa esperienza, decide di entrare in convento ed è ordinato chierico francescano nel 1417. La carriera di Giovanni è fulminea: inizia quasi subito l’attività di predicatore e, nel 1418, anno della sua ordinazione sacerdotale, viene anche nominato inquisitore da papa Martino IV. Il francescano abruzzese si reca spesso a Roma: assiste alla morte di papa Martino IV (1431) e, l’anno seguente, è presente quando Eugenio IV affida agli Osservanti la custodia della Terra Santa, in un clima di rinnovato fervore per i luoghi sacri, soprattutto all’indomani della vittoria ottomana a Nicopoli (1396). Giovanni viaggia moltissimo, prima in Italia, poi per tutta l’Europa. Nel 1439 si reca probabilmente in Terra Santa, dove era stato nominato già tre anni prima Commissario visitatore, e, con lo stesso ruolo, soggiorna a lungo a Milano, svolgendo attività di mediazione politica tra Filippo Maria Visconti e il papa. In previsione del nuovo capitolo dell’Ordine francescano, Giovanni fu inviato presso Filippo duca di Borgogna, al fine di assicurarsene la fedeltà verso papa Eugenio e la Chiesa di Roma. Nel contempo, opera anche per riportare alla medesima posizione numerosi conventi francescani schieratisi invece per l’antipapa Felice V. Da Digione, dove incontra il duca di Borgogna, Giovanni si reca nei Paesi Bassi e di lí fino in pestrano (vedi box in questa pagina) era riuscito a coinvolgere, Hunyadi poté contare su un contingente di circa 10 000 uomini, male armati ma fortemente motivati. Janos giunse in vista di Belgrado verso il 10 luglio del 1456, discendendo la Sava, con i suoi cavalieri e fanti, alcuni soldati serbi e con una piccola flotta formata da navi di fortuna, dotate per l’occasione di protezioni in legno, piccole catapulte e cannoni.

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Giovanni da Capestrano, in un polittico con le storie della sua vita dipinto dal Maestro di San Giovanni da Capestrano. 1480-85. L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo. I riquadri sulla sinistra raffigurano la messa al campo (in alto) e la battaglia di Belgrado (in basso).

Sicilia dove, incontratosi con Alfonso d’Aragona, ottiene i primi incarichi per l’allestimento di una flotta e di un esercito da inviare in Oriente contro la minaccia ottomana. Dopo il disastro crociato di Varna, la preoccupazione a Roma e nell’Occidente si fa sempre piú grave e il pontefice affida a Giovanni pieni poteri per il reperimento dei fondi destinati alla crociata contro gli Ottomani e il frate abruzzese impegna il suo ultimo decennio di vita quasi esclusivamente nella predicazione della guerra santa. Alla fine del luglio 1455 Giovanni incontra per la prima volta a Buda il voivoda (governatore) della Transilvania, Janos Hunyadi. Alle notizie sull’avanzata delle truppe islamiche, quest’ultimo si porta nella città posta piú a sud del Regno d’Ungheria: Nándorfehérvár, cioè Belgrado, e chiede ben presto a Capestrano di raggiungerlo quanto prima con le truppe di crociati da lui raccolte nel corso della sua predicazione. Il 2 luglio 1456, secondo quanto testimoniato da Giovanni da Tagliacozzo, un altro francescano che accompagna Giovanni da Capestrano, entrano in città alla testa di un esercito di oltre 5000 crociati. Giovanni sostenne tutte le operazioni per contrastare l’assedio ottomano. Pur provato dagli stenti e dagli anni – era ormai settantenne –, il francescano riuscí a respingere con i suoi crucesignati l’attacco di Maometto II e a trasmettere personalmente la felice notizia a papa Callisto III. Ma la prova durissima a cui aveva sottoposto il suo debole corpo, ridotto ormai a poca cosa, lo portò ben presto alla morte che lo colse il 23 ottobre dello stesso anno presso il convento francescano di Ilok, in Croazia, dove aveva trascorso gli ultimi mesi di vita.

Belgrado era già sotto assedio e Giovanni incitava la popolazione a non cedere alla fame e alle febbri che iniziavano a diffondersi, alle quali si aggiunse la dissenteria, causata dall’acqua sporca che gli assediati erano costretti a bere.

Verso la vittoria

La piccola flotta si diresse il 14 luglio contro le galere turche, legate assieme da catene e sistemate a nord della città, lungo la Sava, in

modo da impedire l’arrivo in città dei rinforzi e dei rifornimenti della flotta di Hunyadi. L’ungherese si sistemò con le sue milizie nella sponda sinistra del fiume, per prevenire sortite turche alle spalle delle navi cristiane. Poi la flottiglia si diresse contro le navi ottomane, sparando per oltre cinque ore tutti i proiettili di cui disponeva, e ingaggiando combattimenti corpo a corpo, una volta giunti a contatto. Da Belgrado vi fu quindi luglio

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battaglie belgrado Miniatura raffigurante l’assedio di Belgrado da parte delgi Ottomani, guidati da Maometto II. Scuola turca, XV sec. Istanbul, Museo Topkapi.

la sortita di alcune navi serbe, che presero alle spalle la flotta turca, decretandone la sconfitta. «Infine – scrive il cronista Janos Thuroczy – dopo una lunga e sfiancante lotta, gli Ungheresi ebbero la vittoria». Hunyadi ebbe cosí libero accesso alla città assediata e i rinforzi e i rifornimenti furono accolti con sollievo da Capestrano e da tutti gli stremati abitanti.

L’assalto finale

L’attacco principale contro Belgrado giunse appena una settimana dopo il successo navale. Forti di numerose bocche da fuoco, una delle quali era in grado di scagliare proiettili da mezza tonnellata, gli Ottomani bombardarono pesantemente la città. Poi, dopo un lungo silenzio, dal campo turco si levò un grido a cui rispose l’intera armata ottomana, che si lanciò all’assalto. La resistenza cristiana era fiera e sostenuta dagli incitamenti dei Francescani schierati sugli spalti delle mura, tra cui primeggiava Giovanni da Capestrano. I cavalieri ungheresi e i numerosi contadini, armati con zappe e falci resistevano allo sterminato esercito turco. Poi, lentamente, furono costretti a cedere posizioni e verso sera gli Ottomani riuscirono a entrare in città. Il combattimento si spostò allora tra le viuzze di Belgrado, avvolta dal buio della notte, ma illuminata dalle lingue di fuoco delle torce e dai bagliori delle scimitarre turche. L’obiettivo dei Turchi era adesso conquistare il «castello bianco», la fortezza che troneggiava sulla città. Ma i cristiani non cedevano e facevano piombare sui giannizzeri pietre, frecce e enormi quantità di catrame e zolfo, che costituivano una temibile arma incendiaria. La presa della cittadella sembrava impossibile, ma alcuni Turchi erano riusciti a salire sulle mura e stavano per issare il vessillo del sulta-

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no, in segno di una vittoria ormai certa. Titus Dugovitch, un soldato serbo, si gettò contro di loro e, sapendo di non poter sconfiggere da solo il drappello turco, preferí gettarsi dalle mura trascinando con sé la bandiera nemica. Era il pomeriggio del 22 luglio e Hunyadi a questo punto ordinò alle guardie della cittadella di spalancare le porte e, a capo del suo corpo di cavalleria, caricò i Turchi. Se non fosse riuscito a resistere al sover-

chiante esercito turco, Janos voleva garantire almeno una via di fuga ai suoi. Ma da Belgrado si riversarono contro i Turchi anche tutti i crociati e i contadini spronati da Capestrano, che misero in fuga l’esercito del sultano, costretto a lasciare in mano nemica l’intero accampamento e le macchine d’assedio. La battaglia era conclusa. Belgrado era salva e l’Europa cristiana aveva – temporaneamente – frenato l’avanzata ottomana. F luglio

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protagonisti francesco datini

Vita (e lettere) di un mercante di Luca Pesante

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Originario di Prato, dove nacque nel 1335, Francesco Datini costruí la sua ricchezza in Francia, in quella Avignone che, grazie alla presenza della corte pontificia, era uno dei centri nevralgici dell’economia europea. Accumulò una fortuna colossale e, rientrato nella sua città, investí molti dei suoi averi nella realizzazione di una dimora magnifica, oggi sede di una ricca casa museo. Della sua attività (e non solo) ci ha lasciato una preziosa testimonianza in decine e decine di missive, alla cui stesura si dedicava personalmente ogni giorno

I I

l mercante pratese Francesco Datini è uno dei pochi personaggi del tardo Medioevo di cui possiamo ricostruire pressoché ogni dettaglio umano, anche il piú nascosto: manie, gusti, desideri, emozioni, delusioni, debolezze. Seguendo le sue orme, l’immersione totale che si compie nell’età di Mezzo lascia ogni volta stupito chiunque si avvicini allo straordinario archivio ancora oggi conservato a Prato nel palazzo costruito e abitato da Datini stesso (vedi box alle pp. 48-49). Grande protagonista della vita economica medievale, in quanto creatore di un vasto impero commerciale, Francesco aveva un carattere ruvido e scontroso, ma sapeva essere ironico – anche con se stesso – e generoso, amico fidato e ottimo ospite, marito fedele e grande benefattore. Era vissuto a cavallo tra il XIV e il XV secolo, figlio, pertanto, di una tradizione medievale ben riconoscibile in molti aspetti della sua vita. In lui, tuttavia, si inizia a scorgere uno spiraglio di modernità, come per esempio nell’uso ricorrente di una parola tipica del primo Rinascimento – «melancolia» – o nel gusto per la casa e per gli oggetti di cui amava circondarsi.

Orfano a causa della Peste Nera

Nato a Prato nel 1335, Francesco fu il primo dei quattro figli di Marco di Datino e di donna Vermiglia. Il padre faceva attività da mercante, vendeva la carne al mercato, ed era iscritto all’arte dei tavernieri. La peste del 1348, che ridusse di un terzo l’intera popolazione Nella pagina accanto lettera del 1° novembre 1408 tra la sede di Avignone e quella di Firenze della compagnia di Francesco Datini. A destra Alessandro Allori, Ritratto di Francesco Datini. 1556-1607. Prato, Galleria Comunale.

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protagonisti francesco datini Una «fotografia» del primo Quattrocento Prato, Palazzo Pretorio. Particolare della Veduta simbolica della città di Prato con i santi Stefano e Giovanni Battista e i benefattori Francesco Datini e Michele Dragomari, affresco di Piero e Antonio di Miniato. 1413. Il grande mercante è riconoscibile sulla destra, accanto al Battista, e si vede anche la facciata del suo palazzo (nel riquadro).

In basso miniatura raffigurante alcuni mercanti di stoffe, dallo Statuto della Corporazione dei Mercanti. XIV sec. Bologna, Museo Civico Medievale.

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europea, in pochi mesi falciò anche la famiglia di Francesco, lui solo sopravvisse insieme al fratello Stefano. I due furono cosí affidati a un tutore loro parente, Piero di Giunta del Rosso, mentre Piera di Pratese Boschetti seguí sempre con affetto materno Francesco, proprio come una nuova madre, al punto di rivolgersi spesso a lui con le parole: «al mio charisimo e dolccie figliuollo». Nel 1349 Francesco fu mandato a fare apprendistato nella bottega di un mercante a Firenze, ma dopo meno di un anno, nel marzo del 1350 partí per Avignone. Grazie alla presenza della corte pontificia, la cittadina della Francia meridionale era, in quegli anni, il luogo delle grandi opportunità, sia economiche che politiche. Tutti i grandi personaggi del XIV secolo prima o poi partivano per Avignone: Petrarca, santa Caterina, Boccaccio, Cola di Rienzo, Giotto, solo per citare alcuni dei piú noti. Il suo primato si deve anche alla centralità geografica che ne fece crocevia di importanti percorsi terrestri e marittimi, e grande centro di scambio di merci provenienti da Europa, Asia e Africa. Piero di Giunta vendette un piccolo terreno e con il ricavato comprò per il viaggio di Francesco una mantella, un paio di calze e un cappuccio usato. Dopo tre anni partí per Avignone anche il fratello Stefano. Sono molto scarse le notizie relative a questi anni, di certo sappiamo luglio

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che nel 1359 il giovane mercante fa il suo primo breve rientro in patria, a Prato. Francesco aveva 15 anni quando arrivò per la prima volta in Francia, con quattro soldi in tasca – frutto del lavoro nella bottega fiorentina – che sarebbero dovuti bastare per muovere i primi passi in quella terra straniera. Fino al 1363 non sappiamo nulla della sua attività, ma dovette fare il garzone e poi il fattore presso altri mercanti toscani. Da questa data in poi Francesco figura come socio in diverse compagnie, il giro degli affari si estende progressivamente, aumenta il volume delle partecipazioni, degli scambi, degli investimenti.

sima qualità solo per lui, dall’altro dal curare personalmente la formazione dei suoi collaboratori, che, in molti casi, venivano promossi al rango di soci: fu dunque in grado di costruire una rete di società partecipate con un «capitale umano» accuratamente selezionato. Nel 1378 il papa decise di rientrare a Roma, anche grazie all’opera di santa Caterina, giunta ad Avignone nel 1376 per convincerlo della necessità del trasferimento in Italia. Veniva cosí a mancare l’elemento principale che sosteneva la domanda interna di mer-

L’«assistenza» ai clienti

Tra le merci trattate un nucleo di notevole rilievo è costituito da armi e strumenti in ferro provenienti da Milano e da altri centri produttivi dell’Europa centrale, ma le botteghe datiniane di Avignone erano specializzate, oltre che per le pelli e il cuoio, per tessuti di ogni genere: dal fustagno dell’Europa del nord ai veli di cotone e lino dell’Italia centrale, comprese le sete di Venezia, Bologna e Genova. Nel fondaco si svolgeva la vendita al dettaglio anche di ceramiche, vetri, tavole e cassoni dipinti, ma veniva anche reso disponibile un servizo di «assistenza», diremmo oggi, che rendeva possibile l’assemblaggio, la rifinitura di alcuni oggetti (per esempio l’adattamento di un’armatura alle misure del cliente) e la loro riparazione. Ma la forza straordinaria dell’imprenditore Datini aveva origine da un lato dall’abilità di stabilire contratti in esclusiva con artigiani che producevano beni di altisIl Palazzo Pretorio di Prato, di fronte al quale è posta la statua in marmo di Carrara di Francesco Datini, scolpita nel 1896 da Antonio Garella (1863-1919).

Prato nel XIV secolo

La città della Sacra Cintola Al momento della nascita di Francesco la città di Prato contava 15 000 abitanti circa (oggi ne conta 186 000 ed è la seconda città piú popolosa della Toscana). Si può far risalire l’origine del nucleo urbano all’XI secolo, quando i due insediamenti di Borgo al Cornio e di Castrum Prati si unirono sotto il potere degli Alberti che ottennero l’investitura imperiale e la nomina a Conti di Prato. Il forte incremento demografico e il significativo sviluppo urbano portarono all’istituzione del libero Comune, in seguito all’assedio

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delle truppe di Matilde di Canossa nel 1107, ma la città non fu mai sede vescovile, pur avendo in custodia una delle piú preziose reliquie della cristianità, la Sacra Cintola della Madonna, che ogni anno attirava numerosi pellegrini. A ogni espansione corrispondeva la costruzione di una nuova cerchia muraria che doveva comprendere il nuovo nucleo abitativo. La ricchezza economica dovuta in particolare alla lavorazione della lana e ai mercanti di panno condusse a una rapida

trasformazione del volto urbano, mediante la selciatura di strade, l’apertura di piazze, la costruzione di nuovi edifici civili e abitazioni private. Al momento della nascita di Francesco, Prato era in piena crisi demografica, economica e culturale. La peste del 1348 non fece altro che causare un ulteriore gravissimo tracollo, che si concluse nel febbraio del 1351, quando i Fiorentini acquistarono la piena sovranità su Prato e sul suo territorio, che entrò pertanto a far parte del «contado» di Firenze.

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protagonisti francesco datini ci nella cittadina provenzale. La sola familia pontificia contava alcune centinaia di persone – tra camerieri, servitori, scriptores, cancellieri, cuochi, medici, speziali, ecc. –, alle quali vanno aggiunti gli entourage dei cardinali che componevano la corte. Tuttavia, Avignone continuava a essere al centro di importanti rotte commerciali, sia terrestri che marittime, e pertanto Francesco, che pura aveva optato per il definitivo ritorno in patria, non chiuse i battenti della sua sede provenzale, che, anzi, si rivelò fondamentale per i commerci con la Francia e la Spagna meridionale.

Ritorno a casa

Nonostante alcuni dubbi sul da farsi (in questo periodo scrive di sé: «sono chome l’ucello che sta in sue l’albaro e non sa dove snidare, o qua o llà») il 12 dicembre del 1382, dopo 32 anni di «esilio» in terra straniera, Francesco si mette in marcia verso l’amata Prato. Ci vollero 33 giorni di viaggio: trascorse il Natale a Milano per poi passare a Cremona, Parma e Bologna, sempre preceduto dalla fama di grande e ricchissimo mercante. All’indomani del suo arrivo, oltre a un impegno immediato nello sviluppo dell’attività in Italia vengono anche incrementate le rotte commerciali medi-

terranee già battute negli anni avignonesi: nel 1382 fonda un’azienda mercantile nella stessa città di Prato e, nell’anno successivo, una a Firenze e una a Pisa; nel 1392 viene rilevata una società a Genova, nel 1393 vengono istituite le compagnie di Barcellona e Valenza e nel 1395 quella di Maiorca. Si veniva cosí a comporre una complessa struttura societaria in cui i vari soci erano corresponsabili dell’andamento economico delle compagnie. Per avere un’idea dell’ampiezza dell’attività datiniana basti pensare che considerando i distaccamenti, i rappresentanti e i corrispondenti veniva coperta un’area pressappoco sovrapponibile all’estensione dell’impero romano, cioè dal Mar Nero al Mar Morto, passando per tutto il Medio Oriente, fino all’Europa del Nord. Una volta tornato in Italia, Francesco non lasciò piú la sua Prato, salvo alcuni periodi trascorsi a Pisa e a Firenze per affari, e altri a Pistoia e a Bologna per In basso veduta di palazzo Datini. La magnifica residenza si sviluppò nel sito di una casupola acquistata da Pietro di Giunta, padre adottivo

del mercante. I lavori di costruzione e allestimento si potrassero per oltre un ventennio, a partire dal rientro a Prato di Datini, nel 1383.

palazzo datini

Stufe in ogni stanza, gabinetti, mobilio, tappeti e... un orso Il palazzo di Francesco si trovava sul luogo (canto del Porcellatico) in cui sorgeva una casupola che Pietro di Giunta, il padre adottivo, aveva acquistato quando lui era ancora ad Avignone. Fin dai primi mesi del suo ritorno definitivo a Prato, nel 1383, Francesco si immerse in una frenetica attività di costruzione, ampliamento, acquisti di edifici contigui, ingaggio di pittori e decoratori, commesse per gli arredi, scavo di cantine... Tanto era grandiosa la nuova architettura che nei giorni di mercato a Prato la gente andava a visitarla e non mancava il padrone di casa di fare «onore di vino e di fruta e di quello che abimo a tutti: da stamani insino alle 21 ore non s’è fatto altro». Nel 1389 l’amico Domenico scriveva a Francesco: «Domenicha vi verò a vedere, perché ò inteso che voi avete fatto chostà un giardino che pare un paradiso». Il «murare» emozionava Francesco, lo rendeva vitale, felice, «folle» (lo scrisse lui stesso) e intraprendente – se possibile – piú del solito. A un amico di Genova che,

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con un po’ di ironia, gli disse: «dovete avere ingrossate le mani per tanto murare», Francesco rispose: «lo fo perché mmi piace púe quella vita che veruna altra (…) e fa púe tenpo ch’io non ti iscrisi per chagione ch’i òe ateso a fare uno giardino dinanzi a chasa mia, lungo bracia 32 e largho bracia 14, pieno di melaranzi e rose e viole e altri begli fiori: chosta púe di fiorini 600, ch’è istata una grande folia: sarebe meglio ad avergli messi in uno podere».

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A sinistra la «camera dell’uno letto», oggi parte del Museo Casa Francesco Datini. In basso Francesco Datini nel ritratto di Tommaso di Piero del Trombetto. 1491-92. Prato, Museo Casa Francesco Datini.

Ma uno degli elementi di maggior lusso della casa era la stufa, costruita in un ambiente acquistato in un secondo tempo, accanto al forno. Per avere un’idea sul da farsi, Francesco mandò alcuni collaboratori a Firenze, per capire come fossero fatte le «stufe di San Lorenzo». Non mancavano altre comodità, come gabinetti inseriti in piccole stanze appartate e collegati a condotte fognarie sotterranee e camini in ogni ambiente della casa. Riguardo agli arredi, casse, cassoni e forzieri, dipinti e non, erano presenti in ogni stanza, di ogni misura e decoro, e in piú si trovavano vere e proprie curiosità come un «ingegno da fare vento» nella camera da pranzo, che nelle giornate piú afose doveva dare un po’ di sollievo ai commensali. I tappeti erano ovunque, soprattutto impiegati per coprire tavoli e letti, cosí come «panni dipinti», specchi, ampolle, ceramiche, avori, smalti, argenti provenienti da ogni angolo del mondo e che erano il segno della vera ricchezza del mercante di Prato. La corrispondenza non omette di citare gli animali piú o meno insoliti che si potevano incontrare in casa o nel giardino di Francesco: oltre agli immancabili pavoni, troviamo cani alani, una «ghaza viva che favella», una «scoiattola femina» e persino un piccolo orso che un Bardi, signore di Vernio, inviò a Francesco nel 1393.

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protagonisti francesco datini Margherita Bandini

Fedele, ma non sottomessa Nel 1376 Francesco decise di prendere moglie e mise in pratica ciò che andava spesso ripetendo ai suoi amici: «melglio fare parentado di molglie cholla sua vicina chon uno difetto, che fare parentado cholla istrana, che ne potrebbe avere molti». Sposò una fiorentina, Margherita Bandini, conosciuta ad Avignone, molto piú giovane di lui. Margherita non riuscí ad assicurare una discendenza a Francesco, che tuttavia ebbe tre figli: due morirono in tenera età, mentre Ginevra, avuta dalla serva Lucia, fu sempre tenuta da Margherita come figlia, anzi «piú che s’ella fosse mia». Nel folto epistolario che ancora oggi si conserva, Margherita è spesso irritata con il marito, perché si sente trascurata, abbandonata o trattata come una governante. E anche per questo non accetta di essere sottomessa, e

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vuole pertanto imparare a leggere e a scrivere, per farsi valere e per dimostrare il proprio valore. Con il tempo la relazione sembra farsi via via piú serena, sebbene a volte trapeli il risentimento di Francesco per non essere riuscito ad avere un erede maschio. In effetti Francesco lascia poco spazio nelle sue lettere a eventuali «cortesie» nei confronti della moglie, e quasi sempre conclude con gelide formule tipo: «Per fretta non dicho piú: provvedi a quello bisognia. Che Cristo ti ghuardi senpre». Le conversazioni vertono spesso sul cibo: Francesco di frequente sollecita la moglie a fare «chonposte» di rape o di carote, cialdoni, cuocere galline o i piselli. E proprio in merito a questi ultimi Margherita gli risponde: «De’ pesegli ne tengho i modi ch’io ti dirò: ch’io gli metto la sera in mole chome si fanno i ceci e chosí gli pongho la matina a fuocho, chome si fanno i ceci istretti, e tanto gli fo bollire che so’ chotti, e sí fo bolire erbucci e uno pocho di cipolla entro una pentola di per sé, e sí la batto e quando i’ metto i pesegli nella pentola magiore e io vi metto sue questa aqua e questi erbucci, non ve ne maravigliate perché lei non gli sapi chuocere, perché e’ sono uno pocho malgevoli».

sfuggire a una epidemia di peste. Aveva ormai messo insieme una ricchezza impressionante, al punto che tra i Pratesi iniziarono a circolare fantasiose leggende sul suo conto. Subito dopo il rientro intraprese la costruzione di un grandioso palazzo nel centro cittadino e di una villa in campagna (villa del Palco) su un terreno di sua proprietà presso Filettole: due cantieri che lo impegnarono per oltre dieci anni. E proprio nel palazzo di Prato Francesco iniziò a raccogliere tutta la documentazione d’archivio relativa alle sue imprese, facendosi spedire dai vari soci i libri contabili e tutti gli incartamenti relativi alle attività commerciali che si conservavano negli uffici esteri.

