La talebanizzazione dell’Afghanistan è destinata ad avere un impatto profondo in Asia centrale, e a latere sull’intera Eurasia, perciò le classi dirigenti delle principali potenze interessate dall’evento, dalla Russia all’India, hanno messo a lavoro i propri esperti – diplomatici, politologi, consiglieri di affari esteri, ricercatori e strateghi – sin dallo scorso agosto.

I timori delle potenze che circondano o sono prossime all’Afghanistan è che l’ascesa talebana possa destabilizzare l’intera regione turkestana, sabotando quei progetti di integrazione multidimensionale, come Nuova Via della Seta, Unione Economica Eurasiatica e corridoio dei turchi, che hanno permesso la diffusione del benessere e promosso le pratiche del concerto e del multilateralismo in una terra storicamente connotata da rivalità e instabilità semicroniche. E i talebani, che a parole vorrebbero partecipare alla scrittura della Grande Eurasia, nei fatti potrebbero intralciarla, anche non volutamente – non riuscendo, ad esempio, ad impedire azioni di disturbo e attentati contro obiettivi sensibili da parte dello Stato Islamico del Khorasan.

Sul futuro dell’Afghanistan aleggia più di un’ombra, dunque, e questo è il motivo per cui Tashkent, la capitale uzbeka, il 20 settembre ha ospitato un’importante conferenza sul futuro dell’Asia centrale.

Al lavoro per un’agenda comune

L’Uzbekistan è quello che il defunto geostratega Zbigniew Brzezinski aveva definito “il ventre molle dell’Asia centrale”, cioè il teatro più suscettibile di cedere alle pressioni degli Stati Uniti (e di altre potenze) miranti a provocare una frattura nello spazio postsovietico. E gli eventi, almeno fino all’altroieri, sembravano dare ragione a Brzezinski – dallo scetticismo verso l’adesione all’Unione Economica Eurasiatica ad una protensione naturale verso la cooperazione con gli Stati Uniti. L’ascesa dei talebani in Afghanistan, però, ha cambiato tutto, ha riportato il figliol prodigo nella casa del padre.

Perché l’Uzbekistan stia attivandosi diplomaticamente più degli altri –stan può essere compreso guardando il mappamondo: è separato dall’Afghanistan soltanto da un corso d’acqua attraversabile a nuoto, l’Amu Darya. Il Kazakistan, dal canto suo, vive e osserva gli accadimenti afghani con un timore molto più contenuto, essendogli distante, e confidando nelle possibili ricadute positive del fattore talebano in termini di magnetizzazione di investimenti diretti esteri sottratti all’Uzbekistan.

Con gli Stati Uniti che sono scappati via dall’Afghanistan per dirigersi in fretta e furia nell’Indo-Pacifico, lasciando la patata bollente nelle mani degli altri residenti del condominio, in Uzbekistan hanno pensato che fosse giunto il momento di rivalorizzare le relazioni con l’antico alleato, la Russia. Questo è il motivo per cui Tashkent, il 20 settembre, ha ospitato una maxi-conferenza targata Club Valdai – il centro studi del Cremlino – e Istituto per gli studi regionali e strategici – il think tank della presidenza uzbeka.

La conferenza ha evidenziato le principali minacce alla sicurezza regionale, identificandole nel terrorismo islamista, nella radicalizzazione religiosa, nelle crisi migratorie, nelle dispute territoriali, nel commercio illegale di armi e nel traffico di sostanze stupefacenti. Minacce imminenti, tangibili, che rischiano di far deflagrare il sogno di un Turkestan pacifico, unito sotto la bandiera dell’integrazione eurasiatica trainata da Mosca, e che richiederanno, secondo gli esperti russi e uzbeki, l’attivazione di misure congiunte. No all’unilateralismo, in breve, sì al concerto; concerto in politiche di lotta antiterrorismo, di campagne contro i traffici illeciti e in una gamma piuttosto estesa di settori utili a rinsaldare il legame russo-uzbeko.

La crisi afghana, che preoccupa il Cremlino da una pluralità di latitudini, potrebbe rivelarsi, dunque, il classico rischio trasformabile in opportunità. E da dove cominciare quel processo di cesellamento degli angoli più spinosi e taglienti, almeno per la Russia, sembra essere piuttosto chiaro: dall’irrequieto Uzbekistan.

Lo spettro del Jihad talebano-guidato

Come Gesù riportò in vita Lazzaro di Betania, così sembra che i talebani abbiano resuscitato una serie di organizzazioni terroristiche date per morte, da quelle kazake a quelle uigure. Questo è, almeno, ciò che emerge dalle analisi dei circuiti virtuali dell’internazionale jihadista effettuate da diverse agenzie di intelligence all’indomani della cattura di Kabul.

Il grande evento che ha comportato il ritorno al potere degli studenti del Corano, dopo vent’anni di opposizione tra le grotte del Parapamiso, è stato celebrato, invero, dagli uiguri del Partito Islamico del Turkestan – ritenuto defunto dall’amministrazione Trump –, dagli uzbeki del Katibat al Tawhid wal Jihad – che muore e risorge a cadenza regolare – e da una costellazione di sigle, talvolta quasi anonime, stanziate tra Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan.

I messaggi che i jihadisti di (quasi) tutto il mondo hanno inviato ai talebani sono simili per contenuto e finalità: contentezza per il traguardo tagliato, speranza che il fatto possa determinare l’apertura di un nuovo capitolo nella lotta contro i crociati dell’Occidente e totale disponibilità allo stabilimento di patti e alleanze mutualmente utili.

Non è dato sapere quanti e quali di quegli auspici diventeranno amicizie, ma il passato – il sodalizio talebano-qaedista – e il presente – l’ingresso degli Haqqani nel governo afghano – mostrano e dimostrano come gli studenti del Corano non disdegnino la condivisione della loro terra con i fratelli in armi impegnati nell’esportazione del Jihad globale. Tutti lo sanno, anche se la considerazione del problema varia a seconda dell’attore – dagli Stati Uniti che confidano nell’esplosione di un “caos multipolaricida” alla Russia che teme per la solidità dell’Uee, passando per l’India impaurita per il Kashmir –, e stanno cominciando a muovere i propri pedoni nella scacchiera impiegando il medesimo modus operandi: azione preventiva.