Entrare nel paese della Grande Mela, delle pianure sconfinate e dell’Old Wild West non è mai stata cosa semplice. Ora, il processo sembra non solo complicarsi ulteriormente, ma anche farsi sempre meno discreto e rispettoso della privacy.

Dopo lo scandalo Facebook in cui si è visto implicato, Donald Trump torna a far parlare di sé sempre nell’ambito dei social network. Venerdì, l’amministrazione Trump avrebbe infatti dichiarato la sua nuova proposta: alla maggior parte dei richiedenti il visto per entrare negli Stati Uniti, sarà richiesta un’informazione aggiuntiva, cioè i loro nickname utilizzati sulle varie piattaforme social.

Già a settembre il Dipartimento di Stato aveva avanzato un simile piano, ma che avrebbe riguardato solo i visti per immigrati. Ora, la richiesta si espanderebbe a chiunque avrebbe in programma un viaggio, che sia di piacere o di lavoro, negli USA.

Come, dove e a chi

La proposta, che non può entrare in vigore prima del 29 maggio a causa di un forzato periodo di 60 giorni rivolto ad un pubblico commento, coprirebbe 20 ben note piattaforme di social network. In causa infatti ci sono sia quelle con sede negli Stati Uniti, tra cui per esempio Facebook, Instagram e LinkedIn, sia altre di proprietà estera, sia asiatiche, come le cinesi Douban e QQ, che europee, come la lettone Ask.fm o Twoo, di base belga.

Il controllo si estenderebbe dunque a 360°, anche se 40 nazioni sarebbero escluse da questi accertamenti, tra cui i maggiori alleati degli States. Anche i visitatori impegnati in viaggi diplomatici ed ufficiali saranno per la gran parte esentati.

Un controllo completo

Ai turisti verranno richieste informazioni strettamente personali riguardanti il loro passato (numeri dei vecchi passaporti, di telefono ed indirizzi e-mail, viaggi internazionali ed eventuali violazioni delle leggi) e quello dei loro parenti più stretti.

Un check-up completo insomma che pare risparmi per ora almeno le password private, nonostante qualche viaggiatore se le sia sentite chiedere durante alcuni controlli. In qualche modo tutte queste domande pare abbiano contribuito a far diminuire il numero dei visitatori che sceglierebbero gli Stati Uniti come meta per le vacanze.

Le polemiche

Inversamente proporzionale al numero dei turisti è la quantità di polemiche scaturite da questa decisione. Hina Shamsi, direttrice del Progetto di Sicurezza Nazionale dell’Unione Americana delle Libertà Civili, definisce il piano dell’amministrazione Trump inutile e problematico, buono solo ad invadere i diritti di Americani e non congelando la libertà di espressione ed associazione.

Pareri pungenti vengono anche dal professore associato di legge all’Università di Drexel Anil Kalhan, il quale lavora sull’immigrazione e sui diritti umani internazionali che si sfoga su Twitter accusando la proposta come qualcosa che va ben oltre il ridicolo.

Aspre critiche vengono anche da semplici utenti di Sina Weibo, un social cinese, che si domandano dove si finita la libertà di parola tanto amata dagli Americani e riflettono sulla condizione di solitudine in cui il paese a stelle e strisce si chiuderà presto.

La risposta governativa

Come tutta risposta, il Dipartimento di Stato si sarebbe giustificato sostenendo che il controllo dei richiedenti visto deve sempre tenersi aggiornato negli anni seguendo eventuali minacce. Queste novità introdotte servono a rafforzare i processi, così da confermare l’identità di ogni turista. Trump stesso, durante la sua campagna elettorale, aveva promesso un controllo molto accurato riguardo gli accessi negli Stati Uniti.

Ma chi avrebbe ideato questo piano così invasivo? Il capo dello staff del presidente John F. Kelly già da un anno considerava l’idea di richiedere ai visitatori le loro password e gli accessi ai loro account, sentenziando che chi si fosse rifiutato, semplicemente non avrebbe passato i confini.

La motivazione

La particolare attenzione sull’uso dei social media da parte degli immigrati viene anche spiegata a seguito dell’attacco terroristico del 2015 a San Bernandino, in California. Quattordici persone rimasero uccise. Il marito e la moglie coinvolti nell’attacco sarebbero infatti protagonisti di una radicalizzazione online. I poliziotti si sono resi conto troppo tardi dei segnali lasciati su una piattaforma di messaggistica su Internet, perdendo ufficialmente la possibilità di sventare l’azione terroristica.