Prato, capitale dell’industria tessile

La sede pratese della compagnia datiniana si distingue dalle altre per una fondamentale, ulteriore novità: questa volta la tensione di Francesco alla continua ricerca di attività nelle quali misurare il proprio ingegno lo porta a fondare con alcuni soci pratesi un’industria della lana, a cui seguiva qualche anno dopo una compagnia dell’arte della tinta, anch’essa con sede a Prato, che sviluppò molti affari con i lanaioli pratesi e fiorentini. E tale attività produttiva andava a riprendere un’antica «vocazione» della cittadina toscana, la cui economia iniziava ad assumere una fisionomia che la distinse per secoli da altri centri, in specie nell’industria tessile che ancora oggi gioca un ruolo primario. Il 1400 segna il punto di massima espansione delle attività di Francesco; il volume degli affari e la loro diIn basso uno dei ritratti scoperti nella «camera dell’uno

letto» in occasione di un recente intervento di restauro.

la mensa del mercante

Prelibatezze d’ogni genere La ricchezza del mercante di Prato si rifletteva anche sulla varietà dei cibi che potevano trovarsi sulla sua mensa. Vini calabresi, liguri e del Mediterraneo orientale; grano siciliano e provenzale; formaggi, salsicce e olio della Campania; frutta secca delle Baleari; riso catalano; tonno di Palermo, aringhe del Mare del Nord. Datini si rivolgeva direttamente ai suoi corrispondenti per

procurarsi un particolare cibo o ingrediente. Il tipo di pasto servito a tavola variava a seconda della stagione, dei gusti dei commensali, del calendario delle festività e persino a seconda dello stato di salute dei convitati. La carne era sempre l’ingrediente base della tavola di Francesco, tranne che nei casi di digiuno imposti dal calendario liturgico. Nei periodi invernali si faceva luglio

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versificazione non furono mai piú, nei successivi dieci – e ultimi – anni della sua vita, come prima. La morte di alcuni soci lo costrinse alla chiusura di alcune compagnie e a una conseguente contrazione della mole di lavoro. Al tempo stesso Francesco sembra ripiegarsi su se stesso, concentrarsi sempre piú sulla vita domestica, avvicinandosi, tra l’altro, a una riflessione su temi religiosi pur restando in una posizione di grande diffidenza nei confronti della gerarchia ecclesiale. È stato scritto, a proposito della disposizione del testamento circa la donazione ai poveri dell’intera ricchezza, come di un «estremo atto contabile volto a regolare il rapporto con l’aldilà»; in realtà l’ultima grande azione di Francesco potrebbe essere letta come un un’offerta alle proprie umili origini e alla sofferenza subita a causa delle interminabili epidemie: un tentativo estremo di ritorno al principio di tutto, restituendo – come ebbe a dire lui stesso – ciò che Nostro Signore gli aveva permesso di ottenere.

scambi lungo le grandi rotte commerciali tra le città del Mediterraneo, siamo oggi in grado di ricostruire pressoché ogni giorno del vissuto di Francesco Datini dal 1363 fino alla morte, compresi i moti dell’animo e alcuni aspetti apparentemente marginali. Per gran parte della giornata Francesco restava seduto avanti al tavolo di lavoro, da lui stesso fatto costruire e definito «il piú bello scrittoio di Toschana», indaffarato a leggere le lettere ricevute e a «far risposta». Tanto era concentrato che spesso saltava i pasti, soltanto il freddo e la stanchezza gli impedivano di rispondere alle lettere («non posso menare la mano perché tut-

La fondazione del Ceppo

Il 16 agosto del 1410 Francesco, morendo senza eredi, destinò il proprio patrimonio, del valore di circa 100 000 fiorini d’oro, a un’istituenda fondazione, che si sarebbe dovuta chiamare «Ceppo dei poveri di Cristo» e che avrebbe dovuto essere gestita dal Comune di Prato (vedi box a p. 53), ma lasciò – potremmo dire al mondo intero – un bene forse ancora piú prezioso, il suo archivio: 600 libri contabili, 5000 lettere di cambio, 4000 lettere di vettura, 400 polizze e 125 000 lettere commerciali spedite da 267 località differenti. Una documentazione unica che ai nostri occhi illumina la vita di un mercante medievale: dai dettagli della vita privata fino agli

L’immagine di una cicogna nella «camera delle due letta», perciò detta anche «Sala delle cicogne».

grande uso di maiale: è ricorrente l’arista come portata principale, ma non mancavano ricette con le interiora, come fegato e milza, mentre la testa e i piedi erano impiegati per fare la gelatina. Da destinare alla dispensa erano i prosciutti, il lardo e lo strutto. Ben piú pregiata era la carne di vitella, servita soltanto sulle mense piú ricche. In caso di malattia si faceva grande

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uso di pollame, la cui carne era ritenuta in grado di favorire le guarigioni. Il pesce rappresentava un’importante componente della dieta. Soprattutto nei giorni di astinenza dalle carni e della Quaresima si consumavano prodotti ittici sia freschi che conservati: per la Quaresima del 1392 fece ordinare a Pisa «due barili di buona tonina di Palermo, sia finissima e perfetta». Per Margherita, che amava

molto il pesce, fu invece fatto un ordine di aringhe ad Avignone dove «vi sono le migliori del mondo». Anche i formaggi erano un prodotto di pregio, in alcuni casi di lusso vero e proprio, come il parmigiano – abbinato alla pasta già dal XIV secolo –, il marzolino toscano, il cacio di Craponne e di Randazzo. Sappiamo infine che Francesco aveva una grande passione per la frutta fresca, che dunque mai

mancava sulla sua mensa, nonostante il medico Sassoli lo avesse piú volte invitato alla moderazione. Il 25 agosto del 1392 Francesco aveva ospite a pranzo il suo amico Guido del Palagio con la moglie, per l’occasione furono acquistati: 5 fiorini di pesce; culaccio, poppa e gambetto di vitella; 40 zampette di castrone per la gelatina; 100 melarance, 16 libbre di cacio pisano, 6 paia di piccioni, un paio di paperi.

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il testamento

La porta d’ingresso di palazzo Datini. L’apertura che sovrasta l’architrave corrisponde a una delle finestre originali dell’edificio.

A uso perpetuo dei poveri di Gesú Attraverso le proprie disposizioni testamentarie, Francesco intendeva innanzitutto garantirsi il «salvamento dell’anima» e una lunga vita alla propria memoria. Circa un’inizale ipotesi di lasciare tutto a un istituto ecclesiastico (sembra che una prima redazione del testamento risalga al 1395), fu subito messo in guardia dal notaio amico ser Lapo Mazzei, che temeva l’ingordigia degli uomini di Chiesa suoi contemporanei. E infatti, nelle modifiche del 1400, erano già contenute le basi che avrebbero portato all’istituzione del Ceppo di Francescho di Marcho merchatante pe’ poveri di Cristo, anche se, a questa data, circa metà del patrimonio era ancora destinata all’ospedale fiorentino di S. Maria Nuova. Nella redazione definitiva del testamento, del luglio 1410, veniva spostato pressoché l’intero patrimonio a favore del Ceppo, lasciando «soltanto» 1000 fiorini all’ospedale fiorentino. Le parole di Francesco su cosa sarebbe dovuto essere questo Ceppo sono oltremodo chiare: «uno certo Ceppo, Granario e Casa privata, e non sacra, in niuno modo sottoposta alla Chiesa o ecclesiastici ufici o prelati ecclesiastici o a altra persona ecclesiastica, e che in niuno modo a ciò si possa ridurre; ma sempre sia dei poveri e a prepetuo uso de’ poveri di Giesú Cristo, e loro alimento et emolumento perpetuo». Nella pagina accanto la Madonna del Ceppo di Filippo Lippi. 1453. Prato, Museo Civico (già nel cortile della Pia Casa dei Ceppi in Palazzo Datini). La tavola raffigura la Vergine in trono con il Bambino, santo Stefano e san Giovanni Battista. In basso si vede lo stesso Francesco

Datini che presenta a Maria i quattro Buonomini del Ceppo (l’associazione benefica istituita in esecuzione delle volontà testamentarie del mercante) in carica nell’anno della commissione dell’opera: Andrea di Giovanni Bertelli, Filippo Manassei, Pietro Pugliesi e Jacopo degli Obizzi.

ta questa settimana non ò fatto altro che iscrivere»). In alcuni casi si serviva di giovani «scrittori», che però, a volte, lo mandavano su tutte le furie, come si legge nelle lettere piene di disappunto che scriveva alla moglie Margherita (vedi box a p. 50): «lo scritore iscrive ongni dí pegio; non so la chagione, credo atenda alle frasche púe tosto ch’a scrivere»; e in un’altra lettera in cui parla del proprio stato d’animo: «llo scrittore che à scritta questa lettera è ito al barbieri: è stato 3 ore e anchora non è tornato: dei pensare chome io posso essere lieto». Il problema a volte era nella lettura delle lettere, in alcuni casi scritte con una pessima e illeggibile grafia, come quella ricevuta da Avignone e scritta da Boninsegna che – sospetta Francesco – «forse non adoperava occhiali». Lui stesso faceva uso di occhiali – che spesso

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Dove e quando Museo Casa Francesco Datini Prato, via Ser Lapo Mazzei 43 Orario giugno-settembre: lu-ve, 9,00-12,30 e 16,00-19,00; sa, 9,00-12,30; agosto: lu-ve, 9,00-12,30 e 16,00-19,00; sa, 9,00-12,30; chiuso dal 12 al 18 agosto; 19 agosto-1° settembre: lu-sa, 9,00-12,30; ottobre-maggio: lu-ve, 9,00-12.30 e 15,30-18,00; sa, 9,00-12,30 Info tel. 0574 604187; www.museocasadatini.it perdeva o dimenticava – per scrivere e per leggere; tuttavia, all’età di 72 anni, confessa di non riuscire piú a scrivere, a causa di una vista sempre piú debole.

Uno scrittore fin troppo prolifico...

Quando scrive, Francesco molto spesso si lascia prendere la mano dal flusso dei pensieri, dai vari stati d’animo, perlopiú preoccupazioni che a stento riesce a omettere nella sua corrispondenza. Ma con autoironia ammette le lungaggini: «chominciai questa lettera che chredetti fare una poliza, ed ò fatto una bibia» (e in effetti si era dilungato per oltre sedici pagine!). Inevitabilmente, gli scritti sono pieni zeppi di dettagli minimi della vita quotidiana: dal dolore sofferto a causa dei calcoli, all’acquisto di

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protagonisti francesco datini le date di una vita 1335 circa Nascita di Francesco a Prato. 1348 Morte dei genitori di Francesco e di due dei loro figli, vittime della Peste Nera. 1349-1350 Apprendistato di Francesco nelle botteghe di Firenze. marzo 1350 Partenza di Francesco per Avignone. 1355 Stefano, ultimo fratello vivente di Francesco, lo raggiunge ad Avignone; le sue tracce si perdono intorno al 1359. 1363 Prima compagnia conosciuta, creata in collaborazione con un mercante fiorentino che viveva ad Avignone. 1373 Fondazione dell’agenzia individuale di Francesco ad Avignone. 1376 Matrimonio con Margherita, figlia di Domenico Bandini. 1382-1383 Ritorno definitivo di Francesco e Margherita in Toscana. 1383 Apertura delle agenzie di Pisa, Prato e Firenze; intensificazione dei lavori di costruzione del Palazzo Datini. 1390-1391 Francesco fugge la peste, rifugiandosi a Pistoia. 1392 Apertura dell’agenzia di Genova. 1393 Apertura delle agenzie di Barcellona e di Valencia. 1394 Apertura dell’agenzia di Palma di Maiorca; Francesco acquisisce la cittadinanza fiorentina. 1395 La coppia Datini accoglie Ginevra, figlia naturale di Francesco. 1400 Dopo una fase di apogeo del sistema delle compagnie di Francesco di Marco (1398-1400), ha inizio una riduzione progressiva del volume di affari. 1400-1401 Francesco fugge la peste rifugiandosi a Bologna. 16 agosto 1410 Morte di Francesco a Prato. 1423 Morte di Margherita, divenuta terziaria domenicana a Firenze.

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cani da riproduzione, alle istruzioni inviate al sarto su come fare una sopravveste o la richiesta alla moglie di fare una composta di carote. In realtà, la personalità di Francesco sembra emergere con maggiore immediatezza nella corrispondenza con la moglie Margherita. Da lei si faceva inviare la ricetta per cuocere i piselli oppure gli abiti adatti al cambio di stagione. Ma spesso si assiste ad accesi battibecchi in cui si scopre anche la tempra di lei, agguerrita e pronta a rispondere per le rime alle accuse del marito. Una mattina Francesco trova la cantina di casa invasa dall’acqua a causa, pare, della distrazione di Margherita, che avrebbe dovuto provvedere per evitare l’allagamento. La lettera che Francesco le scrive subito dopo è piena di rassegnazione, dice di non avere piú speranze che lei si possa ravvedere e porta a esempio la moglie del suo amico Guido che in 34 anni «mai non lgli fece uno dispiacere». Margherita non fece attendere la risposta, dicendo al marito che aveva certamente ragione sul conto della moglie di Guido, ma avrebbe anche dovuto notare una differenza: Guido teneva la moglie come «donna» e non come «moglie d’arberghatore» al pari di Francesco da «quindici benedetti anni».

Ogni cosa sotto controllo

Francesco è maniaco della perfezione, vorrebbe avere il pieno controllo non solo dei suoi affari, ma anche delle piú minute faccende domestiche – lo scrive egli stesso –, oltretutto con un lapidario giudizio finale sulle donne: «volglio vedere e sentire ongni chosa dalla pichola chosa alla grande; io dicho insino a vedere fare il pane, ché stanote istetti a vedello fare e ordinare chome si levitasse bene, ché punto non ne poteva avere di lievito, perché le femine chomunemente non sono púe save ch’elle si siano». Parlando di sé con la moglie – e non accadeva di rado – ammetteva di avere un carattere femminile, cosí attento ai particolari a scapito delle cose piú importanti: «tu sai e’ modi miei, e sai ch’io sono di lengnagio di femina, che lasciano perdere il chapone per lo pulcino: chosí fo io, che per levare un rangnatelo io abandono un gran ragionamento». Voleva sempre le «chose bene achoncie» e pertanto veniva frequentemente ripreso dagli amici per essere sempre tra «manovali, opere galcine, rena, pietra, gride e disperamenti». Per tutte queste ragioni detestava la politica, ma era considerato – per via del censo – il candidato naturale alle massime cariche cittadine. Fu pertanto fatto gonfaloniere nel dicembre del 1386: tentò in ogni modo di sottrarsi all’impegno assegnatogli, perfino fuggendo da Prato e nascondendosi a Firenze per una settimana. Il prestigio che derivava principalmente dalla sua ricchezza lo caricò di ulteriori indesiderati oneri, di ospitalità questa volta: fu «costretto» ad aprire le porte del suo palazzo a Francesco Gonzaga nel 1392, a Leonardo Dandolo nel 1397, oltre a cardinali, ambasciatori e anche al re Luigi II d’Angiò, nel 1410, che gli concesse poi l’onore di inserire il giglio di Francia nel suo stemma. Possiamo facilmente immaginare che, piuttosto che luglio

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Esequie solenni

«Lo sopelirono chon grandissimo onore...» I funerali di Francesco coinvolsero quasi l’intera città di Prato. Furono spesi piú di 1000 fiorini d’oro: per cera, drappi, veli, mantelli, pianete, cibi e bevande per sfamare la folla accorsa. Il corteo funebre lasciò l’abitazione per dirigersi alla chiesa di S. Francesco, mentre le campane della città suonavano a morto. Margherita, dietro la bara, era vestita con «uno mantello di dossi e una capelina». Seguivano 32 poveri, tutte le magistrature comunali, i rappresentanti delle arti e delle compagnie pratesi, i frati dei principali conventi e molti altri chierici forestieri. Qualche giorno dopo un testimone disse: «a dí 18 lo sopelirono chon grandissimo onore, piú che mai si sopelisse uomo in questa tera». La lapide del mercante pratese (foto a destra), scolpita da Niccolò Lamberti, detto il Pela, spicca nella navata centrale di S. Francesco in Prato. ricevere tali illustri ospiti, avrebbe preferito starsene di fronte al suo desco a sbrigare la posta o seguire la preparazione delle composte in cucina. Sembra che neanche di fronte al papa Francesco si piegasse volentieri con favori e concessioni, l’episodio è raccontato da lui stesso: «quando il Papa di Vingnone mi richiese in persona che io gli prestasse fiorini mille sopra un pengno (…) io mi schossi uno pezo, e poi pure gliel’ promisi di prestare. E partendomi da lui trovai messer di Napoli e dolsimi chon llui, e feci che disse al Papa della mia inpotenza e diègli a intendere chome io non era riccho chome egl’era dato a intendere. Il Papa rimase per chontento e lasciòmi istare».

Sereno di fronte alla morte

Pensava spesso alla morte e si consolava ritenendo che il pensiero della fine sarebbe stato meno angosciante se avesse speso bene il tempo che gli era concesso: «ho speso el tenpo mio a murare, in ciene e ‘n disinari, in parlare per modo che quand’io me ne ricordo io ne porto gran pena nell’animo, perché mi pare avere speso male il tenpo mio, E stàmene sí male che quand’io morrò la morte non mi dorrà la metà, ché considerato che non mi recorderà piú del mio erore, passerà la pena della morte piú legieremente che ss’io avessi speso bene el tenpo mio». Nel corso della sua vita, coronata dal grande progetto di destinare il patrimonio alla comunità, la stessa Prato si identificò piú volte nella figura di questo suo figlio straordinario: Francesco divenne il simbolo della città ricca, industriosa, dinamica, aperta alle innovazioni e alle sperimentazioni. La fondazione del Ceppo dei Poveri di Francesco di Marco ancora oggi ha sede nel suo palazzo, insieme al Museo Casa Francesco Datini e all’Archivio di Stato che conserva il preziosissimo fondo documentario del mercante, «riscoperto», quasi per caso nel 1870, dopo secoli di oblio in un sottoscala del primo piano. Ancora oggi, dunque, Prato si immedesima nella figura di Francesco. La sua

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Da leggere Jérôme Hayez e Diana Toccafondi (a cura di) Palazzo Datini a Prato. Una casa fatta per durare mille anni

Edizioni Polistampa, Firenze, 2 voll., 712 pp., ill. col. e b/n 120,00 euro ISBN 978-88-596-0949-0

Avvalendosi dei contributi di numerosi specialisti, l’opera ripercorre la storia della costruzione e dell’allestimento della splendida magione pratese di Francesco Datini. Nel primo volume vengono analizzate le varie fasi costruttive, la realizzazione degli apparati decorativi e si dà anche conto dell’istituzione della Casa Pia dei Ceppi, l’istituto assistenziale creato per volontà del mercante. Il secondo tomo, invece, attingendo al ricchissimo archivio di lettere e documenti, offre numerose testimonianze sullo svolgimento dei lavori di costruzione del palazzo e sull’attività commerciale di Datini. memoria è viva e riconoscibile lungo le vie della cittadina e forse anche nello spirito dei suoi imprenditori. E ciò probabilmente era il desiderio principale di Francesco: legare il proprio nome per sempre alla propria città, per il resto, disse circa il suo destino: «s’io non potrò istare a sedere in Paradiso, istarò ritto; e s’io non sono dengno di stare intra quelli profeti, pure ch’io istia tra quelli poverelli della bassa, ma già mi basta». F

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immaginario la fenice

L’uccello di fuoco di Domenico Sebastiani

Dall’antico Egitto fino alla simbologia massonica, il mito della fenice ha, per millenni, ispirato artisti e poeti. Un’allegoria della rinascita a nuova vita, ricca di valenze sacre e profane, che colpí profondamente anche l’autore del Canzoniere...

«È

la fede degli amanti come l’Araba Fenice: che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa»: con questi celebri versi, contenuti nel Demetrio (1731), il poeta e drammaturgo italiano Pietro Metastasio, in pieno Settecento, fece della fenice l’essere che non esiste per antonomasia, ovvero un ideale irrealizzabile, paragonandola alla fedeltà degli amanti. Fu però Giacomo Leopardi, poco piú che adolescente, che nel dotto e ironico Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815) pose fine in maniera quasi emblematica alla storia millenaria di un mito, aprendo forse quella di un nuovo mito fatto di «assenza e illusione», come ha osservato acutamente

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Francesco Zambon, specialista della letteratura allegorica e simbolica del Medioevo romanzo. La leggenda di questo uccello fantastico, che si autorigenera periodicamente, è stata caratterizzata a sua volta da successive «risorgenze». Pur mantenendo costanti nel tempo i suoi elementi fondamentali, come il concetto di morte e resurrezione, il legame con l’astro solare e l’«unicità», il mito dell’unica avis è andato adattandosi ai vari periodi storici e culturali, incarnando di volta in volta diverse tematiche religiose, filosofiche e letterarie. La maggior parte degli autori ritiene che il mito della fenice rappresenti una rielaborazione,

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Mosaico policromo con l’immagine di una fenice. XIII sec. Roma, Museo di Roma. luglio

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immaginario la fenice da parte del mondo greco-romano, di nozioni cosmologiche e religiose dell’antico Egitto, riferite alla figura di un uccello «solare» di nome benu, da identificarsi probabilmente con l’airone grigio o purpureo. Le prime notizie su tale animale fantastico provengono dalle Storie di Erodoto (484-425 a.C.) il quale, con perplessità in proposito, narra di come in Egitto esistesse un uccello sacro di nome fenice, simile a un’aquila e con le piume rosse e dorate. Esso faceva la sua comparsa ogni cinquecento anni, alla morte del padre: a questo punto, muovendo dall’Arabia, portava il genitore nel santuario di Helios nella città di Eliopoli (la città del sole), modellando un uovo di mirra cavo, all’interno del quale ne collocava il corpo, e, con altra mirra, ricopriva la parte dell’uovo in cui aveva praticato la cavità per introdurvelo. I riferimenti del racconto inducono a collegare la fenice erodotea alla tradizione faraonica del benu, figura elaborata nella fase piú antica della religione egizia, all’interno del mito della creazione definito a On-Heliopolis, e considerata come una delle forme assunte da Atum, poi identificato con il dio del sole Ra e successivamente con Osiride, il dio che muore e rinasce. Altro carattere di rilievo della figura è l’associazione con l’idea di una palingenesi periodica della natura (le feste di Sed), durante le quali il re rinnovava il suo ufficio regale e sacerdotale, nonché con il primo giorno del nuovo anno scandito dalle benefiche inondazioni del Nilo, come riferito da Orapollo nei suoi Geroglifici (V secolo). Nonostante i diversi punti di contatto tra il benu egiziano e la futura fenice (il fatto di essere uccelli in qualche modo legati al sole e alla città di

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Eliopoli, la presenza dell’elemento della morte e della resurrezione, il legame con cicli cosmici o di rinnovamento), molto diverso è invece l’aspetto fisico, cosí come del tutto assente è l’elemento della morte nelle fiamme e la successiva rinascita secondo precise scansioni temporali.

