È ormai certo che il sessantenne Jalam Khashoggi, editorialista opinionista del Washington Post, da quarant'anni ritenuto una voce libera del Medio Oriente, è stato brutalmente torturato e ucciso dentro il consolato dell'Arabia Saudita a Istanbul. Vi era entrato il 2 ottobre per ritirare alcuni documenti per il divorzio ma, sfortunatamente, non è più uscito.

Solo ieri le autorità hanno rilasciato una registrazione che testimonia le torture, al quotidiano turco Sabah che ha subito diffuso la notizia nel mondo. Ma già il New York Times aveva dato inizio ad un inchiesta e, insieme al Washington Post, relazionato al governo Trump di aver scoperto l'identità degli assassini ed il loro collegamento con il principe saudita Mohammed Bin Salman.

Una voce libera

Jalam Khashoggi, da sempre giornalista su una linea progressista che puntava un occhio ad oriente e l'altro ad occidente, aveva conseguito la laurea alla Indiana University, per poi ritornare in Medio Oriente e scrivere su rilevanti testate giornalistiche, dirigere programmi televisivi di informazione ma, nonostante la sua parentela con il noto miliardario Adnan e il cugino Dodi Al Fayed, nel 2017 si era definitivamente trasferito a Washington poichè il suo modo di "fare informazione" non era gradito al re Salman ed al principe ereditario 33enne Mohammed.

Sullo scacchiere della diplomazia internazionale il governo di Riad nega il complotto e l'intrigo politico come movente dell'omicidio, ma i dettagli della vicenda sono raccapriccianti e da horror, nella registrazione si odono le urla del giornalista a cui vengono amputate le dita delle mani e subito dopo il rumore della sega elettrica che seziona il corpo.

Qualcuno ha parlato persino di scioglimento nell'acido.

Così l'intelligence turca, nonostante il divieto di ingresso nel consolato saudita, in aggiunta al fatto che il 2 ottobre le telecamere non funzionavano e quindi era impossibile avere un riscontro con i video, ottiene prove inconfutabili, come i il dna del giornalista e l'identificazione dei sicari in un gruppetto di persone venuto in volo da Riad.

Nella registrazione il console saudita Mohammad al-Otaibi dice nella sua stanza del consolato "fatelo fuori di qui, mi mettete nei guai" e uno degli agenti gli risponde "se vuoi tornare vivo in Arabia, taci". Con loro anche un medico incaricato di vivisezionare il corpo, con freddezza ordina ai compagni di mettere le cuffie per non sentire la sgradevole acustica dell'operazione.

La politica degli affari internazionali e la posizione Donald Trump

Con la scomparsa di Jamal Khashoggi la Turchia accusa Riad e il mondo della finanza cancella gli appuntamenti con l'Arabia Saudita: il direttore del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde rimanda la conferenza programmata dal 23 al 25 ottobre, sir Richard Branson sospende la collaborazione con Riad con il medio oriente e con lui molti manager prendono posizione a favore della stampa e dell'informazione, chiedendo chiarezza immediata sulla questione.

Le risposte della politica internazionale sono contraddittorie

Il 15 ottobre il segretario di stato americano Mike Pompeo incontra a Riad il principe Salman con il quale, con un ulteriore telefonata di Trump, rafforza gli accordi soprattutto - dichiara il Presidente - per la lotta al terrorismo.

Il principe ancora una volta nega di essere il mandante dell'omicidio del giornalista e Donald Trump lo supporta: "probabilmente - dichiara - si tratta di comuni criminali, nient'affatto legati alla congiura politica" , rafforzando ulteriormente la sua posizione con l'esempio del Giudice della Corte Suprema Brett Kavanaugh, accusato di molestie da tre donne, ma la cui colpevolezza è tutta da provare.