Esiste un muro a separare l’esatta realtà dei fatti dalla verità riconosciuta universalmente sui libri di storia, una verità scritta dal vincitore e priva degli incisi che potrebbero tracciare percorsi differenti dirottando il cammino verso strade secondarie. È un muro atipico, uno di quelli che non uccidono allo schianto, ma hanno la proprietà di riportare al punto di partenza l’esploratore che nel percorso ci finisca contro.

È quello che accade molto spesso dalla caduta dei regimi totalitari e dall’istituzione della Repubblica italiana, una storia caratterizzata da misteri e ombre che s’infittiscono maggiormente ogni qual volta si aggiunge un tassello in un puzzle incompleto: quello che succede quando il passo incrocia il muro e allora il piede sprofonda nella fossa del tritolo o viene respinto all’inizio del cammino senza troppa cortesia.

Ma esiste anche il lavoro imperterrito di alcuni signori che non si piegano al primo ostacolo e allora si hanno 7 minuti e 50 come quelli di venerdì 20 aprile, istanti che ridisegnano il perimetro della storia.

In quei 7 minuti e 50 secondi, il giudice Alfredo Montalto raggomitola il filo che tesse il reticolo in cui s’innesta la trattativa Stato-Mafia, pronunciando le sentenze di condanna in primo grado che riconoscono non solo come sia effettivamente esistito un accordo tra Stato e Criminalità organizzata, ma anche come i protagonisti siano pezzi dello Stato stesso, boss mafiosi, membri dei Carabinieri ed esponenti politici. Soggetti che fungevano da collante nei rapporti tra Stato e anti-stato, due enti totalmente interscambiabili come i ruoli dei protagonisti, sfaldando il terreno che risucchiava le figure dei magistrati Falcone e Borsellino, dei membri della scorta, degli esponenti politici, dei cittadini inermi caduti sotto i colpi delle bombe dei Corleonesi, le stesse bombe condotte sino al cuore dello Stato dai collusi.

I nomi che risuonano nell’aula bunker sono quelli di Mario Mori e Antonio Subranni, vertici del Ros; Marcello dell’Utri, fondatore di Forza Italia e Antonino Cinà, medico di Totò Riina, tutti condannati a 12 anni di reclusione. Giuseppe De Donno, ex capitano dei carabinieri, condannato a 8 anni; stessa pena riservata a Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso Vito, il medium nei contatti tra le forze dell’ordine e i boss dei corleonesi, accusato di calunnia nei confronti dell’allora capo della polizia de Gennaro; mentre sono 28 quelli inferti ai danni di Leoluca Bagarella, esponente di spicco di Cosa Nostra.

Il reato comune contestatoli è disciplinato dall’articolo 338 del codice penale, che dispone la pena per chiunque minacci o lesioni un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato, riconoscendo dunque le intimidazioni che hanno dirottato il cammino attraverso la strategia stragista messa a punto da Riina per soverchiare l’ordine e placare l’esecutivo nel tempo in cui metteva alle strette le organizzazioni mafiose.

Il dispositivo reca anche la prescrizione della condanna di Giovanni Brusca, il boia di Capaci, oltre all’assoluzione di Nicola Mancino, ex esponente della DC, accusato di falsa testimonianza. È una sentenza storica, come affermato dal pm Di Matteo, l’attestazione della collusione di alcuni settori deviati dello Stato con le cricche mafiose: uno su tutti Marcello dell’Utri, il senatore che ha sfruttato la propria posizione per operare come cinghia di trasmissione tra le richieste mafiose e il governo Berlusconi.

La trattativa Stato-Mafia: storia e ripercussioni odierne

Gli attimi in cui Alfredo Montalto ha letto il dispositivo di condanna, hanno riavvolto il nastro che segna la storia d’Italia dal biennio ’92-93 caratterizzato dalla strategia stragista mafiosa.

Sono gli anni della strage di Capaci e via d’Amelio in cui hanno perso la vita rispettivamente Falcone e Borsellino; gli anni del maxi-processo che segna l’avvento del carcere duro, quel 41-bis che costituirà il nervo scoperto dei mafiosi e da cui si dipanerà il periodo del terrore; sono gli anni che segnano la ritorsione di Cosa Nostra contro gli apparati governativi, minacciati dalla presenza di personaggi chiave in grado raccordare la sfera del legale con l’illegale, soffiando sul fuoco delle instabilità per produrre un cambiamento politico. La cenere rimasta descrive il percorso in cui s’incrociano i destini dello Stato e del suo antagonista, il cammino in cui si ribaltano i rapporti di forza all’interno degli apparati mafiosi, in cui si apre la strada verso la trattativa.

Il famigerato papello di Riina con le 12 richieste per pacificare i rapporti con lo stato, segna il puntum dolens che ribalterà le gerarchie all’interno di Cosa Nostra: Bernardo Provenzano, stando alle ipotesi della magistratura, fornisce ai Ros la mappa in cui segna i casolari di Riina attraverso la compartecipazione del reparto dei carabinieri, coordinato dal capitano Ultimo e diretto da Mori e Subranni, che ritardano volontariamente la perquisizione del covo, puntualmente svuotato dagli uomini del boss. Un’ipotesi sostenuta dai Pm e avvallata dalla gravosità delle richieste contenute nel papello che avrebbero indirizzato Provenzano al comando dei Corleonesi: un’ipotesi divenuta accusa e colpa nel processo.

Le infiltrazioni mafiose negli apparati amministrativi segnano la collusione di alcuni uomini come Dell’Utri, l’elemento di raccordo tra i mafiosi e il governo Berlusconi, accusato di aver concesso una corsia privilegiata per l’accesso al cuore dello stato, sin troppo sensibile alle affabili sirene mafiose; segnano i nomi di Vito Ciancimino, il sindaco mafioso che raccordava i Corleonesi all’arma dei carabinieri, di Eugenio Scalfaro che rimuove Amato, propositore dell’allargamento del 41-bis al carcere di Poggioreale e Secondigliano, o ancora il nome di Berlusconi avvolto nell’ombra di alcune presunte normative di favore nei confronti della Cupola: eventi che scandiscono i pilastri in grado di fornire le prove documentali di un cedimento dello Stato.

A fronte della sentenza restano gli interrogativi che accompagnano un’inchiesta tortuosa nel percorso solcato da quel muro difensivo in grado di riportare tutti al punto di partenza. Restano le ambiguità processuali di dell’Utri e Mori, condannati per alcuni fatti in cui erano stati assolti con sentenza definitiva; resta l’ambiguità di Berlusconi, convitato in una sentenza in cui è nominato senza essere imputato e resta l’ombra di un ipotetico retroscena in cui gli stessi uomini della trattativa ricoprano ancora oggi ruoli di vertice in una Repubblica avvolta in un alone di mistero.

Si consacra, dunque, il doppio volto dello Stato e il doppio volto della mafia, caratterizzati entrambi dagli strateghi dell’inabissamento, abili nel penetrare i luoghi del potere destabilizzando per stabilizzare, contemperando l’attacco frontale con i giochi di logge, cricche, accordi e mediazioni, per sbucare all’improvviso, per far sospirare a Borsellino ‘sto vedendo la mafia in diretta’ quel 15 luglio ’92, pochi giorni prima di morire.

È anche a lui che è rivolto il ricordo di Teresi, coordinatore del pool per tutta la durata del processo: ‘Il verdetto è dedicato a Falcone, Borsellino e tutte le vittime della mafia’. Una sentenza storica che apre uno spiraglio nel muro di gomma, ricomponendo i tasselli di un puzzle ancora tutto da montare.