Nel mondo classico

Nel mondo classico, la fenice ha la connotazione di uccello solare: definita infatti sacrum Soli da Manilio,

citato da Plinio il Vecchio (23-79) nella sua Naturalis Historia, da Tacito (55-117), da Orapollo, questo attributo si ritrova anche nell’Apocalisse greca del profeta detto Pseudo Baruch (II secolo d.C.). A riprova di ciò, la fenice viene descritta tradizionalmente con le ali miste di oro e porpora, e con il capo incoronato da una raggiera di penne, a simboleggiare il sole. Tale carattere solare si trova in correlazione con gli aromi di natura ignea (di solito cinnamomo, mirra e incenso) con i quali l’uccello costruisce il nido sul quale trova la morte.

La vita della fenice copre un lungo ciclo di anni, sulla cui durata, però, le fonti divergono: si va dai tradizionali 500 per arrivare a 1000 o addirittura, come nel caso di Manilio, a 26 000, corrispondenti all’anno platonico. Per Tacito, invece, gli anni sarebbero 1461, pari al cosiddetto periodo sothiaco, cioè la cadenza con la quale il sole sorge contemporaneamente alla stella piú luminosa del cielo, Sothis o Sirio. Nonostante la discordanza delle cifre indicate, è chiaro il riferimento al Grande Anno e alla connotazione cosmologica della fenice, nonchè alla connessione simbolica (riferita al suo periodico morire e poi rinascere) con

In alto miniatura con l’immagine di una fenice, da un bestiario compilato in Inghilterra, forse a Salisbury. 1230-1240. Londra, British Library.

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l’apokatástasis, vale a dire il periodico rinnovamento dell’universo che segue alla sua distruzione. Circa le modalità della «risorgenza» dell’uccello si affermarono due versioni principali: la prima, che prese lo spunto dal racconto di Erodoto, prevedeva la nascita della nuova fenice come verme formatosi dai resti della decomposizione del corpo del proprio «padre». La seconda, affermatasi come tipica del mito, vede invece la fenice arrivare a una estrema vecchiaia, prepararsi un nido pieno di essenze e aromi preziosi, adagiarvisi e incendiarsi, a causa del calore solare o degli aromi stessi. Dalle ceneri nasce quindi una nuova fenice, anche se spes-

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so si assiste a fasi intermedie che prevedono la nascita di un verme, di un uovo o di un piccolo uccello.

Prove di resurrezione

Oscillante è anche il luogo di provenienza del volatile, individuato di volta in volta in India, Arabia, Etiopia, Libano o genericamente Oriente, nonché sul luogo della morte, collocato in India, oppure nella mitica Pancaia, ma soprattutto in Egitto. Sintesi eccelsa del mito classico feniceo, nella quale si assiste a una fusione dei vari elementi tradizionali sullo sfondo di un ricco substrato simbolico, è quella che si legge nel carme De ave phoenice, attribuito allo scrittore e apologeta Lattanzio (III secolo).

«Destino e morte fortunati quelli di questo uccello, cui Dio ha concesso di nascere da se stesso! Maschio o femmina o né l’uno né l’altro, felice creatura, che non conosce i vincoli di Venere! La sua Venere è la morte; la morte, il suo solo amore: per poter nascere, desidera morire. È il proprio figlio, padre, erede; è insieme la nutrice e la nutrita. È lei e non lei, la stessa e non la stessa, conquistando con la morte una vita eterna». Con questi versi di Lattanzio, il mito classico della feVignetta raffigurante una defunta che presenta il proprio cuore a un serpente alato, dietro al quale sta una fenice, da un Libro dei Morti egiziano. XXI dinastia, 1070-945 a.C. Torino, Museo Egizio.

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immaginario la fenice nice sembra aprirsi a una visione cristiana, quale emblema di Cristo per eccellenza o allegoria della resurrezione della carne. In verità, il piú antico testo a utilizzare il mito feniceo in tal senso è l’apocrifa Lettera ai Corinzi di papa Clemente Romano (95-98), nella quale l’uccello viene additato quale prova a favore della resurrezione dalla morte. Il tema fu poi sviluppato nelle Catechesi da Cirillo di Gerusalemme (315-387), ma, soprattutto, nel De resurrectione mortuorum (212 circa), da Tertulliano, il quale, dopo aver indicato la natura che ciclicamente distrugge per poi rinnovarsi (giorno e notte, stagioni, vegetazione), cita quale elemento ancor piú convincente quello della fenice, uccello famoso perché «si rinnova, con una morte che è la sua nascita morendo e succedendo a se stesso» aggiungendo che anche Dio nella scrittura afferma: «E fiorirai come una fenice» (Sal 92, 13). Sulla stessa scia si situano Commodiano, vescovo dell’Africa settentrionale nel III secolo, e sant’Ambrogio (334-397) ne I sei giorni della creazione.

Cristo, fenice dell’umanità

Se in questi scritti la fenice assume la figura del cristiano destinato alla vita eterna dopo la morte, il favoloso uccello appare invece come simbolo della figura di Gesú nel Physiologus greco (redatto tra il II e il III secolo d.C. ad Alessandria d’Egitto), considerato l’archetipo di tutti i successivi bestiari medievali. L’anonimo redattore del Physiologus, riprendendo le versioni piú ricorrenti del mito, introduce la novità della scansione dei tre giorni necessari per la rinascita (verme, uccellino, nuova fenice), chiara allusione ai tre giorni trascorsi dalla morte alla resurrezione di Cristo. Egli conclude: «Se dunque quest’uccello ha il potere di uccidersi e di rinascere, come possono gli insensati Giudei indignarsi contro le parole del Signore: “Ho il potere di deporre la mia anima, e il potere di riprenderla (Giov 10,

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in oriente

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Ziz, Simurgh, Roc, Garuda...

La fenice, in Oriente, riunisce in sé le caratteristiche di molti uccelli presenti in natura, ne rappresenta la sintesi e l’emblema. È probabile che le varie tradizioni orientali si siano influenzate a vicenda, per cui la «fenice» di un Paese ha finito per fondersi con quella di un altro e per collegarsi, attraverso vie recondite, con quel simbolo che l’Europa classica e cristiana ha conosciuto come fenice. Nel giudaismo si incontrano tre uccelli con caratteristiche simili alla fenice, i cui nomi ebraici sono Ziz, Malham e Hol. Lo Ziz (Libro dei Salmi, III secolo a.C.) è un uccello talmente grande da oscurare il sole con la sua apertura alare. Secondo la tradizione sarebbe stato creato da Dio insieme a Behemot e Leviathan, ciascuno a capo del regno animale dell’aria, della terra e dell’acqua. L’animale vive con la sua compagna per lunghissimo tempo (anche settemila anni), alla fine del quale la coppia depone sulla cima della Montagna cosmica due uova, dalle quali nasceranno altri due uccelli che rinnoveranno il ciclo. L’immortalità dello Ziz verrà meno quando, con la fine dei tempi, Behemot sarà macellato, Leviathan sarà squartato da Ziz e quest’ultimo sarà a sua volta ucciso da Mosè. La carne dei tre animali sarà servita nel banchetto del Messia e quella prelibata dello Ziz sarà data ai giusti, per ricompensarli di essersi astenuti dal mangiare volatili impuri. Visto il divieto per l’idolatria delle immagini, le rappresentazioni iconografiche di Ziz, Malham e Hol sono molto rare: un caso si ritrova in una miniatura eseguita a Ulm, in Germania, nel 1238, rappresentante lo Ziz durante il banchetto messianico. Nell’Islam il simbolo della fenice ha un’eredità molto antica, risalente a un’epoca precedente addirittura la forma religiosa. L’uccello è denominato Simurgh, o ‘Anka’ o Saena, e viene citato innanzitutto nei testi sacri dell’Avesta (VI-IV secolo a.C.), nei quali si narra che il suo nido si trovi sopra l’Albero cosmico che sorge nel mezzo del mare primordiale. Ci appare per lo piú come un cane-pesce alato, alcune volte con un volto umano, al fine di indicare il suo potere su terra, mare e aria. In Occidente il Simurgh divenne popolare con l’opera Il verbo degli uccelli del sufi persiano Farid ad-din ‘Attar (1150-1220), in cui si narra di come gli


A destra pagina di un manoscritto islamico con l’immagine dell’‘Anka’. 1583. Istanbul, Museo d’Arte Turca e Islamica. Nella pagina accanto vaso in porcellana shu-fu sul quale è dipinta una fenice, da Liang-Hsiang, presso Pechino. Dinastia Yüan, 1280-1368.

uccelli siano alla ricerca di un loro sovrano, superiore a tutti per perfezione e bellezza. Su indicazione di un’upupa, lo stormo di uccelli parte alla ricerca del Simurgh, e solo trenta uccelli hanno la fortuna di giungere al cospetto della fenice, nella quale finiscono per identificarsi e annullarsi. In un altro capitolo, La morte della fenice, l’autore descrive lungamente la fenice indiana, soffermandosi soprattutto sul particolare del canto struggente di incomparabile bellezza e malinconia che l’animale emetterebbe prima di ardere nel fuoco, tema questo ripreso anche da Sohravardi (maestro sufi del XII secolo), nella lirica L’incantesimo di Simurgh. La piú antica fenice dell’area islamica è però un altro uccello chiamato ‘Anka’, descritto come una specie di airone che poi venne assimilato al Simurgh iranico, tanto da essere spesso denominato Simurgh-‘Anka’. Troviamo inoltre un altro volatile, il Roc (Rukh), che si presenta come un «uccello gigante». Esso rapisce gli uomini, ghermisce piccoli elefanti, getta rocce sulle navi e depone uova grandi come cupole. Il Roc compare in molti scritti, come per esempio nell’opera geografica di al-Qazwini (1203-1283) le Meraviglie delle cose create e aspetti meravigliosi delle cose esistenti, ne I viaggi dello storico arabo Ibn Battuta (XIV secolo) e anche nelle Mille e una notte (X secolo circa), negli episodi che vedono protagonista Sindbad il marinaio. Marco Polo (1254-1324) lo cita nel suo Milione, spiegando che compare una volta l’anno, che non deve essere scambiato per un grifone, che le sue proporzioni sono gigantesche e che gli abitanti del luogo lo chiamano ruc. Il mitico Roc viene citato anche dal frate domenicano Jourdain Catalani nel suo Mirabilia descripta (1329) e compare in una dicitura del Mappamondo di fra’ Mauro (1460), presso l’isola di Diab. Nella cultura induista, l’equivalente della fenice ha il nome di Garuda. Generalmente ha caratteristiche antropomorfe, come una sorta di uomoaquila: la Paramésvara Samhita lo presenta come enorme e aggressivo, dal colore dorato, con la testa d’aquila, il becco rosso e le ali piumate, ma fornito anche di due braccia umane. È acerrimo nemico dei serpenti (simbolo dell’eterna lotta tra le forze del bene e quelle del male) e funge da cavalcatura al dio Visnu, perciò le sue mani devono essere da supporto ai piedi del dio. Anche le radici della fenice cinese sono remote. Nelle prime testimonianze è presente il feng, un

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uccello fantastico a metà strada tra un pavone e un fagiano piú che una vera fenice. Successivamente al feng si affianca la sua simmetrica controparte femminile, huang, per essere fusi nel termine coniugale di fenghuang: la fenice cinese, infatti, a differenza di quella occidentale, non è animale unico, ma si presenta quasi sempre in coppia, espressione della «dualità cosmica» dell’estremo Oriente che si esprime nel binomio yin-yang. La fenice compare, come simbolo benaugurante, sul tetto degli edifici, per indicare che in quella casa regna la pace, ovvero sopra le tegole, a protezione degli incendi. Anche da un punto di vista politico, la fenice cinese è considerata simbolo di pace e di buon governo: per questo il fenghuang, cosí come l’unicorno, rappresenta l’animale piú bello e piú buono, e compare solo quando il paese è ben governato o ci vive un santo. Generalmente il fenghuang viene raffigurato come un animale composito: con la testa piccola, il lungo collo, la coda con tre o cinque piume, il becco aperto o che stringe una perla, le zampe simili a quelle di una gru, ma con gli speroni e gli artigli di un rapace.

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immaginario la fenice 18)?” La fenice è un’immagine del Salvatore nostro: Egli è sceso infatti dai cieli, ha steso le sue due ali, e le ha portate cariche di soave odore, cioè delle virtuose parole celesti, affinchè anche noi spieghiamo le mani in preghiera, e facciamo salire un profumo spirituale mediante buoni comportamenti». Appare quindi netta l’identificazione tra la fenice e Cristo, mentre gli aromi con cui l’uccello si cosparge le ali vengono interpretati come simbolo degli insegnamenti spirituali del figlio di Dio. La fortuna di questi contenuti ebbe una ricaduta di enorme portata in tutta la letteratura e l’arte medievale: si può Particolare di una miniatura in cui si vede una fenice assisa su un altare, da un’edizione del Milione di Marco Polo. 1410-1412 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

pensare al tema che fu ripreso nel Bestiaire in antico francese di Gervaise (XII secolo), in quello di Guillaume de Normandie (XII secolo), nel Libro della Natura degli animali (fine XIII secolo), nel Bestiario di Oxford e nel Bestiario di Cambridge, cosí come nelle trattazioni di Onorio d’Autun (1080-1154), di Vincent de Beauvais (1190-1264) e di Philippe de Thaün (XII secolo). Nei vari scritti si evidenzia un’altra similitudine tra la fenice e Cristo: cosí come l’uccello nasce e rinasce senza sottostare alle ordinarie leggi della riproduzione, allo stesso modo Gesú è venuto al mondo senza una vera paternità terrestre, come un caso unico tra gli uomini, tale da porsi come fenice dell’umanità. Accanto all’interpretazione cristiana del mito feniceo quale simbolo di morte e resurrezione, si svilup-

pò una versione «profana» tra le fila dei poeti romanzi, prima provenzali, successivamente francesi e italiani. In questo contesto fu elaborata una similitudine tra la fenice e l’amante che si consuma nella fiamma dell’amore. Sembra che il primo a parlarne sia stato Rigaut de Berbezilh, trovatore attivo a cavallo tra il XII e il XIII secolo, nella canzone Atressi con l’orifanz, seguito poi dai contemporanei Raimbaut d’Aurenga, Peire Vidal e Thibaut de Champagne. Altrettanto accadde in Italia, tra poeti siciliani e toscani seguaci del Dolce Stil Novo, quali Giacomo da Lentini, Guittone d’Arezzo, Chiaro Davanzati e Dino Frescobaldi. Tratto comune a tutti questi poeti è quello di sfruttare il tema del

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«martire d’amore», assoggettato alla sua condizione continua di vita e di morte. Il mito della fenice viene utilizzato nei suoi elementi fondamentali: unicità dell’esemplare, presenza del fuoco come fiamma della passione, morte e resurrezione dell’amante che si strugge nella ricerca della sua amata, immagini che divennero progressivamente stereotipi del linguaggio lirico medievale, perdendo l’originaria forza espressiva.

Un amore contrastato

Piú articolata è l’utilizzazione del mito all’interno del Cligès, opera di Chrétien de Troyes (1135-1190). Il nome della protagonista, Fénice, evoca l’immagine del magnifico

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volatile e si tratta del primo caso in cui, nella letteratura romanza, la fenice viene associata a una donna, caratteristica che fu poi sviluppata da Cecco d’Ascoli e dal Petrarca. Fénice, figlia dell’imperatore di Germania, viene mandata in sposa all’usurpatore Alis, zio di Cligès, omonimo protagonista del racconto e legittimo aspirante al trono di Costantinopoli. I due giovani, Cligès e Fénice, non appena incontratisi, si innamorano perdutamente. La ragazza inventa uno stratagemma per mantenersi casta per il suo amato e studia, con la complicità di una maga, un piano per ricongiungersi a Cligès. Assume una pozione che la pone in uno stato simile a quello di morte e, dopo essere stata sot-

Ancora una miniatura tratta da un’edizione del Milione raffigurante in questo caso il mitico uccello Roc che sorveglia la fossa degli elefanti del Madagascar. 1410-1412 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

toposta a torture da parte di alcuni scettici medici di Salerno, viene sepolta in una tomba, per essere poi trasportata in una torre in cui si risveglia miracolosamente all’interno di un meraviglioso verziere e può trascorrere un intero anno insieme all’amato. Al di là del nome Fénice della protagonista, una serie di messaggi celati all’interno della trama la accostano al mito feniceo: il suo «morire» a una falsa esperienza

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immaginario la fenice amorosa, il suo risorgere al «vero amore» per l’amato Cligès. C’è chi, come Francesco Zambon, ha evidenziato possibili valenze religiose nella figura della protagonista: il suo corpo, deposto nella bara, viene definito un «santissimo oggetto», medesima espressione usata da Chrétien per indicare il Graal durante la processione che si svolge al castello del Re Pescatore, scena descritta nel suo incompiuto Perceval ou le Conte du Graal. Analogamente, le torture subite da Fénice per opera dei perfidi medici evocano la passione di Cristo,

figura strettamente correlata al mito della fenice, o comunque il martirio di una santa. In area italiana, il creatore del mito della donna-fenice fu Cecco d’Ascoli (1269-1327), poeta, medico e astrologo, autore dell’Acerba, trattato filosofico-scientifico in volgare che avrebbe dovuto contrapporsi alla Divina Commedia, ma che rimase incompiuto per la condanna a morte di Cecco «per errori contro la

fede». In tale opera l’autore parla di una misteriosa donna beatificante e celeste, da identificarsi con la sapienza o intelligenza divina, che riesce con la sua luce a rischiarare l’intelletto attivo (ossia la parte superiore della mente umana), staccando gli uomini dalle cose materiali per innalzarli verso la contemplazione delle realtà eterne. Questa donna preesiste a tutte le cose, è di natura puramente spirituale e chi la contempla si annulla in lei in una vera e propria unione mistica. Nell’ambito di questa trattazione Cecco d’Ascoli si rifà al

Nel suo trattato filosofico-scientifico, Cecco d’Ascoli evoca la figura di una misteriosa donna-fenice Particolare della Fenice attempata (Greiser Phoenix), acquaforte di Paul Klee, facente

parte della serie Inventionen. 1905. Berna, Collezione privata.

Fortuna della fenice

Rime, favole e balletti Il mito letterario della Fenice non è mai tramontato, anche dopo il Rinascimento. Si ritrova infatti in molte liriche, sia in Italia che all’estero, tra il Cinquecento e il Seicento, come nell’Adone di Giovan Battista Marino (1569-1625) e nelle Rime di Torquato Tasso (1544-1595), il quale dedicò al mito una sezione all’interno della sua opera il Mondo creato, per evocare l’unica avis anche nella Gerusalemme Liberata e nella Conquistata. L’immagine fenicea fu utilizzata anche da scrittori anglosassoni, basti pensare al poeta e religioso inglese John Donne (1572-1631) e al poemetto The Phoenix and the Turtle di William Shakespeare (1564- 1616). Oggetto in età manieristica e barocca di un’inesauribile miniera di paradossi, enigmi e antitesi per scrittori italiani, spagnoli e inglesi,

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fino ad arrivare a caricature e parodie (come nella «Dama Tribolata» del Don Chisciotte di Cervantes), particolare fortuna la fenice incontrò in Spagna, dove fu oggetto di lunghi poemi, come la Fabula de la fénix (1616) del Conde de Villamediana. Quest’ultima fu poi inclusa all’interno di una sorta di erudita enciclopedia sul favoloso uccello, El Fenix y su historia natural. Nei secoli XVI e XVII la figura della fenice fu adottata come marca tipografica da numerosi stampatori, a Roma, Venezia e Padova mentre, quale simbolo di immortalità, il motivo della fenice si diffuse nell’araldica, negli stemmi di diversi casati; lo stesso si ritrova anche nelle insegne di alcuni Comuni italiani, come in quello di Suzzara (Mantova), con una fenice ardente inquadrata in uno scudo luglio

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La ballerina russa Tamara Karsavina ne L’uccello di fuoco di Igor Stravinskij, olio su tela di Jacques-Emile Blanche. 1910, Parigi, Bibliothèque-Musée de l’Opéra national de Paris-Garnier.

mito della fenice seguendo, nella parte descrittiva, gli elementi presenti nel De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico (1230 circa): in quello che può essere definito un bestiario della sapienza divina, per poi trasformarsi in un piú comune bestiario «moralizzato», questa donna-fenice «morendo nasce».

Illuminare le anime

Alla descrizione della morte e rinascita dell’immaginifico uccello segue un’originale interpretazione allegorica: la morte della fenice rappresenta la condizione di umiliazione e persecuzione in cui si trova la divina sapienza nel mondo, abitato da «gente obscura e ciecha», ossia ottusa e priva di occhi spirituali in grado di contemplare le entità celesti. Pertanto muore per poi rinascere in una dimensio-

celeste e oro in campo nero. Il simbolo feniceo assunse rilievo anche nella sua adozione come nome da parte del teatro La Fenice di Venezia: nel 1787 la «Nobile Società», proprietaria del teatro di San Benedetto, perse una causa contro la famiglia proprietaria del fondo in cui sorgeva l’edificio, pertanto decise di costruirne uno ex novo, al quale fu dato il nome del favoloso uccello. Inaugurato nel 1792, adottò lo stemma di una fenice con aspetto di aquila che brucia sopra una catasta di legna. Nel XX secolo il mito feniceo fu rivalutato all’interno dell’arte simbolista, o da autori come Gabriele d’Annunzio nel suo Notturno (1921), nel quale la fenice rappresenta l’immagine dell’Io immerso nel buio della cecità ma fiammeggiante di eroismo e destinato alla rinascita.

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La fenice costituí la figura centrale del balletto di Igor Stravinskij, L’Uccello di fuoco (1910), ispirato al folclore russo. Degne di rilevanza sono infine due opere: la prima è l’enigmatico sonetto in – yx di Stéphane Mallarmé (1842–1898); la seconda è La setta della Fenice (1956), di Jorge Luis Borges, in cui è narrata la storia di una strana setta, nata a Eliopoli in Egitto, diffusasi in tutti i Paesi e in tutte le epoche, che probabilmente allude al linguaggio e alla letteratura, capaci di accomunare gli uomini di tutta la terra.

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immaginario la fenice la tradizione filosofica e alchemica

Simboli e allegorie di una creatura perfetta e immortale Il mito della fenice fu fatto proprio, in epoca rinascimentale e barocca, da diverse correnti filosofiche e di pensiero, che lo adattarono alle loro esigenze simboliche ed espressive. Rivestí un ruolo primario nella simbologia e iconografia ermetica e alchemica: praticamente assente nei trattati alchemici medievali, la presenza della fenice divenne una costante in molte opere tra il XVI e il XVII secolo. Il simbolismo alchemico dell’unica avis viene ricondotto essenzialmente a due filoni: da un lato essa rappresenta la Natura

perfetta scaturita da Dio, dall’altro diventa l’allegoria della realizzazione dello stadio finale a cui tende il processo alchemico, ossia la Pietra Filosofale o Elisir, l’Opera al rosso che segue quelle al nero e al bianco. Tra i primi a sviluppare queste tematiche vi fu Paracelso (1493-1541), nel Thesaurus thesaurorum alchimistarum, seguito poi da Jacques Gohory, Antonio Ricciardi, Michele Sendivogius e Andreas Libavius. Chi sviluppò nel modo piú ampio la figura della fenice alchemica fu Michael Maier: il favoloso uccello è il protagonista già nell’opera Jocus severus (1617), per riapparire in Symbola aureae mensae (1617) e Tractatus de volucri aurea (1619), in cui viene espresso il valore dell’uccello quale «tintura» che tramuta in oro le cose con cui viene in contatto, nonché nel suo scritto piú importante, le Cantilenae intellectuales de Phoenice redivivo (1622). La simbologia alchemica della fenice è strettamente correlata a quella sviluppata dal contemporaneo movimento dei Rosa-Croce, che trova il suo testo fondatore ne le Nozze chimiche di Christian Rosenkreutz (1616) di Johann Valentin Andreae, romanzo in cui il protagonista deve passare una serie di prove mistiche scandite ne superiore e ridiscendere, guidata da Dio, a illuminare le anime disposte ad accogliere la sua luce. Alla visione della donna-fenice di Cecco d’Ascoli è estraneo ogni riferimento amoroso o erotico vagheggiato da altri autori: il «dolce fuocho» al quale il poeta si riferisce, non è fiamma di amore carnale ma il desiderio mistico che squarcia le tenebre dell’ignoranza. Cecco introduce anche il tema del canto in punto di morte, simbolo dell’amorosa dottrina che la Sapienza trasmette ardendo, cioè morendo al mondo, elemento che si ritrova in un successivo sonetto, in cui la fenice non è piú identificata con la donna, ma con il poeta stesso che canta in punto di morte. Secondo Zambon, alla fine si verifica quasi una immedesimazione tra amante e sapienza divina, e il canto finale della fenice e del poeta potrebbe essere interpretato anche come l’anima che, illuminata dall’Intelligenza, proclama la vera

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in sette giorni. In tale opera, dai caratteri fortemente visionari, il sesto giorno è dedicato alla descrizione della fenice, che si sviluppa da un uovo, cresce e, una volta formata, deve ingaggiare una lotta con un serpente bianco, di cui è costretta a bere il sangue. Viene infine decapitata e ridotta in cenere. Dalle ceneri della fenice si formano le statuette di due sposi, il re e la regina, i quali tornano in vita dopo aver bevuto il sangue della fenice e celebrano quindi, il settimo giorno, le nozze, allegorica realizzazione degli opposti. Tramite la tradizione rosacrociana, la figura della fenice entrò nella simbologia massonica, come nell’immagine che la vede ardere sulla croce, simbolo del XVIII grado del Rito scozzese antico e accettato. La figura della fenice si intreccia con quelle del pellicano e dell’aquila; sotto la sua ala è presente l’iscrizione «I.N.R.I.» legata al nome di Cristo, inteso non come Messia, ma come ricerca della perfezione. Anche nella simbologia massonica la fenice è associata a un ciclo di morte e rinascita spirituale: il percorso iniziatico, che passa attraverso la discesa nelle profondità dell’Io e la sua dissoluzione, porta infine alla sua rinascita come Sé immortale. dottrina. Una sorta di oscuro presagio, in quanto Cecco d’Ascoli finí i suoi giorni arso sul rogo per non aver voluto rinunciare alle proprie idee considerate eretiche.

La visione di Petrarca

Il mito feniceo elaborato da Cecco d’Ascoli trova una stretta correlazione con un tema della poesia amorosa italiana del Medioevo, ossia la morte della donna. Tale argomento assunse un ruolo centrale in Dante Alighieri (1265-1321) e in Francesco Petrarca (1304-1374). Dante incentrò la Vita nova sulla morte della sua Beatrice, quale donna per mezzo della quale ci si può distaccare dai limiti umani ed elevarsi alla contemplazione di Dio. In verità Dante, anche se il senso di Beatrice non differisce molto dalla donna-fenice di Cecco, non accostò mai la figura femminile a quella del mitico uccello. Nel Canzoniere del Petrarca, invece, viene pienamente sviluppato

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Nella pagina accanto tavola raffigurante una fornace per pratiche alchemiche e gli animali legati al mondo dell’alchimia, tra i quali compare la fenice. Incisione di Theodore de Bry per il trattato Tripus aureus, hoc est, tres tractatus chymici selectissimi di Michael Meier, pubblicato nel 1677.

il mito della fenice quale emblema poetico di Laura. Tale valore simbolico è presente sia nelle Rime in Vita, sia in quelle in Morte. Nelle prime il mitico uccello rappresenta la condizione di amante del poeta, che si consuma nel suo amore per Laura: cosí come la fenice viene tratteggiata mentre vola per incendiarsi al sole, allo stesso modo il poeta continuamente rinasce per tornare ad ardere nel suo sole, identificato nella Donna amata. Tale modello simbolico si evolve nei sonetti successivi, quando la fenice viene a rappresentare la figura di Laura, di cui vengono evidenziati i caratteri della bellezza, evocata dagli splendidi colori delle piume, dalla sua origine orientale, dalla sua unicità. Successivamente si intravede il destino funereo della donna amata: se la prima parte è dedicata alla descrizione dello splendore di Laura ancora viva, nella seconda parte il poeta ci dice che «ogni cosa al fin

vola», per cui il simbolismo della fenice è un volare verso la fine, ossia verso la morte di Laura e di tutte le cose terrene. A un primo approccio, la visione petrarchesca può sembrare profondamente pessimistica, dato che non si rinviene traccia di resurrezioni, ma, nella seconda parte del Canzoniere, Laura risorge come donna angelo e guida spirituale del poeta. La vera «risorgenza» non si riferisce perciò a Laura, ma al Petrarca stesso: amante e amata sono accomunati da un unico emblema di morte e rinascita, e molti termini sono riferiti a entrambi, come l’unicità, il volo verso l’alto, la morte volontaria. Mentre però a Laura spettano in aggiunta la luce e la cenere, sono riservati solo al Petrarca il fuoco e la rinascita, intesi come dolorosa resurrezione, sia come amante che come poeta. In definitiva, nel mito della Laura-fenice del Canzoniere la donna amata si dilegua come essere reale e fisico e rinasce in forma piú alta come mito interiore, che grazie alla poesia può raggiungere l’eternità, la perfezione e la bellezza assoluta. F

Da leggere U Francesco Zambon, Alessandro

Grossato, Il mito della fenice in Oriente e in Occidente, Marsilio, Venezia 2004 U Francesco Zambon, L’alfabeto simbolico degli animali, Carocci, Roma 2003 U Francesco Zambon (a cura di), Il Fisiologo, Adelphi, Milano 1975 U Francesco Zambon (a cura di), Il Bestiario di Cambridge, Franco Maria Ricci, Milano 1974 U Bruno Basile (a cura di), La Fenice. Da Claudiano a Tasso, Carocci, Roma 2004 U Luigina Morini (a cura di), Bestiari medievali, Einaudi, Torino 1996 U Francesco Petrarca, Canzoniere, a cura di Marco Santagata, Mondadori, Milano 2006 U Chretién de Troyes, I romanzi cortesi, Mondadori, Milano 1994

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marineria la caravella

Esplorare e...

deportare di Martino Sacchi

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Il nome «caravella» evoca immediatamente l’impresa compiuta da Cristoforo Colombo nel 1492. Ma i primi viaggi di queste imbarcazioni risalgono a molti anni prima e illustrano un capitolo decisamente meno glorioso della storia delle scoperte geografiche: la tratta degli esseri umani e il loro sfruttamento come schiavi

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e caravelle sono uno dei simboli delle esplorazioni europee del XV secolo: tutti i grandi navigatori di questo periodo, dal portoghese Bartolomeu Dias a Cristoforo Colombo, se ne servirono per i loro viaggi. Navi simili, tuttavia, esistevano da molto tempo: la prima attestazione del termine «caravella» è infatti contenuta in un documento italiano del 1159 e si riferisce a un’imbarcazione di servizio per navi di grandi dimensioni. In Portogallo le prime citazioni risalgono al 1255, circa un secolo piú tardi quindi, nel foral (atto fondativo) della città di Vila Nova. Nei decenni successivi si diffusero sulla costa portoghese, trasformandosi in imbarcazioni da pesca, anche se siamo poco informati su questo processo. Le caravelle del Trecento erano comunque imbarcazioni di dimensioni modeste, portavano un solo albero armato con vela latina, cioè triangolare, ed erano prive di coperta. Nei primi decenni del Quattrocento furono introdotte varie modifiche, accelerate dalla necessità di disporre di un’imbarcazione adatta ai viaggi lungo la costa africana: la lunghezza fu portata intorno ai 20 m, e, di conseguenza, venne accresciuta anche la stazza, che raggiunse le 50 t circa; si aggiunse un albero (sempre armato con vela latina), e, soprattutto, furono introdotti la coperta e un piccolo castello a poppa per il governo della nave e per fornire riparo all’equipaggio. Una caravella siffatta era detta tilhadas, cioè provvista di coperta, per distinguerla dal vecchio modello, detto de pescar o pescarezas. Grazie alla facilità di costruzione e di esercizio erano molto diffuse: lo storico Quirino da Fonseca, per esempio, ha rintracciato nel porto di Lisbona, tra il 1488 e il 1489, la presenza di ben 54 caravelle, aventi una stazza compresa tra le 15 e le 150 t.

Come si costruivano

Una caratteristica costruttiva fondamentale di questo tipo di nave è l’essere realizzata con il sistema detto «a paro», vale a dire con il fasciame esterno fissato sopra uno scheletro costruito prima di porre il fasciame stesso. La rigidità dello scafo era assicurata dalla chiglia, Disegno ricostruttivo del trasporto di un carico di mercanzie e di schiavi a bordo di caravelle portoghesi a quattro e tre alberi alla fonda nel Golfo di Guinea nei pressi del castello di Sao Jorge da Mina, che, eretto nel 1482, fu la prima fortezza costruita dagli Europei nell’Africa sub-sahariana.

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marineria la caravella dalle ordinate e dai bagli, e il fasciame poteva essere semplicemente giustapposto per costa, ottenendo una superficie liscia. Nessuna caravella del XV secolo è arrivata fino a noi, neppure sepolta nel fango di qualche fiume, e le rappresentazioni grafiche piú attendibili cominciano dal secolo successivo. Probabilmente erano navi piú larghe, in proporzione alla lunghezza, di quanto vengano immaginate di solito: secondo lo studioso Martin Malcolm Elbl il rapporto lunghezza/larghezza poteva variare da 4,1:1 a 5:1. Ciò significa, per una lunghezza di una ventina di metri, una larghezza oscillante tra i 4 e i 5 m. Un’altra caratteristica essenziale era il basso pescaggio, che permetteva alla caravella di avvicinarsi molto alla costa e di risalire con facilità i fiumi: due qualità importanti nei viaggi di scoperta. Lo scafo doveva insomma essere piuttosto largo e piatto e quindi con una buona stabilità di forma sotto vela. L’equipaggio era composto di norma da una ventina di persone tra pilota, marinai e mozzi, ma grazie alla generosa larghezza c’era spazio per arrivare a imbarcare senza problemi anche venticinque uomini, sebbene un documento portoghese del 1453 precisi che una caravella regia imbarcava un pilota, otto marinai, tre mozzi e due paggi.

tà superiore dell’antenna) ed era quindi necessario un equipaggio numeroso. Per dare un punto di riferimento, le navi inglesi armate con vele quadre imbarcavano nel Quattrocento a parità di dimensioni un equipaggio che era circa la metà di quello di una caravella. L’attrezzatura latina permetteva di risalire il vento con un angolo di cinque o sei «quarte» (tra i 55° e i 66° dal vento) ed era perciò universalmente diffusa sulle caravelle portoghesi, che dovevano affrontare lunghi tratti di bolina nel viaggio di ritorno dalle coste africane. I marinai castigliani invece, non dovendo compiere tragitti simili, preferivano armare le loro caravelle con vele quadre, almeno sull’albero di trinchetto («caravela redonda», ossia «rotonda», dalla forma gonfia e panciuta delle vele quadre dell’epoca). Possediamo alcuni documenti dell’arsenale di Lisbona del 1480-87 che ci forniscono altri dettagli: ogni caravella veniva fornita di 4-6 ancore e tre bussole, dieci-dodici vele per nave (questo numero sembra esagerato, in effetti, a meno che si prevedesse una grande facilità di rottura dei ferzi, i teli che formano appunto le vele, le cappe e le tende di bordo) e 10-12 pulegge per albero (il che significa 5-6 sartie per lato).

Stringere il vento

Le primissime esplorazioni portoghesi, come quelle che nel 1434 portarono a superare capo Bojador (promontorio della costa nord-occidentale africana, nel Sahara occidentale, oggi in Marocco, n.d.r.), fino a quel momento ritenuto il confine del mondo raggiungibile, furono compiute con imbarcazioni piú piccole, di cui quasi nulla sappiamo. Ma già nel 1440, ci informa il cronista portoghese Gomes Eanes de Zurara, furono armate «duas caravelas», cioè due caravelle, per un viaggio verso l’Africa, anche se il tentativo dovette essere sospeso per il cattivo tempo. Da questo momento in poi per i viaggi lungo la costa africana furono usate solo le caravelle, perché le loro caratteristiche ne facevano davvero i mezzi ideali per navigare lungo le coste sconosciute del continente, avvicinandosi il piú possibile alla riva quando era possibile o addirittura risalendone i fiumi (come per esempio il Senegal o il Niger). L’esplorazione procedette spedita: nel 1441 Nuno Tristão avvistò per primo capo Bianco (promontorio della Tunisia settentrionale), subito dopo venne esplorata l’isola di Arguim (Mauritania) e già nel 1445 Alvaro Fernandes si spinse oltre il fiume Senegal. Ma quasi subito questi viaggi si tinsero di fosco. I Portoghesi non erano certo spinti solo dal desiderio disinteressato della conoscenza. Le spedizioni costavano, e dovevano generare un rientro economico. Sulla costa

L’attrezzatura latina, le cui vele triangolari erano sostenute da lunghe antenne (aste sistemate trasversalmente all’albero), prevedeva che la vela rimanesse all’interno delle sartie (cavi di canapa) che sostenevano l’albero. Per ottenere il miglior rendimento nell’andatura di bolina (quella in cui si stringe al massimo il vento) l’antenna doveva sempre essere posizionata sul lato sottovento dell’albero, in modo che la forma della vela fosse la piú regolare possibile e il flusso del vento non venisse disturbato. La manovra di virata in prua era perciò alquanto complicata e anche pericolosa con vento forte, perché era necessario fare forza sul cavo di orza (cioè quello fissato all’estremità inferiore dell’antenna che tira verso poppa) per portare l’antenna in posizione quasi verticale, mollando nello stesso tempo il carro (un cavo simmetrico all’orza, ma fissato verso prua) e alando sulla trozza dell’antenna (il collare che la tiene infilata nell’albero) per sollevarla rispetto al ponte di coperta; in questo modo si riusciva a far passare il piede dell’antenna, ossia la sua estremità inferiore, dietro l’albero per poi rilasciarlo sull’altro lato affinché prendesse il vento con le nuove mure. Si trattava di lavorare nello stesso tempo con sette manovre («sette come i dolori della Madonna», si diceva: carro, orza, scotta, drizza, trozza e due ostine, i cavi che controllavano l’estremi-

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I primi viaggi

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A destra tavola raffigurante alcune delle caravelle portoghesi uitlizzate per le missioni nelle Indie, dal Livro das Armadas. XVI sec. Lisbona, Accademia delle Scienze. Il manoscritto elenca le imbarcazioni che effettuarono viaggi tra il 1497 (anno della spedizione di Vasco da Gama, primo esploratore a raggiungere l’India) e il 1566. Nella pagina accanto disegno di una caravella portoghese del 1450 circa. Si noti il basso pescaggio dell’imbarcazione, che permetteva di fermarsi a poca distanza dalla costa o anche di risalire il corso dei fiumi.

desertica non c’era alcunché da prendere, per centinaia di chilometri, tranne gli uomini della tribú berbera degli Azenaghi che vivevano stentatamente in queste plaghe: e i Portoghesi presero loro. Il primo carico di schiavi, secondo la tradizione, arrivò al porto di Lagos, nell’Algarve (regione meridionale del Portogallo) già nel 1441. Un certo Antão

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Gonçalves aveva ricevuto l’ordine di raggiungere con la sua caravella e i 20 uomini d’equipaggio una località detta Rio de Ouro, scoperta in un viaggio precedente, e fare un carico di pelli e di olio macellando la nutrita colonia di foche monache che vi si trovava. Era però un uomo desideroso di farsi notare dal suo sovrano: portata a termine la missione, scese a terra con metà

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marineria la caravella da contado a grande potenza coloniale 711 I musulmani travolgono il Regno dei Visigoti invadendo quasi l’intera Penisola iberica. 868 Gli eserciti cristiani conquistano le città di Porto e Braga. 1031 Fine del califfato di Cordova. 1063-1064 Conquista della città di Coimbra. 1094-1095 Enrico di Borgogna sposa Teresa, figlia di Alfonso VI di León e Castiglia, ricevendo in feudo le terre del Condado Portucalense fra i fiumi Miño e Tago. 1109 Alla morte di Alfonso VI di León e Castiglia, Enrico di Borgogna rende indipendente il Condado Portucalense. 1114 Il titolo di conde del Portogallo passa ad Alfonso I Henriques, figlio di Enrico di Borgogna. 1139-1140 Alfonso I vince contro i musulmani nella battaglia di Ourique e, secondo la tradizione, viene proclamato re. 1143 Alfonso VII di Castiglia riconosce l’indipendenza del Regno del Portogallo. 1147 Conquista di Lisbona. 1217-1249 Conquista dell’Alentejo e dell’Algarve. Il Portogallo raggiunge i confini territoriali attuali. 1279-1325 Sotto Dionigi I, il Paese conosce un grande momento di fioritura economica. Nel 1290 viene fondata l’Università di Lisbona; il portoghese diviene lingua nazionale. 1383 La morte di Fernando I pone fine al dominio della casa borgognona sul trono del Portogallo. Il Paese, tenuto dalla reggenza di Leonor Téllez de Meneses, è invaso dai Castigliani. 1385 Giovanni I d’Aviz vince le truppe castigliane ad Aljubarrota e sale al trono. Con lui ha inizio la dinastia degli Aviz che porta il Portogallo a raggiungere i massimi traguardi di espansione e crescita. 1415 Conquista della città nord-africana di Ceuta. 1419-1482 Colonizzazione delle isole atlantiche (Canarie, Azzorre, Madera, Capo Verde) e della costa del Golfo di Guinea. 1487 Bartolomeu Dias doppia il Capo di Buona Speranza. 1494 Accordo di Tordesillas tra la Spagna e il Portogallo per la divisione delle terre scoperte. 1495 Sale al trono Manuel I e con lui, fino al 1521, il dominio coloniale portoghese raggiunge la massima espansione. 1497-1511 Vasco da Gama arriva a Calicut; Pedro Alvarez Cabral sbarca nel Brasile, e Afonso de Albuquerque prende possesso di Malacca e delle isole del Pacifico orientale. 1557 Occupazione di Macao. 1578 Muore re Sebastiano, ultimo degli Aviz, e Filippo II annette temporaneamente il Portogallo all’impero spagnolo. dei suoi marinai e vagò nel deserto fin quando non intercettò un gruppo di indigeni (da quaranta a cinquanta) di cui gli riuscí di catturarne un paio. Tornato sulla riva del mare incontrò un altro esploratore, il già ricordato Nuno Tristão, il quale, obbedendo agli ordini del re, stava spingendosi verso la costa meridionale del golfo di Arguim. Solleticato da questo piccolo successo di Gonçalves, Tristão decise di effettuare un’altra incursione con gli equipaggi delle due caravelle.

L’«impresa» di Antão Gonçalves

«Fu tale la loro fortuna – scrive Zurara – che in piena notte si imbatterono nel luogo dove molti individui dormivano per terra, chi qua chi là, raccolti in due accampamenti (...) e siccome i due accampamenti erano vicini i nostri si divisero in tre gruppi per poterli sorprendere meglio, dato che non avevano visto bene la configurazione del luogo dove si trovavano [quegli uomini], ma ne avevano solo percepito la presenza (...) E quando

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Incisione raffigurante un prete seguito da un giovane servitore e da uno schiavo nero. Scuola francese, XVI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. L’utilizzo delle caravelle per le esplorazioni ampliò la conoscenza dell’Africa, ma innescò anche il fenomeno della tratta di migliaia e migliaia dei suoi abitanti. luglio

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Dom Enrique

Navigatore, ma solo di nome Figlio del re Dom Juan I, il principe portoghese Dom Enrique (1394-1460), a dispetto di quanto a volte si legge, non salí mai al trono. Organizzò e gestí invece i viaggi di esplorazione sulle coste dell’Africa occidentale, meritandosi il titolo di «Navigatore», anche se

personalmente prese il mare solo tre volte in tutta la sua vita. Nel 1420 fu nominato «regidor» dell’Ordine di Cristo, fondato nel 1319 in Portogallo per incamerare i beni dei Templari: in questo modo Enrique ebbe a disposizione i fondi per iniziare e proseguire i viaggi di esplorazione.

furono vicinissimi li attaccarono con vigore gridando a gran voce “Portogallo e Santiago!”» La paura gettò i loro nemici in un tale scompiglio che cominciarono a fuggire senza alcun ordine. Gli uomini però tentarono di difendersi, usando le zagaglie (non sanno infatti adoperare altre armi), e uno in particolare affrontò Nuno Tristão e lottò fino alla morte. E oltre a costui, che Tristão uccise personalmente, i nostri ne uccisero tre e ne catturarono dieci, tra uomini, donne e bambini (...) e tra quelli che vennero catturati c’era uno dei notabili e si chiamava Adahu». Tristão, essendo già cavaliere, poté ricompensare subito Gonçalves per la sua «impresa», facendolo a sua volta cavaliere. Nel 1442 arrivò a Lisbona un altro e piú importante carico di schiavi, che impres-

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sionò i contemporanei per la facilità con cui si poteva diventare ricchi, e da quel momento le incursioni sulla costa africana (e anche sulle Canarie, dove a essere colpite erano le popolazioni indigene precedenti alla colonizzazione castigliana) divennero piú frequenti. Nel 1443 Lançarote de Freitas guidò una spedizione ancor piú importante delle precedenti, mettendo insieme una squadra di ben sei caravelle. Le navi erano arrivate fin nel golfo di Arguim, quindi avevano messo a terra un gruppo di uomini che aveva assediato una «città» (ma è piú probabile che fosse solo un grande villaggio) fino alla sua conquista. Erano stati fatti 165 prigionieri, tra uomini, donne e bambini, a cui se ne aggiunsero altri 70 circa nel corso di altri brevi raid compiuti durante il viaggio di ritorno: in tutto piú di duecento prigionieri, sbarcati a Lagos sotto gli occhi dell’Infante.

Assalti notturni

Secondo lo storico inglese Malyn Newitt, proprio l’avidità spinse sempre piú a sud i mercanti di schiavi dell’Algarve: le loro incursioni, infatti, avevano successo solo nelle regioni in cui ancora non erano conosciuti, perché non appena le popolazioni locali si rendevano conto del pericolo spostavano i loro insediamenti all’interno della costa, rendendo impossibili gli attacchi a sorpresa. L’esploratore veneziano Alvise Cadamosto scrisse in seguito che in questo periodo «solevano le caravelle de Portogallo venire a questo colfo d’Argin armate, quando quattro e quando piú, e saltavano in terra di notte assalivano alcuni villaggi de pescatori e anche scorrevano fra terra, in modo che prendevano di questi Arabi, sí mascoli come femmine, e conducevalni in Portogallo». Già nel 1455 i Portoghesi trasportavano in Europa da settecento a ottocento «teste» (ossia schiavi) all’anno, una cifra troppo alta per essere raggiunta solo con le incursioni contro i piccoli villaggi costieri e che presupponeva una organizzazione quasi «industriale». Dal 1443, infatti, il principe Dom Henrique aveva ottenuto dal sovrano suo fratello il monopolio del traffico africano; subito dopo si era fatto nominare governatore dell’Algarve, e qui aveva organizzato una specie di compagnia commerciale per gestire le spedizioni sulla costa, la cosiddetta Parceria (compagnia commerciale). Quindi aveva subappaltato il monopolio del traffico con Arguim ad altri mercanti, i quali avevano costruito sull’isola una specie di castello-fattoria, dal quale controllavano i traffici della zona. I Portoghesi portavano nella regione cavalli, panni, argenti, tappeti, ma soprattutto frumento: in cambio ricevevano appunto schiavi che arrivavano dai regni arabi dell’interno. Fu questo l’inizio, carico di tristi presagi, delle relazioni tra l’Europa e l’Africa. F

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di Furio Cappelli

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Teodorico,

il Goto che volle farsi romano Una tradizione lo vuole precipitato nel regno degli inferi, per un’altra è un sovrano illuminato. La figura del re degli Ostrogoti è avvolta nella leggenda: dedicò la sua vita al perseguimento dell’ideale della Roma imperiale, e fu sempre cosciente del fatto che l’uso delle armi non era sufficiente a conferire grandezza a un popolo

Xilografia nella quale si immagina il passaggio delle Alpi da parte degli Ostrogoti, guidati da Tedorico, da un disegno di Wilhelm von Lindenschmidt. 1880 circa. La scena si riferisce alla discesa in Italia, nel 488-489, attuata con l’intenzione di spodestare Odoacre e stabilirvisi.

Sommario aqui num quidis inum rem iliciis velendaes nostin ratioris estiore porrume moluptatibus dollaccus, nit ra idus doluptam eicit et vel et qui blam si reiumet omnisti onsedig entiis vid quamet apid ma volore explam nimuscium excearc hillatiore mo voluptatio. Ecaepra consectatur, officatus. Nihil iume pernatis quid unt fugia cust quas alique sinciat ut lante volumque nihil erum conem eium quam volorem remolli quiae. Ita nus rem. Arum quisimendit


Dossier

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l vecchio re Teodorico ristora le sue logore membra facendo un bagno fuor di Verona. È triste e pensieroso. Gli torna alla mente la tragedia che si era consumata durante un banchetto a Tulna (Vienna), laddove Crimilde, compiendo una strage, aveva vendicato l’assassinio del marito Sigfrido, finendo ella stessa trafitta a morte: solo Teodorico ne era uscito vivo. Il re si lascia poi avvincere dalla contemplazione dei monti, che gli riportano alla mente i giorni gloriosi in cui era giunto in Italia alla guida della

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sua gente. In quel mentre viene richiamato alla realtà dalle grida di un paggio, che lo informa di aver visto un meraviglioso cervo. Sentito ciò, Teodorico esce d’un balzo dall’acqua, sguinzaglia la muta dei cani e, armato di lancia, sale in groppa al suo morello con gli scudieri al seguito. Del cervo non c’è traccia, ma in compenso appare un maestoso cavallo nero, pronto per essere cavalcato. Teodorico non esita a montarlo, e finisce nei guai. Il destriero dagli occhi di fuoco, insensibile alle redini, galoppa piú veloce di

una freccia. Il re, terrorizzato, vorrebbe scendere a terra ma non gli è possibile. Il piú vecchio e fidato dei suoi scudieri lo segue finché può, invano. Il cavallo sale verso il cielo e sorvola tutta l’Italia, concludendo il suo folle volo sul cratere dell’Etna. Quivi giunto, emettendo un forte nitrito, si impenna e fa cadere il re in fondo alla dimora di Vulcano. Proprio in quel momento, sulla cima del monte, attorniato dal biancore dei capelli, appare il volto radioso di Severino Boezio, sereno e (segue a p. 80)

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A destra pezzo in oro da tre solidi con il ritratto di Teodorico, re dei Goti. Emissione della zecca di Roma, 493 (?). Roma, Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo, Medagliere. In basso la veduta a volo d’uccello della città di Verona nel X sec. nota come Iconografia Rateriana, perché attribuita al vescovo Raterio, che, in realtà, ne fu solo il possessore. L’immagine fu realizzata presumibilmente tra il 915 e il 920-922 e fu conservata fino al 1793 nel monastero belga di Lobbes. In seguito alla soppressione degli ordini religiosi, andò dispersa, ma la Biblioteca Capitolare di Verona ne conserva la copia fatta realizzare nel 1739 da Scipione Maffei.

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gli anni di teodorico 454 circa Nasce da Teodomiro re degli Ostrogoti della stirpe degli Amali. 462 Viene inviato dal padre come ostaggio a Costantinopoli, dove si forma a corte immerso nella civiltà greco-romana, e vi rimane fino al 472. 474 Tornato presso il suo popolo, succede al padre e si destreggia nelle vicende politiche, schierandosi al fianco dell’imperatore Zenone e ricevendo in cambio titoli e onorificenze. 488 Inviato da Zenone, parte per l’Italia per sconfiggere Odoacre, re degli Eruli, che da 12 anni regna sulla Penisola dopo aver deposto l’imperatore d’Occidente nel 476. 493 Dopo ripetute sconfitte e un assedio di tre anni a Ravenna, Odoacre si arrende a Teodorico, il quale, però, dubitando della sua fedeltà, lo fa assassinare dopo la resa. Acquisita la supremazia sull’Italia, si dedica quindi a consolidare il suo potere. Favorisce la convivenza tra Romani e Goti, promuove agricoltura ed edilizia e contrae matrimoni politici con le altre case regnanti. 498 L’imperatore Anastasio I riconosce il potere di Teodorico sull’Italia. 523 L’imperatore Giustino I promuove la persecuzione degli Ariani. Teodorico, sospettando l’aristocrazia senatoria romana di complottare con l’imperatore, ne condanna a morte i principali esponenti (tra cui Boezio) e costringe papa Giovanni I a recarsi a Costantinopoli per sostenere la causa degli Ariani. 526 Le persecuzioni continuano e Teodorico fa imprigionare il papa. Abbandonato dai Romani, Teodorico muore poco dopo senza eredi, designando come successore il giovane nipote Atalarico. Viene sepolto a Ravenna in un monumentale mausoleo.

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Dossier Iconografia

Teodorico e Orlando a Verona Nelle lastre che ornano il portale della basilica di S. Zeno, il re cavalca un possente destriero, suonando inutilmente il corno, mentre un cane della sua muta è alle costole del cervo: alla fine

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della corsa attende paziente il diavolo, all’entrata dell’inferno. Recita l’epigrafe di commento: «Oh, il Re dissennato ha chiesto un dono all’Inferno, e subito si è presentato un cavallo inviato dal Diavolo. [Il Re] esce nudo dall’acqua, e cavalca verso gli

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Inferi senza poter tornare indietro. Il cavallo, il cervo e il cane che gli vengono dati, sono offerti dall’Averno». Le immagini, come ha sottolineato la storica dell’arte medievale Deborah Kahn, rientrano nel complesso schema iconologico della facciata. Si trovano sulla fascia basamentale

Sulle due pagine Verona, S. Zeno. Il portale della basilica (nella pagina accanto), ornato da due lastre che offrono la piú antica rappresentazione della leggenda di Teodorico. Nel registro piú basso della fascia sinistra, attribuita a maestro Guglielmo (in alto), vi sono scene che, secondo l’autore, alluderebbero al duello tra il paladino Orlando e il saraceno Ferragut. Nella fascia destra, attribuita invece a maestro Niccolò, è rappresentata la caccia al cervo da parte del sovrano (a destra).

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a destra dell’ingresso, e, sopra di esse, si svolge il racconto dell’Antico Testamento. Dalla parte opposta (laddove ha lavorato maestro Guglielmo) fanno pendant due lastre dedicate alla leggenda di Orlando, nelle vesti del cavaliere giusto e difensore della fede che si batte

contro il saraceno Ferragut. Seguono, in alto, le storie del Nuovo Testamento. Il re Teodorico si pone al di fuori del tempo e della legge di Dio: dopo di lui compare in scena Adamo. Il conte Orlando si pone invece sotto la grazia di Dio, e le sue gesta preludono all’annuncio della nascita di Cristo.


Dossier sorridente, benché un rivolo di sangue ricordi la sua dolorosa fine. Abbiamo cosí riassunto La Leggenda di Teodorico, una famosa poesia di Giosuè Carducci che attinge ai vari racconti favolistici scaturiti già nel Medioevo dalla pregnante figura del re ostrogoto. Teodorico (o, se si preferisce, Teoderico), il cui nome significa «principe del popolo», aveva infatti tutte le carte in regola per entrare nel mito. Era nato tra il 451

e il 454 da una stirpe barbarica (gli Amali) tra le steppe della Pannonia (nell’attuale Ungheria meridionale).

Coraggio e saggezza

Da adolescente, lontano dalla sua terra selvaggia, aveva ricevuto una solida formazione intellettuale presso la raffinata corte di Costantinopoli. Aveva mostrato coraggio e determinazione in molteplici vittoriose occasioni sul campo di bat-

taglia. Giunto sul trono di Ravenna (493), aveva governato a lungo e con saggezza, sull’Italia e sull’Illiria. Sul suo nome incombeva però un delitto, l’assassinio del ricordato filosofo Boezio (480 circa-526). Fu Teodorico a disporre quell’esecuzione, che riassumeva la violenza turbinosa in cui piombarono gli ultimi anni del suo regno. Con la morte del sovrano (526), che avvenne in assenza di un erede, sembrava dis-

Ravenna. Il complesso architettonico noto come palazzo di Teodorico, situato nell’area della chiesa di S. Salvatore ad Calchi. La fabbrica doveva imitare un analogo edificio di Costantinopoli dotato di una monumentale porta bronzea, Chalké.

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solversi tutto ciò che aveva creato, e tutto ciò in cui aveva creduto. La vicenda del re ostrogoto era emblematica per descrivere in che modo la volontà divina si può abbattere su un uomo, sia pure potente, reo di un crimine inconfessabile. D’altro canto Carducci non dimentica che Teodorico era anche un eroe: era al cospetto della burgunda Crimilde quando ella volle vendicare l’amato Sigfrido, il protagonista

della saga dei Nibelunghi resa celebre da Richard Wagner. Se, sotto l’influsso della Chiesa, dominava l’immagine del re ariano (e dunque eretico) che si era macchiato di atrocità, l’epica del mondo germanico guardava con simpatia a Teodorico (riconoscibile sotto il nome di Dietrich von Bern, Beatrich, Teatrich), riservandogli il ruolo del prode guerriero, del cacciatore d’uomini che sfreccia nell’aria al seguito di una muta di quattro cagnacci «neri, pelosi, con occhi di fuoco», come recita una leggenda diffusa in Trentino. Gli uomini di Chiesa danno vita a un’immagine di segno opposto, e rendono il re vittima di una caccia fatale, in cui agiscono una potenza infernale (il cavallo nero) e una preda irraggiungibile che è simbolo proverbiale di purezza (il cervo). Alla purezza rimanda anche l’acqua da cui il re fuoriesce, per poi finire nel fuoco dell’Averno. La lirica di Giosuè Carducci è ambientata a Verona, laddove il re possedeva un cospicuo palazzo dotato di terme, e dove il famoso anfiteatro antico (l’Arena) era noto nel Medioevo come Ditrica (in riferimento al Dietrich del mito germanico) o domus Theodorici, forse a memoria del suo utilizzo come

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Frammento di mosaico pavimentale con figure umane e fregio spiraliforme, dal palazzo di Teodorico. V sec.

piazzaforte militare. E proprio la città veneta conserva la piú antica testimonianza della leggenda di Teodorico: è rappresentata su due lastre della facciata di S. Zeno Maggiore, scolpite dal maestro Niccolò e dal suo collaboratore Guglielmo intorno al 1140 (vedi box alle pp. 78-79).

I due volti di un re

Ancora oggi dipendiamo molto dalla visione di un Teodorico a due facce. Da un lato c’è il sovrano che riveste la porpora degli antichi sovrani dell’Occidente, sfoggiando degnamente la qualifica di princeps. Dall’altro lato c’è il tiranno spietato degli ultimi anni di governo, comparso all’improvviso come se l’anima selvaggia delle sue origini fosse riemersa senza freni, mandando in pezzi ogni parvenza di monarca romano fin lí pazientemente esibita. Persino il suo celebre mausoleo di Ravenna viene da molti suddiviso in due sezioni, che si sarebbero succedute proprio in coincidenza di questa svolta storica. La parte inferiore, piú vicina ai dettami dell’arte classica, riflette-

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Dossier

Il mausoleo ravennate si pone come testimonianza emblematica dell’ideologia di Teodorico 82

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rebbe un momento di pacifica convivenza tra Romani e Goti. La parte superiore, di gusto prettamente «barbarico», sarebbe invece in linea con gli umori degli ultimi tempi, quando il sovrano avrebbe gettato la maschera, trasponendo nella pietra i simboli e i costumi di un orgoglioso popolo nomade. Ma proprio il mausoleo, che costituisce una personalissima realizzazione seguita da Teodorico con estremo scrupolo fino alla sua morte, ci tramanda, in realtà, un’immagine del sovrano piuttosto compatta e coerente. La sua tomba è di per sé eloquente. Il sarcofago in porfido, al piano superiore, era in origine una vasca decorativa, realizzata probabilmente a Roma nel IV secolo. Il marmo purpureo rimanda alle sepolture degli ultimi imperatori romani di spicco, come Costantino o Teodosio, anche se nessuno di loro avrebbe riutilizzato una pur fastosa vasca per allestire il proprio sepolcro. Il «barbaro» Teodorico si riconnette a modo suo all’impero, cosí come il suo Nella pagina accanto il mausoleo di Teodorico a Ravenna, coronato da una cupola monolitica del peso di 230 t. In basso l’interno del mausoleo, con la vasca in porfido che il re avrebbe fatto adattare a proprio sarcofago.

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palazzo ravennate, ubicato nell’area del S. Salvatore ad Calchi, si rifaceva idealmente alla residenza di Costantino sul Bosforo: la Chalké era infatti la porta di bronzo che introduceva al palazzo imperiale.

Come un diadema

Il particolare fregio «a tenaglia», che corona l’esterno all’imposta della cupola, ricorda per la sua collocazione il festone del mausoleo di Cecilia Metella sulla via Appia, ma per la conduzione geometrica del suo disegno e per la sua partizione a sequenze staccate l’una dall’altra, non sembra un elemento architettonico, bensí l’ornato di una veste o di una finitura di lusso, in linea con i gusti dell’oreficeria tardo-antica, sia romana che germanica. Non a caso, nei forellini del fregio, incisi a trapano, sono state trovate tracce di pasta vitrea colorata. Si intendeva cosí suggerire l’idea che l’edificio nel suo complesso fosse la trasposizione in pietra di un diadema, con una banda intessuta di alveoli riempiti di smalto. Sotto al fregio, l’effetto doveva essere accentuato da ulteriori elementi ornamentali a corredo di una finta galleria di evidente spirito classico, mutuata dalle soluzioni dei mausolei imperiali, ma il lavoro

non venne completato. D’altra parte, la poderosa fascia basamentale, benché in linea con i modi dell’architettura romana, non ricorda affatto i mausolei, ma, ridotte «in scala», le strutture perimetrali degli anfiteatri, come il Colosseo o l’Arena di Verona. In questo modo le murature esprimevano al meglio la potenza richiesta dal carico della struttura. La cupola monolitica di 230 t che corona il tutto, suddivisa ritmicamente dalle sue 12 nervature esterne, corredate da epigrafi con nomi di apostoli e di evangelisti, allude alla Basilica degli Apostoli (Apostoleion) di Costantinopoli e all’annesso mausoleo di Costantino, oggi perduti, ed è significativo che la nuova Santa Sofia voluta da Giustiniano abbia lo stesso motivo di ripartizione in corrispondenza dei contrafforti esterni della cupola (rifatta nel 563). Nonostante l’enorme lavoro che dovettero richiedere l’estrazione, il trasporto e la posa in opera dell’«immane macigno», la soluzione del monolite di chiusura era coerente con l’utilizzo della pietra squadrata di grosso taglio in ogni parte della struttura (si tratta di un calcare fatto venire via nave (segue a p. 86)

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Dossier l’europa nel 526 d.C. Normanni

M a re del N o rd

Scoti

Sassoni

Anglosassoni

Bretoni

Colonia

T

Tournai

OCEANO franchi Clodoveo I, re dei Franchi, nel ritratto scolpito nella scena che rappresentava il battesimo del sovrano, dal timpano Nord della cattedrale di Reims. XIII sec. Reims, Palais de Tau.

Soissons

Parigi

Re gno

ATLANTICO

Metz

Reims

Orlèans

Nantes

dei Franchi

Strasburgo

Burgundi Lione Vienne

Lugo

Braga

Milano

Torino

Pavia

Tolosa

Svevi

Arles

Pamplona Palencia

Baschi

Urgel

Saragozza

Re gno dei

Barcellona Tarragona

Toledo

Visigoti

Lisbona

Ginevra

Valencia

Cordoba

Mar

Cartagena

Cadice Ceuta

Cesarea

Re gno dei Vandali

visigoti Particolare di un’llustrazione della fine dell’Ottocento raffigurante Clodoveo, re dei Franchi, che combatte vittoriosamente a Vouillé, nel 507, dove sconfisse il re visigoto Alarico.

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T


Danesi Balti

Slavi

tesoro di Gourdon e probabilmente riferibile alla cultura burgunda. Fine del V-inizi del VI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Turingi Bavari Longobardi

Ratisbona

Sulle due pagine l’assetto geopolitico dell’Europa al tempo di Teodorico.

Salisburgo

Gepidi Verona

Mar N e ro

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Fibula ostrogota, dalla tomba di Innithives nella necropoli di Villa Clelia (Imola). Età di Teodorico, 491-526. Bologna, Museo Civico.

o Alessandria

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Dossier dall’Istria o dalla Dalmazia). In piú, dava un tono di ardimento e di eccezionalità al piccolo monumento, degno cosí di apparire accanto al vasto Pantheon per la presenza di una cupola realizzata in un sol getto (anche se a Roma, al posto della semplice pietra, si utilizzò la malta cementizia). Ed è certo che con quel monolite (al cui sommo, all’interno, campeggia la croce di Cristo) il sovrano intendesse esprimere la forza, la tenacia e la purezza della sua ispirazione. L’architetto di fiducia Aloisio, forse siriaco, che per conto di Teodorico sicuramente lavorò alle terme e al palazzo di Abano (Padova) intorno al 510, visti gli elogi che meritò per mano di Cassiodoro, potrebbe essere stato il progettista del mausoleo. Già soltanto la volontà

Statua equestre di Marco Aurelio. 161-180 d.C. Roma, Musei Capitolini. Ancora nel XII sec. era convinzione diffusa che l’opera fosse un ritratto di Teodorico.

di realizzare un edificio in pietra squadrata di una tale qualità richiedeva comunque l’apporto di maestranze siriache, poiché solo in Siria perdurava una solida tradizione di architettura in pietra: basti vedere le strutture superstiti del santuario di S. Simeone lo Stilita a Qal’at Sim’an (480-90). D’altronde, se Teodorico avesse voluto affidare il monumento in tutto o in parte a un architetto di etnia gota, ben valeva in un caso del genere un detto attribuito al re, in base al quale un goto può imitare un romano, ma non viceversa. L’officina libraria che produsse a Ravenna il prezioso manoscritto delle Storie contro i pagani di Orosio, oggi alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, era gestita da un goto, il maestro Viliaric. Egli si firma come amanuense del codice, ma

quel volume non ha traccia alcuna di cultura gota: è un «pezzo» di arte tardo-antica.

Un orologio per il re

Le Variae del già menzionato Cassiodoro (490 circa-583 circa), edite tra il 537 e il 540, consentono di seguire passo dopo passo l’intero arco della vicenda storica di Teodorico, con particolare riguardo ai rapporti con gli altri re, attraverso una selezione delle lettere che il dotto senatore scriveva a nome del suo sovrano. Teodorico voleva tenere sotto controllo il regno burgundo, situato sullo scacchiere gallico in una posizione cardine tra il regno dei Franchi e il regno dei Visigoti. Avviò a tal fine relazioni diplomatiche, facendo affidamento sulla sua luglio

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Veduta del Foro Romano, con la Curia in secondo piano. Teodorico visitò Roma nel 500 e, tra l’altro, si recò nell’edificio che ospitava le assemblee del senato, dove fu accolto dal giovane Severino Boezio con un discorso di saluto.

superiorità come monarca romano. Poiché Gundobado, re dei Burgundi (vedi box a p. 89), aveva espresso il desiderio di avere un orologio solare e un orologio idraulico presso la sua corte, nel 507 il sovrano dà istruzioni a Boezio affinché predisponga i due congegni, e illustra le sue motivazioni al filosofo attraverso il calamo di Cassiodoro. La lettera si diffonde con ampie riflessioni sui prodigi della scienza intrecciate alle lodi della sapienza di Boezio, colui che ha trasfuso nel mondo romano tutto il genio del pensiero greco. Grazie alle invenzioni di Archimede l’uomo riesce a piegare ogni elemento della natura ai propri voleri, rendendo possibile ciò che è impossibile, trasformando il sogno in realtà. Grazie a Boezio,

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espressione di un ceto di alto livello che solo il mondo romano può vantare, le genti straniere possono vedere con i loro occhi il barlume di un mondo meraviglioso, fatto di sapienza e di virtú.

Il dono, segno del potere

Si tratta di una testimonianza molto preziosa, sia perché rivela le motivazioni nascoste dietro la «generosità» di Teodorico, per il quale l’invio di un dono è un efficace sostituto dell’azione armata, sia perché descrive bene il complesso di circostanze da cui scaturisce l’idea del dono come manifestazione di potenza. Gli ambasciatori dei Burgundi rientrano in patria magnificando i congegni che hanno potuto ammirare alla corte di Ravenna.

Punto nel vivo, Gundobado chiede a Teodorico l’invio di due orologi appositamente concepiti per il suo palazzo, in modo da impressionare a sua volta la sua gente, che non ha mai visto cose del genere. Il sovrano ostrogoto coglie la palla al balzo, mostrando come sia facile per lui mettere in cantiere due autentici gioielli della scienza e della tecnica. Non appena Boezio compie il lavoro, gli orologi vengono inviati alla corte di Lione. La lettera di accompagnamento indirizzata a Gundobado è breve e acuta. Teodorico afferma che i due orologi sono l’occasione per i Burgundi di sollevarsi dalla barbarie, in modo da porsi sullo stesso piano dei Romani. Essi, infatti, sono talmente selvaggi che ignorano l’uso delle ore, e vivono

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Dossier cosí in uno stato di confusione che rischia di degradarli al livello delle belve. Queste ultime, per scandire la giornata fanno soltanto ricorso ai segnali del ventre, che in vario modo avvertono quando è arrivato il momento di mangiare. È bene perciò che i Burgundi mostrino la volontà di uscire da questo stato primitivo, affidandosi alla lungimiranza di Gundobado, che, proprio richiedendo i due orologi, ha manifestato il desiderio di elevare la humanitas del suo popolo.

Un citaredo a Parigi

Piú sottile fu l’atteggiamento assunto nei riguardi di Clodoveo, re dei Franchi (481/82-511), anche perché il sovrano ostrogoto ne aveva sposato nel 493 la sorella Audofleda, e il loro era dunque un rapporto di alleanza familiare. Dopo un’importante vittoria riportata sugli amici Alamanni, che portava il regno di Clodoveo a diretto contatto con il regno di Teodorico, nel

506/507 quest’ultimo inviò un’ambasceria alla corte franca di Parigi, per mettere un freno all’espansionismo del bellicoso parente. I due ambasciatori portavano con sé un citaredo, epigono dei poeti che già nella Grecia antica recitavano i versi con l’accompagnamento della cetra. Era stato espressamente richiesto da Clodoveo, e per trovarne uno adatto allo scopo Teodorico si era affidato al solito Boezio, al quale non nascose l’importanza «strategica» del dono: dando briglia sciolta alle lunghe disquisizioni di Cassiodoro, il re ostrogoto afferma senza mezzi termini che quel citaredo altro non è che un novello Orfeo, chiamato a domare la natura ispida del barbaro con la dolcezza della musica. Uomo accorto, che sapeva servirsi delle armi quando l’arte della diplomazia non giungeva a segno, Teodorico prese una decisione risoluta e coraggiosa all’indomani della battaglia di Vouillé (507). In quella circostanza fu sconfitto l’alleato Alari-

Roma, basilica di S. Agnese. Il mosaico del catino absidale, nel quale, sulla destra, compare il ritratto di Simmaco, che fu papa dal 498 al 514, ma che dovette confrontarsi con l’antipapa Lorenzo.

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Gundobado

Militare e legislatore Gundobado, signore dei Burgundi (474-516), è contemporaneo di Teodorico. Come lui è di stirpe barbarica e di fede ariana. Il suo regno era situato nella Francia attuale, a nord della Provenza, tra Ginevra e Lione, laddove si estende la regione della Borgogna, che dai Burgundi prende il nome. Era uno Stato che, nonostante la sua indipendenza, si riconosceva come parte integrante dell’impero, al punto che Gundioco, un membro della famiglia reale dei Ghibicunghi (gli stessi evocati dal mito dei Nibelunghi), dopo il 460 poté divenire magister militum della Gallia. La nomina gli fu conferita dal cognato, il condottiero svevo Ricimero. In qualità di generale federato dell’esercito romano (456-472), co II, signore dei Visigoti, il cui regno si estendeva a tutta la Gallia meridionale fino ai confini del regno italico. Si trattava di un’alleanza su base matrimoniale di tradizione tipicamente germanica, a cui Teodorico aveva fatto piú volte ricorso. In questa occasione aveva fatto sposare ad Alarico sua figlia Teodicusa, nata dal suo matrimonio con la già ricordata Audofleda, sorella del sovrano franco Clodoveo. Nonostante questa accorta tessitura di rapporti, che doveva mettere a freno le iniziative militari dei signori d’oltralpe, lo stesso Clodoveo aveva preso le armi contro Alarico, e si era alleato a tal fine con il burgundo Gundobado. A Vouillé venne riportata una clamorosa vittoria che determinò la definitiva presa di potere dei Franchi sull’intera Gallia. Visto che le melodie intonate dal citaredo non avevano fatto breccia nel cuore di Clodoveo, Teodorico organizzò una spedizione che colse i nemici alle spalle. In questo mo-

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quest’ultimo era asceso ai massimi gradi del potere. Rientrava nel novero di quei militari che designavano gli imperatori (noti agli storici come Kaisermacher), e per primo agí per lunghi momenti come sostituto del principe sovrano. Gundobado ereditò dal padre Gundioco la carica di magister militum, e si mise al servizio dello zio. Su ordine dello stesso Ricimero, dopo cinque durissimi mesi di guerra civile, nel 472 decapitò a Roma l’imperatore Antemio, inutilmente rifugiatosi nella chiesa

di S. Crisogono. Alla morte del padre tornò in patria, ma mantenne con orgoglio la sua qualifica militare, e la tramandò al figlio come puro titolo onorifico, anni dopo la deposizione di Romolo Augustolo (476), quando ormai non aveva piú senso parlare di un esercito romano. A Gundobado si deve un corpo di leggi scritto in latino, il Liber Constitutionum, la cui piú tarda versione superstite, promulgata nel 517 dal figlio Sigismondo, è nota impropriamente come Codice burgundo o Lex Gundobada. Basata sul diritto romano, è una raccolta di editti e di leggi che riguardano sia i Romani che i Burgundi. Ancora nel IX secolo faceva testo come codice giuridico nella città di Lione. Croce in bronzo, dalla basilica ravennate di S. Vitale. VI sec. Ravenna, Museo Archeologico Nazionale.

do il suo regno si estese sulla fascia costiera della Provenza, dalla città portuale di Marsiglia, alla foce del Rodano, fino ad Avignone.

Forza e organizzazione

L’operazione si svolse in sei mesi, tra la fine di giugno e la fine di dicembre del 508, e risultò vincente grazie al connubio tra la forza militare ostrogota e la strategia or-

ganizzativa romana, assai preziosa nel rifornimento delle truppe e nell’amministrazione dei territori conquistati. Come sottolinea Vito A. Sirago, determinante, per esempio, fu il ruolo di Liberio, prefetto del pretorio a Ravenna, che passò a svolgere la stessa funzione in Gallia. D’altro canto un valoroso comandante ostrogoto, Toluin, entrò nel 526 nel novero del senato romano. Anche se l’illustre assemblea ammetteva solo romani di antica stirpe, a giudizio di Cassiodoro, che perorava la causa per conto di Amalasunta, figlia del defunto Teodorico e tutrice del nuovo re-bambino Atalarico, Toluin aveva tutta la virtus richiesta dalla carica. D’altronde egli era riuscito con le sue imprese a ricomporre una parte dell’antica res publica Romana, e l’espansione sul fronte gallico, arrivata addirit-

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Dossier i doni dei varni

Pellicce, schiavi e spade Tra il 523 e il 526 Teodorico ricevette un’ambasceria da parte del re dei Varni, un popolo germanico ricordato già da Tacito, ed entrato a far parte della confederazione dei Turingi, stanziatisi in Germania tra il medio corso dell’Elba e il Meno (nell’attuale regione della Turingia) intorno al 400. Nel 508 il re Erminfredo aveva sposato Amalaberga, figlia di primo letto di Teodorico. La sposa condusse con sé una lettera del re ostrogoto che magnificava le doti della donna, quasi fosse un prezioso distillato del mondo romano. Grazie a lei i Turingi potevano essere partecipi di tanta grazia: «La felice Turingia avrà quel che ha nutrito l’Italia». I Varni si ingraziarono il re ostrogoto inviando in dono pellicce di zibellino nere come la pece, giovani schiavi di rifulgente carnagione chiara e spade di eccellente perizia. Si tratta di un vero e proprio campionario delle «merci» europee piú richieste dal mercato intercontinentale a partire dall’VIII secolo. Come rileva Cassiodoro, scrivendo a nome del suo re la dovuta lettera di ringraziamento, le spade giunte in omaggio potevano spezzare un’arma qualsiasi in due parti, erano rifinite e rilucenti al punto di essere piú preziose dell’oro benché forgiate in acciaio, ed erano degne di uscire dalla fucina di Vulcano. Accludendo alla lettera doni di analogo tenore, Teodorico auspica che attraverso questo mutuo scambio di beni si possa stabilire un solido rapporto di fratellanza tra i Romani e i Varni. Manca del tutto l’atteggiamento un po’ spocchioso riservato in precedenza agli irrequieti «vicini» Burgundi e Franchi. Teodorico non sente l’esigenza di far sentire il peso della sua superiorità, e può cosí sfoggiare serenamente un ideale di uguaglianza dei popoli, su cui si innesta il desiderio di rendere tutti partecipi della luce gloriosa di Roma. tura a svalicare i Pirenei con la poco nota conquista di Barcellona (511), dava effettivamente l’impressione di una vera rinascita dell’antico impero. Cassiodoro faceva cosí tesoro degli ultimi successi di Teodorico, ed esprimeva gli estremi barlumi di un regno goto-italico in cui credette fermamente fino alla fine. Nell’aprile (o maggio) del 500, Teodorico si recò in visita a Roma, e fu accolto in trionfo dal popolo, che riconosceva in lui un nuovo Traiano o un nuovo Valentiniano, grazie anche al ritorno in auge della grande tradizione dei giochi e degli spettacoli. Dopo aver reso omaggio alla tomba di san Pietro, si diresse al Foro Romano. Nell’antica Curia, laddove si riuniva il senato, il giovane Boezio lo accolse a nome di tutti i cittadini con un discorso di saluto. La memoria del re rimase a lungo nella Città eterna, se molti, ancora nel XII secolo, ritenevano che

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il sovrano raffigurato nel gruppo equestre del Marco Aurelio fosse proprio lui, mentre il mausoleo di Adriano (ossia Castel Sant’Angelo), già utilizzato come piazzaforte militare nel VI secolo, veniva anche chiamato domus Thiederici. Roma continuava a essere una metropoli, forte di 200 000 abitanti, e il senato manteneva ancora una sua posizione di eminenza come custode della tradizione dell’Urbe. I piú saldi consiglieri di Teodorico, Boezio e Cassiodoro, che a Ravenna ricoprirono il ruolo di magister officiorum (ministro della casa e degli uffici di cancelleria del re), fecero parte dell’illustre assemblea.

Segni di cedimento

E proprio a Roma si creò la premessa dei gravi cedimenti della politica di Teodorico. Tutto ebbe inizio nel 498, quando si verificò uno scisma al momento dell’elezione del nuovo

papa: si strinsero intorno al vigoroso Simmaco le gerarchie ecclesiastiche e la popolazione dell’Urbe, mentre il mite asceta Lorenzo venne preferito dalle alte sfere dell’aristocrazia devota, che in senato poteva contare sull’appoggio, tra gli altri, dei membri dell’antica casata dei Decii. Simmaco riuscí a farsi valere, ma fu chiamato in giudizio nel 502 con diversi capi d’accusa tra cui, quello piú significativo, l’aver dilapidato i beni della Chiesa, violando un atto che un’assemblea di vescovi emanò nel 483 sotto la spinta del prefetto del pretorio. Con tale disposizione la nobiltà romana aveva voluto arginare l’autonomia del pontefice, impedendogli di gestire liberamente i propri beni. Il papa non solo contestò la validità del documento, ma si recò a una seduta del processo, nella basilica romana di S. Croce di Gerusalemme, con un vasto e irrequieto seguito di persone pronte a sostenerlo in ogni modo, memori delle sue generose elargizioni. Ne segue una baruffa che vede contrapposto il popolo romano alla soldataglia dei nobili «Laurenziani». A polarizzare il conflitto, come sottolinea lo storico francese Charles Pietri, c’è anche una dichiarata avversione di Simmaco verso la Chiesa bizantina: lo stesso imperatore Anastasio (491-518) ha parole di fuoco per il vescovo romano. Teodorico viene chiamato in causa per arbitrare i contrasti scoppiati in

damnatio memoriae Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Particolare della decorazione a mosaico in cui, per iniziativa del vescovo Agnello, tra il 556 e il 565, l’originaria rappresentazione di Giustiniano in trono e dei dignitari acclamanti fu sostituita con un tendaggio. L’intervento non fu però particolarmente accurato, poiché, come si vede nel particolare evidenziato dal riquadro, rimasero parti della raffigurazione precedente.

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Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Il ritratto a mosaico di Giustiniano che potrebbe essere, in realtà, un’effigie di Teodorico rilavorata, analogamente a quanto era spesso accaduto a Roma con le immagini degli imperatori.

seno all’Urbe, e si schiera con Simmaco fino alla fine del suo pontificato (514). Vuole cosí avere dalla sua parte il popolo, anche al costo di irritare l’impero. Un’ampia cerchia del ceto nobiliare, che cerca da tempo un legame con l’aristocrazia bizantina, risponde alla situazione con un astioso imbarazzo. Le tensioni erompono nel Circo Massimo, nel 509. Alcuni anni prima della ben piú famosa e cospicua rivolta del Nika (dall’incitamento degli spettatori: «Vinci!») a Costantinopoli (532), la designazione di un mimo della fazione popolare dei Verdi fa scatenare un tumulto. È una figura che richiama l’attenzione delle folle, con le sue parodie che prendono volentieri di mira i potenti, e la sua scelta assume quindi risvolti delicati. La fazione opposta (gli Azzurri, forse), che ha molte aderenze con la nobiltà romana, vuole a tutti costi imporre un proprio candidato, Helladius, un siriaco di Homs (Emesa) che aveva avuto i suoi giorni di gloria nelle arene di Costantinopoli. Gli Azzurri alzano la voce anche perché hanno dalla loro parte due membri della già ricordata casata dei Decii (nemici dichiarati di papa Simmaco), i fratelli Importunus, console, e Theodorus, patrizio. Gli stessi non esitano a inviare schiavi armati per reprimere le proteste dei Verdi, e uno di questi muore. Teodorico interviene per placare gli animi su entrambi i fronti, e dispone che vengano severamente puniti i crimini commessi a danno dei populares. Con la salita al trono di Bisanzio del rozzo Giustino I (518-527), l’impero aspetta il momento opportuno per togliere Teodorico di mezzo. Le repressioni antiereticali intraprese dal nuovo sovrano

creano fortissime tensioni in Italia, laddove i Goti sono in maggioranza ariani. Gli scontri di piazza tra le fazioni religiose vengono risolti con dure repressioni, ma le tensioni tra Goti e Romani rimangono, e si rafforza all’interno del senato una fronda sempre piú avversa a un re che è ormai un nemico del potente impero. Si giunge cosí alla crisi del 523, dopo la morte dell’erede designato Eutarico. Il senatore e console d’Occidente Flavius Albinus Junior, della già ricordata casata filobizantina dei Decii, invia a Giustino messaggi personali, nei quali esprime apertura e disponibilità verso la sua politica religiosa. Un delatore riesce a mettere le mani sulla corrispondenza, e Albino viene accusato di alto tradimento da Cipriano, un anziano membro del senato, che spera cosí di rabbonire Teodorico. Il re, infatti, reso iracondo e sospettoso dalla situazione generale in cui si trova impantanato, ha il dente avvelenato con l’aristocrazia romana.

Carte false contro Boezio

Boezio, che spinge anch’egli verso un accordo politico-religioso con Bisanzio, si reca alla corte di Verona e contesta fermamente le accuse rivolte al suo amico e collega. Lo fa in modo arrischiato, ergendosi a difesa di tutta l’assemblea. Dice infatti che Albino, nel caso fosse ritenuto responsabile di un qualsivoglia atto, dovrebbe essere condannato insieme a tutti gli altri membri del collegio. A quel punto il senato stesso prende le distanze, e viene ordita una macchinazione. Si creano documenti falsi che trasformano il filosofo in un paladino dei diritti di Roma di fronte alle pretese tiranniche dello Stato. Il re cade nel tranello, e non esita a condannarlo a morte, privandosi cosí dell’apporto di un uomo non solo colto e ingegnoso, ma anche fidato e integerrimo. Lo stato di depressione generale in cui cadde l’Italia dopo la guerra greco-gotica, ingaggiata da Giustiniano tra il 535 e il 553, è indiscutibile. Ci vollero secoli per ritrovare

nelle città della Penisola il fervore degli anni di Teodorico. Ravenna conobbe un momento di vitalità sotto il regno del vittorioso monarca bizantino, ma si trattò perlopiú di completare, modificare e restaurare quello che già era stato ideato e realizzato: la stessa chiesa di S. Vitale era stata iniziata sotto la reggenza di Amalasunta, che peraltro mise in opera una pregevole balaustra intorno al Mausoleo del padre. A tal fine aveva richiesto elementi di marmo istoriato a Giustiniano in persona, quando la guerra sembrava lontana. A S. Apollinare Nuovo, cappella palatina del grande re ostrogoto, l’arcivescovo Agnello tra il 556 e il 565 sostituí i corteggi dei dignitari con processioni di santi martiri, e l’immagine del Palatium divenne una quinta metafisica: a posto del sovrano in trono e dei dignitari acclamanti (di cui si scorgono ancora le mani e il profilo delle teste), appaiono oggi un fondo monocromo e una serie di tendaggi. Ma l’immagine di Giustiniano in controfacciata potrebbe essere un ritratto di Teodorico, adattato al nuovo principe cosí come nell’antica Roma si riutilizzavano le statue degli illustri predecessori. V

Da leggere U Ottorino Bertolini, Roma di fronte a

Bisanzio e ai Longobardi, Cappelli, Bologna 1941 U Chiara Frugoni, L’antichità: dai Mirabilia alla propaganda politica, in Memoria dell’antico nell’arte italiana, vol. I, Einaudi, Torino 1984; pp. 5-72 U Silvia Lusuardi Siena, Sulle tracce della presenza gota in Italia: il contributo delle fonti archeologiche, in Magistra Barbaritas. I Barbari in Italia, Garzanti-Scheiwiller, Milano 1990; pp. 509-558 U Pierfrancesco Porena, Teoderico in Italia, in Roma e i Barbari. La nascita di un nuovo mondo, Skira, Milano 2008; pp. 380-382

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scienza e tecnica gualchiere

«Batti il ferro...» di Flavio Russo

Fin dalla preistoria, con la lavorazione degli strumenti in pietra, la percussione fu una delle operazioni essenziali di ogni ciclo industriale. Un lavoro in sé banale e faticoso, che indusse l’uomo a escogitare macchine capaci di sostituirlo. E di generare, ove necessario, una potenza ben maggiore di quella delle braccia...

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a realizzazione di seghe idrauliche utilizzate per ridurre in lastre regolari i blocchi di marmo rappresentò, nel III secolo d.C., il debutto delle macchine destinate a sostituire con sequenze meccaniche elementari i monotoni e ripetitivi sforzi muscolari. L’azione delle lame, infatti, è un mero andirivieni, per cui un congegno del genere si limitava a trasformare la rotazione della ruota idraulica nel viavai della sega e, piú in generale, il moto rotatorio in alternativo. Quella prima applicazione, tuttavia, non ebbe seguito e la forza motrice dell’acqua, per buona parte del Medioevo, restò confinata ai soli mulini, conoscendo ulteriori impieghi soltanto dopo il XII secolo. E anche allora si trattò di macchine che mimavano il semplice gesto umano di alzare un martello o di spingere una leva, mutando i lenti giri di un albero nel cadenzato movimento di un braccio. Ne derivarono tre tipologie fondamentali di macchine, due delle quali definite «gualchiere», sebbene una adottata per la follatura dei tessuti con magli a impatto orizzonta-

le, e l’altra per la preparazione della carta, con magli a impatto verticale; la terza, invece, era il maglio per antonomasia per le sue grandi dimensioni, battuto su di un’adeguata incudine, impiegata nelle officine dei fabbri ferrai per la forgiatura. Circa la prima va ricordato che la follatura dei tessuti era già praticata nell’antichità e scaturiva dalla constatazione che i panni, bagnati con acqua calda arricchita con additivi naturali, si infeltrivano. In pratica il procedimento, eliminando i piccoli interstizi presenti tra trama e ordito, rendeva il panno morbido e al contempo saldo. In epoca romana il procedimento determinò delle vere e proprie industrie specializzate, fullonicae, nelle quali i panni, posti in ampie vasche colme d’acqua mista ad argilla, battuti energicamente dai piedi dei fulloni (saltus fulloni), si infeltrivano per essere poi sgrassati con l’urina, grazie all’ammoniaca in essa contenuta. Il lavoro, al di là delle conseguenze dovute al contatto prolungato con i suddetti liquidi e additivi, era faticoso e stressante, non a caso riservato agli schiavi.

Dall’acqua la forza

Intorno all’XI-XII secolo proprio per la follatura dei tessuti fu inventata, e presto si perfezionò, la gualchiera, denominazione tratta verosimilmente dalla voce verbale gualcare=calcare, come già in latino fullare=schiacciare, etimologia, questa, piú sensata fra le varie ipotizzate. Strutturalmente, consisteva in un edificio costruito in adiacenza di un corso d’acqua, o di una gora, che costituivano la fonte energetica per l’aliA sinistra un maglio ad acqua in un’antica officina di fabbro. Nella pagina accanto tavola raffigurante una gualchiera per la follatura dei tessuti, dal Theatrum Machinarum Novum. Nell’opera, scritta nel 1661 da Georg Andreas Böckler, sono illustrati tutti i sistemi di mulini per cereali, delle ruote idrauliche per la lavorazione di carta e minerali, per le segherie e altri usi. In questo caso sono indicati: A. Ruota idraulica azionata per trascinamento dal basso; B. Albero a camme per la movimentazione dei magli; C. Camma in legno; D. Magli per battere il panno; E. Fornace per riscaldare l’acqua della caldaia; F. Acqua con additivo per impregnare il panno usando il mestolo.

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scienza e tecnica gualchiere Ruota idraulica alimentata per caduta d’acqua, convogliata mediante un canale di derivazione da un bacino artificiale, una sorta di grande vasca, munito di saracinesca per regolare o interromperne il flusso.

Panno sottoposto a follatura mediante l’alternativa percussione di due magli. Sebbene la loro escursione tra sollevamento e ricaduta fosse sempre breve, essendo realizzati con legni pesanti percuotevano con violenza il panno compattandone la trama.

In alto lo schema di funzionamento delle camme, realizzate per questo tipo di gualchiere in forma di cuneo tronco, cosí da disporre della necessaria solidità richiesta per il sollevamento dei bracci dei magli.

gualchiera per l’infeltrimento dei tessuti

mentazione della ruota idraulica, il motore dell’impianto. In genere l’acqua impattava sulle pale cadendovi dall’alto, in quanto occorreva una potenza maggiore di quella necessaria per i mulini, dal momento che l’albero della ruota azionava direttamente i bracci dei pesanti magli, senza alcuna demoltiplica. Lungo il suo corpo, infatti, erano applicati spessi cunei, o camme, sporgenti di circa 15 cm, detti palmole, che provocavano la percussione dei magli. I rispettivi bracci, infatti, la cui estremità superiore stava imperniata in una sorta di castello, con quella inferiore sfioravano l’albero in corrispondenza delle camme, per cui erano spinti dalle stesse quando per effetto della rotazione li urtavano, e li rilasciavano non appena disimpegnate. Si originava cosí una sorta di oscillazione pendolare, che facendo prima sollevare e poi cadere i pesanti magli fissati all’estremità dei bracci, percuoteva energicamente il panno posto sulla loro traiettoria. Per esaltare la percussione, i magli avevano la parte anteriore sagomata a piú lobi, mentre il panno che doveva subirne gli impatti era collocato in una

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nicchia aperta lateralmente, ricavata in un grosso tronco. Con un ritmo di uno o due al secondo, i colpi si susseguivano sul tessuto, tenuto sempre bagnato con acqua calda, proveniente da una vicina caldaia mediante un apposito tubo. Considerando il forte attrito dei bracci sull’albero, il peso dei magli e la mancanza di ruote di demoltiplicazione, si deve concludere che il diametro delle ruota fosse maggiore dei tradizionali 3 m di quelle romane, che potevano contare su una fin troppo modesta potenza di 2,5 kw.

Argilla che pulisce e ravviva i colori

Anche nelle gualchiere medievali si ottimizzò l’azione dei magli sulle pezze, lunghe circa 34 m, tramite l’aggiunta di adeguati additivi, perlopiú costituiti da soluzioni alcaline, saponose o acide, che, provocando lo scorrimento e la compressione delle fibre, rendevano il tessuto piú morbido e cedevole. Inoltre il miscuglio di argilla, denominata smectite, dal greco smekticòs=capace di pulire, e soda di uso corrente luglio

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assorbiva i residui grassi e, al contempo, ravvivava i colori. I Fiorentini in base ai diversi livelli di lavorazione forniti dalle gualchiere, cioè di infeltrimento dei panni, li distinsero in sodati, gualcati e gualciti, il minore dei quali coincideva con l’antica follatura romana. In un trattato della metà del Quattrocento si può leggere al riguardo: «la pezza istà nelle gualchiere una notte, governata con l’acqua calda; e poi con dando due ramaioli di burro». Diversa era la conformazione delle gualchiere per la carta, in cui, al posto dei magli lobati per la percussione laterale ve ne erano di piú piccoli con diverse teste, ma sempre per la percussione perpendicolare effettuata in apposite pile di pietra di contenute dimensioni. Anche in queste macchine il tessuto giocava un ruolo fondamentale, avviandosi la procedura proprio dalla raccolta di stracci. Giunti alla cartiera, li si selezionava, asportandone qualsiasi orpello, fibbie e persino cuciture, e

Maglio ad acqua per fOrgiatura

li si differenziava in base all’essere di cotone, canapa o lino: dai primi si otteneva la carta piú pregiata dai secondi la piú scadente.

Raccolta differenziata

Gli stracci cosí selezionati, all’epoca boni, grossi e vergati, venivano gettati in tre distinti settori del contenitore di raccolta. Lo scarto si ammucchiava a parte, riservandolo alla produzione della carta da imballaggio. Dopo questa fase gli stracci erano sminuzzati e posti in vasche colme di acqua, i maceratoi o putrefattoi, dove, con l’aggiunta di calce, se ne migliorava la macerazione. Ma la trasformazione dello straccio macerato in pasta da carta, o pisto, ovvero la sua scomposizione in fibra elementare, nelle migliori cartiere si ottenne con l’adozione delle pile a magli multipli. In dettaglio, e per ampia schematizzazione, oltre alla ruota idraulica e relativo albero a camme, la mac-

L’albero, posto in rotazione dalla ruota idraulica, aveva, in posizione centrale, un anello di ferro al quale erano saldate le camme, sempre di ferro, a profilo stondato per favorire lo scorrimento del braccio.

In alto le camme utilizzate per la movimentazione del braccio del maglio, a causa del suo peso, erano di ferro con un profilo arrotondato per agevolarne lo scorrimento che lo abbassava.

Il braccio del maglio, posto in movimento dalla ruota idraulica, era sopportato dal muro che separava il vano della ruota idraulica da una estremità e da un basamento in muratura dall’altro, muniti entrambi di boccole di bronzo.

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scienza e tecnica gualchiere china constava di una robusta intelaiatura, rinforzata da spesse bandelle di ferro, alla quale, tramite adeguati bracci, erano vincolati i pesanti magli di legno di quercia, a sezione quadrata, alti mediamente 1 m per circa 15 cm di lato. Sollevati dai bracci, a loro volta sollevati dalle camme, ricadevano pesantemente sul fondo della vasca, senza che gli stessi bracci toccassero l’albero. Per accentuare la triturazione, il primo maglio della vasca, il cui fondo era protetto da una spessa lastra di bronzo, aveva la testa battente munita di massicci chiodi acuminati per ridurre gli stracci in sfilacci fibrosi. Il secondo, invece, solo di borchie piatte, dovendo trasformare gli sfilacci in fibre elementari. Il terzo, infine, privo di chiodi e borchie, omogeneizzava l’intero impasto. Durante la battitura l’acqua circolava liberamente nelle vasche per eliminare il sudiciume residuo, particolare reputato basilare per la produzione, e, al termine del ciclo, l’impasto finiva in un tino, da dove

Qui sotto le camme che azionavano il saliscendi delle traverse erano identiche a quelle delle gualchiere per la follatura dei panni, con una sezione a cuneo smussato.

Maglio ad acqua per la produzione di carta I bracci che provocavano il saliscendi dei magli erano ricavati da spesse traverse di quercia, imperniate a una estremità e sollevate dalle camme all’opposta. Per evitare che si potessero spostare lateralmente l’escursione avveniva in una apposita asola dei robusti montanti.

Bracci oscillanti dei magli, ricavati da travi di quercia a sezione quadrata di circa 15 cm di lato. La loro testa battente era differenziata in maniera da produrre, dopo una prima disgregazione del tessuto, la sua trasformazione a impasto omogeneo.

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La replica di una gualchiera medievale per la fabbricazione della carta a mano esposta nel Museo della Carta e della Filigrana di Fabriano.

era prelevato con una sorta di setaccio rettangolare. Distribuito sulla sua intera superficie, formava il foglio di carta che veniva posto ad asciugare su di un feltro, ottenendo alte pile dalla sovrapposizione di piú strati siffatti. Le pile, dopo un’asciugatura sommaria, erano poste in un torchio, che ne cacciava l’acqua residua, consentendo ai singoli fogli di essere stesi per la piena essiccazione in appositi locali ben arieggiati, come altrettanti fazzoletti sulle funi.

«Teste d’asino» per le fucine

Ultimi della serie erano i magli utilizzati dai fabbri per la forgiatura. Dal punto di vista tecnico la maggiore differenza con i precedenti consisteva nell’avere un unico grande martello, detto «testa d’asino», a percussione verticale, fissato con alcune zeppe a un robusto braccio, lungo tra i 2 e i 5 m, ulteriormente irrigidito da cerchiature di ferro. Il fulcro era abitualmente collocato a circa un terzo del braccio, per ridurre lo sforzo necessario a sollevarlo, e, non a caso, a differenza delle macchine precedenti, non veniva alzato dalle camme, ma abbassato. A riposo il maglio poggiava sull’incudine, sulla quale, grazie al suo ingente peso, ricadeva con forza. La testa d’asino era foggiata a tronco di piramide e la sua parte piú stretta, quella che batteva sull’incudine, era di acciaio piú duro, non di rado costituita, nei magli piú evoluti, da un elemento che vi si incastrava e inter-

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cambiabile secondo le particolari esigenze. L’incudine, per intuitive ragioni, oltre a essere di mole rilevante, era anche saldamente fissata al suolo e presentava la superficie di percussione molto dura, spesso costituita da una piastra di acciaio intercambiabile selezionata in base alle esigenze delle lavorazioni in corso. La lavorazione al maglio si effettuava con la barra di ferro incandescente, mantenuta con delle apposite tenaglie: i colpi che si susseguivano ne mutavano la forma secondo i desideri del forgiatore che, dandole l’inclinazione necessaria, la portava ad assumere la forma voluta. La plasticità del ferro, propriamente definita «malleabilità», durava finché era rovente – tanto che ancora si dice «battere il ferro finché è caldo» –, poiché il metallo, raffreddandosi, si irrigidiva rapidamente. In funzione della lavorazione in corso, poteva essere necessario utilizzare frequenze di percussione del maglio diverse e, per farlo, si modificavano i giri della ruota, variandone la quantità di acqua che l’alimentava con apposite saracinesche e paratoie. Nei magli piú evoluti tali chiuse venivano manovrate tramite una lunga stanga, non di rado azionata dallo stesso fabbro con pedaliera, una sorta di antesignano acceleratore. La combustione della forgia, infine, era esaltata mediante la continua immissione di aria, fornita dall’azionamento di grossi mantici, presto azionati anch’essi da un similare dispositivo idraulico. F

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Lonato (Brescia), la Casa del Podestà. L’edificio, nato per accogliere il funzionario che, per conto della Repubblica di Venezia, doveva amministrare la giustizia civile nella cittadina lombarda, fu acquistato nel 1906 da Ugo da Como. Questi, affidandosi all’architetto Antonio Tagliaferri, lo fece ristrutturare, conferendogli le forme d’impronta quattrocentesca che tuttora conserva.

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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luoghi lonato

Rivivere il Quattrocento di Sandra Baragli

«Mai vidi loco del piú bello aspetto»: cosí Isabella d’Este, nel 1514, descriveva la rocca di Lonato presso il lago di Garda. Un giudizio rimasto immutato secoli dopo, quando la Casa del Podestà fu acquistata da Ugo da Como, che ne curò la ricostruzione. Un’operazione non sempre filologicamente corretta, che tradisce una visione idealizzata del Medioevo caratteristica del primo Novecento MEDIOEVO

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ituata sulle colline che discendono verso il Garda, sulla strada che congiunge Brescia al lago, Lonato si trova in una posizione che risultò particolarmente strategica nei secoli compresi tra Medioevo e Rinascimento, quando la sua rocca dalle mura merlate, che ancora oggi sovrastano il paese, fu oggetto di contese tra i signori dell’Italia settentrionale. Dal 1441, e per oltre 350 anni (fino al trattato di Campoformio, nel 1797), interrotti soltanto tra il 1509 e il 1516 dal breve governo di Francesco Gonzaga, la Rocca di Lonato fu sotto il dominio veneto. Sotto la Repubblica di Venezia il governo militare del paese spettava a

SVIZZERA

Pavia

Poco sappiamo della storia di questa struttura, sicuramente segnata dai numerosi conflitti nei quali Lonato e la sua Rocca furono coinvolti. Durante la guerra scoppiata nel 1628, la Casa del Podestà subí gravi danni, fu spogliata dei suoi mobili e in parte data alle fiamme (bruciarono soffitti e solai, le porte e le imposte).

TRENTINO ALTO ADIGE

Trento

Meraggio

Lecco Varese Como Bergamo Monza Milano

Guerre e devastazioni

Bormio

Chiavenna

Novate Mezzola

Novara

un provveditore, mentre la giurisdizione civile era di pertinenza del podestà, che veniva mandato da Brescia. Questi, per svolgere le sue funzioni, occupava un edificio costruito all’ingresso della Rocca, ancora oggi noto come «Casa del Podestà».

Brescia

VENETO

Lonato del Garda Cremona

Verona

Mantova

Meda

Piacenza Alessandria PIEMONTE

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EMILIA-ROMAGNA Parma

Reggio nell’Emilia Modena

A sinistra cartina della Lombardia con l’ubicazione di Lonato, nei pressi del Lago di Garda. In basso veduta di Lonato, con, in primo piano, la torre maestra. Alta 55 m, fu innalzata nel 1555 e faceva parte del sistema di fortificazioni di cui il borgo si era dotato.

Alla fine del Settecento, con la cessione di Venezia all’Austria da parte di Napoleone, l’edificio fu trasformato in caserma e in seguito divenne di proprietà del Comune, fino a quando, nel 1906, fu acquistato da Ugo da Como, avvocato e uomo di vasta cultura, esponente liberale, deputato, poi sottosegretario al Tesoro e, nel 1920, senatore. Questi, riconoscendone l’importanza storica, incaricò del restauro uno dei piú importanti architetti bresciani dell’epoca, Antonio Tagliaferri (1835-1909), formatosi presso l’accademia milanese di Brera, già autore di importanti interventi di restauro, come quello al Santuario delle Grazie a Brescia e al castello Bonoris di Montichiari (1890-1892). In entrambi i casi, Tagliaferri aveva cercato di adeguare il piú possibile la ricostruzione di fantasia a materiali storicamente coerenti, uguali a quelli dei monumenti originali dell’epoca, nel desiderio di restituire un insieme omogeneo, che privilegiasse un particolare stile architettonico (in questo caso il gotico), senza tenere conto delle stratificazioni stilistiche. Riguardo ai restauri della Casa del Podestà, Ugo da Como intendeva restituire all’edificio, da decenni in stato di abbandono, l’aspetto quattrocentesco, per dare vita, una volta adeguatamente arredata, a una casa-museo da abitare, secondo una moda molto diffusa all’epoca (basti pensare a Frederic Stibbert a Firenze, a Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi a Milano, a Giorgio Cini a Mon-

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A sinistra la Sala della Vittoria, nella Biblioteca della Casa del Podestà di Lonato. In basso Ugo da Como, nel ritratto commissionato a Emilio Pasini (1872-1953). Lonato, Fondazione Ugo da Como, Casa del Podestà.

selice, le cui dimore, come quella lonatense, sono oggi importanti musei aperti alla collettività).

Ricostruzione filologica

La casa si presenta cosí come un bell’esempio dell’immagine che del Quattrocento si aveva al principio del XX secolo: Tagliaferri, infatti, mise in sicurezza l’edificio, rispettandone piú o meno lo stato, ma eliminando tutti gli elementi non ritenuti dell’epoca. I risultati dell’attento lavoro di ricostruzione, per il quale furono impiegati molti manufatti e pezzi frutto di demolizioni e recuperati sul mercato antiquario,

sono particolarmente evidenti nella facciata, coperta di intonaci policromi, graffiti, frammenti antichi in pietra, stemmi, decorazioni in terracotta, e nella quale furono inserite bifore ad arco acuto, con elementi in ferro battuto come i portafiaccola. Secondo un’usanza che si ritrova in tutta la casa (vedi box a p. 105), un’iscrizione latina posta sul portone d’ingresso e probabilmente composta dallo stesso da Como, recita il motto «Ferream aetatem excipit amicitia et quies» («Amicizia e quiete confortano il duro vivere»). Il gusto neogotico fu rispettato anche nella ricostruzione degli

La Fondazione

La passione per la storia Ugo da Como morí a Lonato nel 1941. Nel testamento dispose l’istituzione di un ente autonomo, avente come fine la promozione e il sostegno della cultura. Questo è l’obiettivo tuttora perseguito dalla Fondazione Ugo da Como, custode della Casa del Podestà e della Biblioteca con i suoi 30 000 titoli, prezioso lascito del Senatore, che aveva dedicato gli ultimi anni della sua vita al collezionismo e alla raccolta di libri e alle ricerche storiche sulla storia bresciana napoleonica e risorgimentale (www.fondazioneugodacomo.it).

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luoghi lonato La rocca

Da lí lo sguardo si perde nell’infinito... La Casa del Podestà fa parte di un complesso monumentale dominato dalla Rocca visconteo-veneta, acquistata anch’essa da Ugo da Como nel 1920 e, dal 1941, secondo le sue volontà, facente parte della Fondazione. L’origine della fortificazione risale verosimilmente alla fine del X secolo, anche se le attestazioni documentarie sono di incerta interpretazione. Importanti opere di costruzione, ampliamento e ristrutturazione si ebbero tra il XIV e il XV secolo, per volontà dei Visconti e degli Scaligeri e ancora oggi, nonostante i numerosi interventi subiti nel corso dei secoli, la struttura del castello di Lonato conserva le evidenze architettoniche dell’epoca. La fortificazione è costituita da due corpi, la Rocchetta, nella parte piú alta e il «Quartiere principale», in basso. La muratura è composta da grossi ciottoli morenici e presenta una merlatura di tipologia guelfa, frutto di sommari restauri avvenuti in passato. L’accesso avviene attraverso una porta con ponte levatoio sul lato meridionale, ripristinati da un restauro del 1980. L’aspetto della Rocca è imponente e da essa è possibile abbracciare con lo sguardo un territorio amplissimo, come ben descrisse al marito Isabella d’Este, nel 1514: «Son stata a vedere la rocha (…) ben gli dirò che mai vidi loco del piú bello aspetto di quella et presi grandissimo spasso et recreatione a farmi nominare le terre infinite che se vedono».

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In basso l’ingresso alla rocca visconteo-veneta, la cui fondazione avvenne con ogni probabilità nel X sec. L’aspetto attuale è frutto dei numerosi rimaneggiamenti succedutisi soprattutto tra il XIV e il XV sec.

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A sinistra la sala da pranzo della Casa del Podestà, che Ugo da Como volle il piú possibile somigliante ai modelli quattrocenteschi di simili ambienti.

erano destinati, secondo la disposizione «di rappresentanza» tipica di una casa borghese degli inizi del Novecento (coesistono cosí il «salottino settecentesco», il «salotto barocco», la «sala da pranzo rinascimentale»...).

Uomini in arme

interni (con l’utilizzo di soffitti in legno dipinto provenienti da nobili dimore bresciane, camini, affreschi strappati), creando, tuttavia, ambienti di stile diverso, eclettico, grazie anche all’arredamento estremamente curato, che vede affiancati oggetti artistici di varie epoche, provenienti dal mercato antiquario e assemblati con gusto, in un susseguirsi di sale, camere, studi e salotti, sale da pranzo, cucine, con stili di riferimento associati alla funzione per la quale

Uno degli ambienti piú interessanti è la cosiddetta «Galleria», corrispondente all’ingresso e strutturata per essere una stanza di rappresentanza. Si tratta di un vasto ambiente, probabilmente ricavato grazie alla chiusura di un porticato. Le pareti, che si ritiene siano quelle della facciata del nucleo originario della Casa del Podestà, presentano ancora frammenti degli affreschi che le decoravano, tra cui una Madonna in trono con Bambino del Quattrocento e stemmi delle famiglie di appartenenza dei podestà che ressero Lonato. Sulla parete sono stati posti anche quattro ritratti di uomini d’arme (strappi di affresco riportato su tela) acquistati da Ugo da Como nel 1929 e oggi attribuiti all’ambito di Girolamo Romanino, datati intorno al 1515. Le pareti affrescate, la presenza di archi a sesto acuto, l’arredamen-

scritti e motti

«Case parlanti» Seguendo una moda in uso in Italia agli inizi del Novecento e che vide nel Vittoriale di D’Annunzio (sul Lago di Garda) uno degli esempi piú celebri – tanto che il poeta stesso definiva «Casa parlante» la propria dimora – anche Ugo da Como fece dipingere numerosi motti (ben 12) sulle pareti della Casa del Podestà. Molti di essi richiamano il suo amore per la cultura classica e l’arte, spesso tratti dagli scritti di Seneca, l’autore piú amato, o da altri autori classici, o di sua stessa creazione. Eccone qualche esempio: «Hic mortui vivunt pandunt oracula muti» («Qui vivono i morti, muti svelano oracoli»), riportato in Biblioteca; «Intende animum studiis et rebus honestis» («Rivolgi l’animo agli studi e alle cose oneste»), nella «Sala della Vittoria» (ancora in Biblioteca).

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luoghi lonato

Antonio Tagliaferri

Tornare indietro nel tempo Nell’Italia post-unitaria si accese il dibattito sul restauro dei monumenti e sull’idea di un’architettura nuova, che doveva mediare tra stili storici e nuove tecnologie costruttive, nel tentativo di creare, come sottolineava Camillo Boito, uno «stile nazionale», che questi identificava nell’architettura lombarda e nelle «maniere municipali del

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Trecento». Antonio Tagliaferri e gli architetti della sua generazione sperimentarono la ricostruzione storica, che doveva al contempo conciliarsi con la creazione di un ambiente nuovo e abitabile secondo il nuovo gusto borghese. Le scelte stilistiche di Antonio Tagliaferri furono legate al desiderio della restituzione storica luglio

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to, con cassoni quattrocenteschi, una grande credenza, un lampadario in ferro battuto, riescono a ricreare l’atmosfera «fantastica» di una sala tardo-medievale. Un’atmosfera analoga si respira anche nella cosiddetta «Sala antica», dove un bel camino del Quattrocento, proveniente da un palazzo nobile di Brescia, e un soffitto in legno dipinto del Cinquecento, anch’esso dal medesimo palazzo, insieme all’arredamento tipico, rivelano l’estrema cura con cui Ugo da Como – che qui voleva ricreare una sala da pranzo del XV secolo – si dedicò alla ricostruzionecreazione dell’antica dimora. Oltre ai mobili, ai dipinti e agli oggetti di antiquariato, che arredano le sale, le cucine, il corridoio e le camere da letto al piano superiore, l’intera casa riflette l’amore per la cultura e per i libri di Ugo da Como, insaziabile collezionista di documenti e antichi incunaboli, soprattutto legati al territorio (in particolare stampati a Brescia o di tipografi bresciani operanti in altre città): sul soffitto della «Sala Cerutti», cosí chiamata perché vi erano stati collocati i libri antichi della biblioteca dell’erudito lonatese Jacopo Cerutti, è riportato il motto latino «Libri satiari nequeo» («Non riesco saziarmi di libri»); in un’antica cassaforte del Seicento (di produzione bresciana), posta

completa, in cui il tempo sembrava essere tornato indietro; lo stile architettonico prescelto nel restauro era perciò privilegiato rispetto agli altri, conservando e distruggendo allo stesso tempo, scegliendo ogni volta quello ritenuto piú adatto (in genere il gotico per le chiese, il Rinascimento per ville

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nell’atrio, è collocata un’importante raccolta di opere di Seneca; e, soprattutto, fu costruito un intero edificio, la Biblioteca, per accogliere la raccolta dei volumi.

Simile a una chiesa

Anche la Biblioteca fu realizzata in stile quattrocentesco (dall’ingegnere bresciano Arnaldo Trebeschi), con una facciata con rosone che ricorda una chiesa medievale lombarda. L’interno della prima sala, completamente rivestito in legno nella parte inferiore, è costituito da un coro monastico seicentesco. Le pareti, a cui si appoggiano quasi interamente gli scaffali lignei, mostrano la ricca collezione dei libri. Nella seconda sala sono conservate molte opere legate a Brescia e al suo territorio e un interessante bozzetto in bronzo, opera di Odoardo Tabacchi, per il monumento ad Arnaldo da Brescia, che Giuseppe Zanardelli volle collocato in una delle piú importanti piazze della città, dedicata al frate bresciano; monumento che attesta un importante momento della storia risorgimentale italiana. La Casa e la Biblioteca godono di un piacevole panorama e sono circondate da un bel giardino disposto su quattro terrazze, delimitato da un alto muro che ingloba una torre facente parte della cinta della Rocca, che completa questa casa-

e palazzi cittadini, il manierismo e il barocco per sedi di banche e uffici pubblici). Per farlo, Tagliaferri progettava ogni dettaglio in conformità a quello stile: a lui si devono anche i progetti per i marmi dei pavimenti, gli arredi, i decori, gli affreschi degli edifici restaurati.

Nella pagina accanto due dei ritratti di uomini in arme collocati nella Galleria della Casa del Podestà. Gli affreschi (strappati e montati su tela) vengono oggi attribuiti all’ambito di Girolamo Romanino e datati intorno al 1515.

Da leggere U La Fondazione Ugo da Como.

Guida illustrata al complesso monumentale, Grafo, Brescia 2005 U Massimo Marocchi, I Gonzaga a Lonato 1509-1515. Documenti inediti dall’Archivio di Stato di Mantova e dalla Biblioteca di Ugo da Como, Marco Serra Tarantola Editore, Brescia 2010 U Angela Marini, Storia della Rocca di Lonato, Pro Loco di Lonato, Calcinato (BS) 1985 U Gigliola Ogliani, La casa parlante. Scritte e motti latini nella Casa del Podestà, in I Quaderni della Fondazione Ugo da Como, A. 1 (1998) n. 1; pp. 39-42 U Giusi Villari, La rocca e il sistema difensivo di Lonato in età veneziana, in I Quaderni della Fondazione Ugo da Como, A. 4 (2002), n. 6; pp. 9-15 U Ruggero Boschi, La cultura architettonica bresciana nella seconda metà dell’Ottocento, in Elena Lucchesi Ragni (a cura di), Brescia 1876-1913 (Atti del VI seminario sulla didattica dei Beni Culturali, novembre 1982-maggio 1983), Editrice Vannini, Brescia 1985; pp.197-211 U Valerio Terraroli (a cura di), Antonio Tagliaferri (1835-1909). L’architettura come romanzo della storia, AAB Edizioni, Arti Grafiche Apollonio, Brescia 1999

museo destinata alle vacanze del proprietario. Interessante esempio di quello stile «eclettico» e del revival neogotico che caratterizzò l’arte e l’architettura europea della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento (e di cui a Brescia l’architetto Antonio Tagliaferri fu uno dei protagonisti piú insigni), ancora oggi l’edificio invita il visitatore a un viaggio nel tempo, testimoniando la storia piú antica e piú recente del nostro Paese e tenendo vivo un certo gusto per un’idea immaginifica di un Medioevo fatto di opere d’arte vere e ricostruzioni piú o meno filologiche. F

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caleido scopio

Lassú sulle montagne... cartoline • A 1600 m di altitudine, nel territorio di Elva (Cuneo), la parrocchiale

di S. Maria Assunta è uno scrigno di tesori d’arte. Ma non è l’unico: e lo si può scoprire ogni estate grazie alla rassegna Mistà, che coinvolge le molte perle del comprensorio

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ituata nel cuore delle Alpi Cozie, in un paesaggio naturale incantevole, Elva, è l’ultimo Comune dell’alta val Maira (Cuneo). Il paese, formato da diciotto borgate dall’impianto urbanistico e architettonico medievale, possiede un gioiello d’arte sacra medievale: la parrocchiale di S. Maria Assunta. Isolato dalle principali arterie di comunicazione, il luogo di culto si trova nel villaggio alpestre di Serre, ove ha anche sede il Comune, e si raggiunge seguendo tre carrozzabili. La via che dall’abitato di San Martino di Stroppo segue il percorso delle antiche mulattiere in direzione del colle S. Giovanni, la panoramica che svalica dalla val Varaita in val Maira, superando

con sinuosi tornanti e belvedere inattesi il colle di Sampeyre e infine la «strada dell’Orrido o del vallone». Quest’ultima, scelta da Giorgio Diritti come il lungo e tortuoso sentiero che conduce al paese di Chersogno nel film Il vento fa il suo giro, s’incontra svoltando al primo bivio dopo la frazione Bassura di Stroppo ed è il tragitto piú spettacolare dal punto di vista paesaggistico.

Tra canyon e gallerie Il tracciato, definito anche «Orrido di Elva», scorre per una decina di chilometri tra gole imponenti e deve la denominazione ai profondi canyon e alle dodici gallerie, scavate nella roccia agli inizi del Novecento

grazie all’interessamento dell’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Giovanni Giolitti (1842-1928). L’esistenza di un antico nucleo abitato in questa zona, estrema propaggine occidentale del Piemonte, al confine tra Italia e Francia, è documentata da una lapide di epoca romana: murato nel porticato che sormonta l’ingresso della parrocchiale, il manufatto riporta un’iscrizione in ricordo della sottomissione dei Liguri Montani ad Augusto. Nel Medioevo il territorio di Elva fu subordinato alla signoria dei marchesi di Saluzzo. In armonia con le ampie distese dei prati circostanti, la chiesa goticoromanica di S. Maria Assunta è stata fondata nel XII secolo. A sinistra Elva, parrocchiale di S. Maria Assunta. La Crocifissione dipinta dall’artista fiammingo Hans Clemer, attivo tra la fine del XV e gli inizi del XVI sec. Nella pagina accanto, in alto Elva, parrocchiale di S. Maria Assunta. Gli affreschi della volta, nei quali compaiono quattro coppie di personaggi raffiguranti i quattro Dottori della Chiesa e i quattro Evangelisti. 1440-1450.

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La fabbrica, ampliata alla fine del Quattrocento con l’aggiunta del presbiterio dalla volta a crociera e del campanile gotico dall’altissima cuspide piramidale, ingentilito da bifore al piano della cella campanaria, ha subito un’ulteriore modifica nel XVII secolo, con l’allungamento della navata principale e la realizzazione della cappella di S. Pancrazio, datata 1762. Al tempietto si accede varcando un singolare portale quattrocentesco. Composto da tre ghiere, sostenute da altrettante colonnine, presenta

Estate in musica Il programma di Mistà è accompagnato dall’omonimo evento musicale, che nei mesi di luglio e agosto, anima le chiese del circuito con manifestazioni di rilievo. Nel corso della rassegna si esibiscono artisti di vari generi, dalla musica classica al jazz, al folk internazionale e occitano. Questi edifici religiosi, però, sono anche custodi di originali affreschi a soggetto musicale, testimonianze rare e significative di quanto già nel Medioevo la musica fosse elemento quotidiano irrinunciabile. Tra le numerose pitture di questo genere si distinguono: il pastore con cornamusa nella chiesa di S. Peyre a Stroppo, il suonatore che accompagna Salomé nella danza (risalente al periodo 1120-1148) nella cappella di S. Salvatore a Macra e il suonatore di ghironda, strumento occitano per eccellenza, nella cappella di S. Stefano a Busca. nell’ingrosso del fusto con il saluto dell’arcangelo Gabriele a Maria. Vicino all’acquasantiera, il maestoso fonte battesimale trecentesco riporta un’incisione con le allegorie di vizi e virtú, e alcuni versi del Pater Noster, dell’Ave e del Credo in caratteri gotici.

Immagini allegoriche Gli stessi motivi allegorici di eco medievale del portale – un angelo vendemmiatore, i segni zodiacali, una donna sirena dalla coda bifida, curiosi demoni cornuti e con zampe ad artiglio intenti a cuocere due dannati in un calderone –, ritornano anche all’interno, scolpiti a basso rilievo sui grandi blocchi di nell’arco numerosi capitelli scolpiti con têtes coupées, sculture in pietra dal carattere artigianale, raffiguranti teste mozze.

Pittori itineranti Nella lunetta al di sopra dell’arco è affrescata la Maestà tra angeli. Il dipinto è probabilmente di Giovanni Baleison, un artista locale originario della cittadina di Demonte, in valle Stura. Formatosi sui moduli stilistici del maestro Pietro da Saluzzo, Baleison testimonia in maniera esemplare la figura del pittore itinerante medievale, dal momento che i suoi cicli a fresco sono disseminati nel comprensorio tra le valli del Marchesato di Saluzzo e le Alpi liguri e francesi, mentre la sua firma compare spesso associata a quella

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del prestigioso artista itinerante Giovanni Canavesio di Pinerolo. Entrati nella rustica chiesetta, un’arcaica acquasantiera attrae l’attenzione: collocata alla sinistra del portale d’ingresso e risalente al 1463, è stata realizzata dai fratelli Zabreri di Pagliero. Originari della borgata Chiabreri, nei pressi di San Damiano Macra, i tre fratelli – Stefano, Costanzo e Maurizio «de Zabreriis de Pagliero» – furono a capo, nel Quattrcoento, di una fiorente bottega di scalpellini, attivi sul territorio che dalla valle Varaita raggiunge la pianura cuneese. Portatori di un gusto artistico raffinato, intriso di elementi stilistici di derivazione nordica, questi lapicidi si specializzarono nei fonti battesimali a calice, interamente decorati e ornati

In basso la cappella di S. Salvatore a Macra, una delle chiese coinvolte nell’iniziativa Mistà-Chiese aperte nelle valli del Marchesato di Saluzzo.

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caleido scopio La raccolta dei capelli e altre storie Percorrendo i sentieri escursionistici nel territorio di Elva, si può scoprire la millenaria storia della località, che conserva intatti villaggi in pietra, edifici storici e, soprattutto, la cultura e la lingua occitana. Con un poco di tempo a disposizione, merita una sosta anche il Museo dei Pels. L’esposizione documenta il lavoro dei caviè (chabeliers). I raccoglitori di capelli femminili, che un tempo partivano da Elva all’inizio dell’autunno, al termine dei lavori agricoli, diretti in Lombardia, nel Veneto o in Francia, alla ricerca di ragazze disposte a cedere la propria chioma in cambio di qualche lira. Chiuso il raccolto in grossi sacchi, lhi Pelassiers (in dialetto occitano), tornavano a Elva, dove donne abili e pazienti lavavano, pettinavano e mazzettavano i capelli a seconda della colorazione, della lunghezza e della finezza. A lavorazione terminata, le file di trecce erano lasciate asciugare al sole sui loggiati delle abitazioni. Infine, spedite ai grossisti, erano trasformate in pregiate parrucche da esportare nelle principali città europee. pietra verde dell’arco trionfale, che incornicia il presbiterio. Gli elementi decorativi, intervallati da semplici motivi ornamentali (ruote, rosette, stelle e intrecci), sono opera di maestranze del posto con un linguaggio popolare dai toni espressivi marcati e comunicativi. Il capolavoro piú importante, custodito in questa semplice quanto straordinaria chiesina, smarrita a 1600 m di altitudine, è una Crocifissione, dipinta sulla parete di fondo del presbiterio. Qui l’artista fiammingo Hans Clemer, prediletto dal marchese di Saluzzo Ludovico II, ha affrescato negli anni a cavallo fra Quattro e Cinquecento la sua

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opera piú emozionate. Fedele al testo delle Sacre Scritture, Clemer, conosciuto come Maestro d’Elva fino all’identificazione nel 1985, ha rappresentato al centro il Cristo morente e ai lati i due peccatori.

Le anime dei dannati Alla destra il pentito ha lo sguardo rivolto al cielo, colorito pallido e corpo rilassato per il superamento delle sofferenze terrene. A sinistra il dannato ha gli occhi rivolti a terra, colori piú scuri e postura sgraziata. Dalle bocche dei due uomini esce l’anima, raccolta da un angelo al pentito e da un diavolo al dannato. Ai piedi della croce una Maddalena

A destra Villar San Costanzo. Particolare degli affreschi nella chiesa di S. Pietro in Vincoli. In basso il borgo di Chianale.

carica di pathos si contrappone all’immagine della Vergine addolorata, sorretta dalle pie donne e da san Giovanni Evangelista, e alla rappresentazione della rissa per il possesso della tunica di Gesú. Anche le scene sulle pareti laterali sono opera di Clemer. Disposte su tre fasce, narrano le Storie della vita della Madonna, dal concepimento senza peccato sino alla morte. Nell’ultimo riquadro l’artefice ne dipinge il decesso: la Madonna è adagiata su una barella, rivestita di drappi damascati e attorniata dagli Apostoli, secondo quanto scritto nei Vangeli Apocrifi. Vicino alla Vergine, due soldati vestiti alla turca rappresentano il popolo ebreo; come ebreo è il giovane Jefonia. Che ritratto di spalle, mostra le mani mozzate, perché reo di aver toccato il corpo di Maria per accertarsi che fosse realmente morta. Infine, negli affreschi della volta, compaiono quattro coppie di personaggi. Eseguiti da un autore ignoto, affine all’artista Pietro da Saluzzo, e risalenti al decennio 14401450, raffigurano rispettivamente i quattro Dottori della Chiesa e i quattro Evangelisti. Quest’ultimi sono seduti in uno scrittoio e ripresi nell’atto di vergare il Vangelo, ciascuno con il proprio simbolo apocalittico. La parrocchiale di Elva fa parte dell’iniziativa Mistà-Chiese aperte nelle valli del Marchesato di Saluzzo. Nata in luglio

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Lo scaffale Ubaldo Pasqui (a cura di) Documenti per la storia della Città di Arezzo nel Medio evo. Volume 4.: Croniche (secc. XI-XV)

(Arezzo, Bellotti, 1904), ristampa anastatica, Società Storica Aretina, 308 pp.

30,00 euro ISBN 978 88 89754 09 2 www.societastoricaretina.org

occasione del Giubileo del 2000, ogni estate la manifestazione turisticoculturale propone l’apertura dei principali monumenti religiosi d’età romanica e gotica, disseminati nelle valli occitane Grana, Maira, Varaita e Po, Bronda, Infernotto.

Echi della spiritualità popolare Le chiese di Mistà, poste in alta montagna e discoste dalle maggiori linee di transito, hanno conservato cicli di affreschi con episodi desunti dalla cosiddetta letteratura apocrifa. Si tratta di racconti non inseriti nei testi canonici della Chiesa, ma perpetuati dalla tradizione e dalla spiritualità popolare. È dunque possibile seguire un interessante itinerario alla ricerca di queste rarità iconografiche, come la scena del Miracolo del Grano. Questo fatto particolare, descritto nei Vangeli Apocrifi, compare di frequente nella pittura alpina tardo medievale, come dimostrano nelle alte valli cuneesi gli affreschi della parrocchiale di Sampeyre, quelli della cella campanaria di S. Andrea a Brossasco e della cappella di S. Sebastiano a Marmora. Espunto dalla narrazione ufficiale del Vangelo durante il Concilio di Trento e quindi non piú rappresentato dal Cinquecento in poi, il racconto si è mantenuto nella cultura religiosa popolare locale, come provano anche i testi di alcune canzoni tradizionali. Chiara Parente

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luglio

Si deve essere grati alla Società Storica Aretina per avere recentemente curato la ristampa anastatica della monumentale raccolta in quattro volumi realizzata dall’archivista Ubaldo Pasqui (1859-1939), che la diede alle stampe tra il 1889 e il 1937. Quella di Pasqui è una miniera di informazioni importante e di assai difficile reperimento. L’originale, infatti, è un’edizione rara, stampata in un limitato numero di copie e ormai praticamente introvabile. Aperto da una premessa di Luca Berti, attuale presidente della Società Storica Aretina, il quarto volume raccoglie dieci «cronache» bassomedievali, di fondamentale importanza per ricostruire la storia della città.

Gran parte del libro è occupato dalla Cronica in terza rima dei fatti di Arezzo (12881385), scritta sullo scorcio del Trecento dal notaio ghibellino ser Bartolomeo di ser Gorello. Prima del poemetto incontriamo la cosiddetta Cronaca dei Custodi, compilata intorno al 1100, il racconto delle cerimonie tenutesi ad Arezzo nel 1260 per l’investitura a cavaliere di Ildebrandino

dalla cronologia dei primi 67 vescovi aretini, con scheda biografica di ognuno, e dall’indice dei nomi. L’archivista e storico aretino autore di questo lavoro colossale (oltre alle cronache, quasi 900 documenti compresi tra il 650 e il 1385, per un totale di circa 2000 pagine) ebbe il merito di raccogliere a Roma, Firenze, Siena e Perugia quanto rimaneva della documentazione concernente la sua città, il cui archivio era andato distrutto nel 1384 in seguito a un incendio al momento della conquista fiorentina di Arezzo, quando la città fu messa a ferro e fuoco e anche il palazzo del comune finí in cenere. Profondamente convinto del fatto che soltanto le investigazioni d’archivio e Giratasca, gli Annali l’analisi critica dei Aretini, Maggiori e Minori documenti potessero Dove e quando (1192-1343), i «ricordi» assicurare conoscenze Marsiglia nel di carattere politico certeMedioevo, e scientificamente Marsiglia, Archives municipales del notaio ser Guido fondate, Pasqui – che al 27 novembre (1341-1354), efino quelli, fu anche archeologo, Orario 9,00dello stesso genere, delmartedí-venerdí, glottologo, storico 12,00 sabato, mercante Simone di e 13,00-17,00; dell’arte – fu promotore 14,00-18,00di un profondo Ubertino (1376-1384). Info da tel. +0033 4 91553375 Il tutto è preceduto rinnovamento degli una prefazione nella studi storici e umanistici quale Ubaldo Pasqui aretini, e alla sua passa in rassegna la attività sono debitrici storiografia aretina a lui generazioni di studiosi. anteriore, ed è seguito Maria Paola Zanoboni

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caleido scopio

Suoni d’oltre Manica musica • Nell’Inghilterra del XVI secolo furono attivi molti compositori di talento,

ai quali sono dedicate tre recenti incisioni, che testimoniano della versatile vena di musicisti capaci di spaziare con disinvoltura tra partiture sacre e profane

D

edicate a John Taverner, William Byrd, Orlando Gibbons e Thomas Weelkes, tre registrazioni dell’etichetta Alto celebrano, attraverso questi noti compositori, la produzione sacra e profana inglese del XVI secolo. Musiche spesso soggette alle prescrizioni del rito anglicano e/o che riflettono quel manierato gusto madrigalistico d’influenza italiana – è il caso di Weelkes – offrendo una panoramica sul linguaggio polifonico d’oltre Manica, egregiamente interpretato dal King’s College Choir di Cambridge, per la parte sacra, e dal The Consort of Musicke per la parte sacra e profana di Weelkes.

Echi di melodie popolari Tudor Masters. Taverner and Gibbons (ALC 1183, 1 CD, distr. www. stradivarius.it) si apre con Taverner, esponente del primo Cinquecento inglese, di cui viene proposta The Western Bynde Mass, una messa composta su un cantus firmus di origine popolare inglese, forse composto dallo stesso Taverner. È la prima messa basata su questa melodia, successivamente ripresa anche da altri due compositori anglosassoni, Sheppard e Tye. In realtà, secondo una prassi dell’epoca, solo a partire dal Gloria viene utilizzata la melodia popolare che si presenta in tutte le voci, a differenza della prassi francofiamminga in cui il cantus firmus ricorreva generalmente in una sola voce. Composta sicuramente per il coro del Christ Church di Oxford, di cui Taverner fu organista

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e direttore, la messa presenta un grande equilibrio formale, senza eccessi espressivi, in cui domina spesso la melodia alla voce superiore, come si riscontra negli altri mottetti tra cui il noto Dum transisset sabbatum. Il secondo gruppo di ascolti è dedicato a Gibbons, vissuto nella seconda metà del secolo, e del quale si ascoltano due brani su testo inglese e due in latino. Grande musicista anche in campo strumentale, fu compositore di corte di Giacomo I. Le musiche qui proposte legate al rito anglicano alternano momenti corali a interludi organistici e assolo con accompagnamento strumentale in uno stile lontano da arditezze contrappuntistiche, caratterizzato da un linguaggio lineare e diretto.

Voci e viole In Tudor Masters. Byrd and Gibbons (ALC 1182, 1 CD, distr. www.stradivarius.it), torna la figura di Gibbons, con tre brani devozionali in lingua inglese eseguiti da voci soliste e coro, e accompagnate dal consort di viole. A differenza dei brani precedenti, qui domina un maggior movimento delle parti con effetti interessanti e ricercati. L’altro protagonista è William Byrd, il quale, oltre a essere noto per la grande produzione per strumenti a tastiera, fu anche autore di circa 600 composizioni che luglio

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abbracciano gran parte dei generi vocali del periodo. Formatosi alla scuola di Thomas Tallis, Byrd scrisse musiche sacre sia per il rito cattolico che anglicano. Qui viene presentata una selezione di musiche destinate al primo, con la messa a cinque voci e l’Ave verum, e due mottetti per il rito anglicano: musiche in cui si percepisce una vena aulica dettata da un linguaggio altamente elaborato – forte è l’influenza di Thomas Tallis –, che gli consente di comporre passaggi di grande eleganza e pathos. The King’s College Choir di Cambridge, diretto da David Willcocks, presente in entrambi le registrazioni, è tra le istituzioni corali piú antiche d’Inghilterra. Un ensemble tipicamente inglese, formato da numerosi componenti e che vede l’utilizzo delle voci bianche per le parti acute. A tratti si rimpiange il ricorso a un ensemble di dimensioni piú modeste e piú adatto alla polifonia a cappella, tuttavia il King’s College Choir presenta un bel colore e una buona pastosità del suono.

Inni e madrigali Il terzo album, Weelkes. Anthems and Madrigals (ALC 1182, 1 CD, distr. www.stradivarius.it), propone altri due generi popolari nell’Inghilterra del Cinque e Seicento: l’anthem, un inno celebrativo tipico della tradizione anglosassone e alcuni madrigali su testi profani inglesi che risentono l’influenza della grande stagione madrigalistica italiana di cui Weelkes fu grande promotore. In uno stile rigorosamente a cappella, i solisti del Consort of Musicke, veterani del repertorio madrigalistico, emozionano con le loro otto voci. Superbamente diretti da Anthony Rooley, eseguono con appropriata solennità gli anthem e, con altrettanta attenzione al contesto poetico, i madrigali, la cui scrittura rivela uno stile compositivo di altissimo livello, originale e brillante nel «dipingere» le intense immagini poetiche con un sapiente uso delle dissonanze. Franco Bruni

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luglio

La piú celebre delle follie musica • Associando ancora una volta musica e

letteratura, Jordi Savall celebra Erasmo da Rotterdam, il grande teologo e umanista olandese vissuto a cavallo tra XV e XVI secolo

È

dedicata a Erasmo da Rotterdam e al suo celebre Elogio della Follia l’ultima fatica discografica di Jordi Savall, Erasmus Van Rotterdam. Éloge de la Folie (AVSA 9895 A/F, 6 CD, vol. 666 pp., distr. www.taleamusica. com), il quale continua a firmare progetti discografici, che associano all’elemento musicale nutrite sillogi di brani e letture dell’epoca. Rispetto ai precedenti cofanetti, in cui l’elemento musicale costituiva spesso il sottofondo sonoro alle letture, qui la novità consiste nella presentazione sia delle letture con commento musicale (3 CD), che dei soli brani musicali (3 CD). Soffermandoci sull’antologia musicale, Savall indugia, non a caso, sul tema musicale della folia, melodia spagnola dalle origini sconosciute, che ebbe immensa fortuna, dal XV sino a tutto il XVII secolo. Il primo CD ci propone le numerose variazioni e improvvisazioni composte sulla folia, che si alternano con altri brani quattrocinquecenteschi di Juan Del Enzina, Clément Janequin, Antonio de Cabezon e tanti altri anonimi.

Un amalgama riuscito Dalle originali variazioni del primo CD, si passa a un repertorio che segue piú da vicino la vita di Erasmo, i suoi continui spostamenti in Europa, e i fatti storici piú salienti. Accanto, dunque, a composizioni della tradizione franco-fiamminga del Quattro e Cinquecento tratte da Dufay, Desprès, Sermisy, Isaac, Du Caurroy, Morales, Trabaci, si affiancano anche brani sefarditi e ottomani, in una fusione di generi e tipologie musicali totalmente differenti. Splendide sono le trascrizioni strumentali di brani vocali, eseguite spesso dalle delicatezze timbriche delle viole da gamba, o dall’arpa di Andrew Lawrence King, come altrettanto affascinanti risultano le vocalità di tradizione turca, nella loro ricchezza melismatica, che si alternano a famosi brani vocali di tradizione occidentale. In un proficuo incontro tra tradizioni musicali lontane e l’unione di forze di diversa provenienza geografica, quelle della Capella reial de Catalunya, dell’Hespèrion XXI e di musicisti armeni e turchi, Jordi Savall omaggia questo protagonista della storia intellettuale europea, raggiungendo l’obiettivo da sempre ricercato nei suoi progetti discografici: il confronto multiculturale e il dialogo tra paesaggi sonori distanti. F. B.

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