Björn Larsson scrittore svedese che ama l’Italia
Presenta a Pavia il nuovo romanzo “La lettera di Gertrud” una storia sull’identità che parla anche di antisemitismo
Maria Grazia PiccalugaMaria Grazia Piccaluga
Vive tra la Svezia e l’Italia, dove raggiunge la compagna Titti, salentina trapiantata a Milano. Ma ha vissuto anche in Francia, Danimarca, Irlanda, Spagna. E, a metà degli anni Ottanta, anche su una barca a vela, fonte di ispirazione di un suo romanzo di successo, Il cerchio celtico. Come il suo pirata, Long John Silver, Björn Larsson, 66 anni, ha sempre navigato tra il mare del Nord e quello Baltico. Questa volta, invece, ha scelto un luogo non indicato su una cartina geografica. Un luogo che potrebbe essere ovunque in Europa. E ha scritto una storia diversa dalle precedenti.
La lettera di Gertrud (Iperborea editore) – che l’autore presenta sabato 2 marzo alle 18 alla libreria Il Delfino di Pavia – tratta un tema per lui nuovo: il dilemma che il protagonista, Martin Brenner, si trova a vivere quando scopre la vera identità della madre in una lettera che lei gli ha lasciato. Non si chiamava Gertrud, era nata Maria. Ed era un ebrea sopravvissuta ai lager. Quindi chi è davvero Martin? E chi sceglierà di essere d’ora in avanti?
«Ho voluto riflettere sul tema dell’identità – spiega in un ottimo italiano Björn Larsson, al telefono dalla sua casa di Lund –. Ho l’impressione che tutti abbiano bisogno di appartenere a un gruppo, escludendo gli altri. Forse è una conseguenza della globalizzazione. Ho scelto di assegnare al mio personaggio, Martin Brenner, l’identità più controversa e la più politicamente disturbante».
Il suo romanzo esce in un momento storico in cui stanno ricomparendo preoccupanti segnali di antisemitismo.
«In realtà ci lavoravo da 6-7 anni, ho letto più di 30mila pagine per capire meglio la questione dell’antisemitismo ma la volevo trattare in chiave di dilemma esistenziale. Il mio libro esce ora in Italia in un momento nel quale, purtroppo, accadono fatti preoccupanti».
Uscirà anche in Francia?
«Si, anche se non in contemranea. Sono molto curioso di vedere come sarà accolto».
Cimiteri vandalizzati, insulti, episodi di intolleranza. Non si sta alzando troppo l’asticella dell’odio?
«Rispetto al passato penso sia solo cambiata la visibilità. Ora ciò che accade ci arriva in diretta sullo schermo e sui social. Chi odia se la prende sempre con i più deboli, cerca un capro espiatorio. Gli ebrei nel mondo sono 15 milioni, molto meno di indiani, cinesi. Insomma un piccolo popolo, è assurdo».
Torniamo alla questione dell’identità. Lei ha viaggiato molto, a quale Paese si sente di appartenere?
«Sono nato in Svezia ma ho vissuto anche all’estero. In Danimarca 15 anni, poi in Francia e un anno in Spagna, uno in Irlanda. E poi c’è l’Italia. Sono un po’ sradicato. Però ho sempre viaggiato per rimanere, non per fare il turista. Non mi interessava. Per me è importante far parte di un posto, conoscere le abitudini della gente, interagire. E dunque anche imparare la lingua».
Quante ne conosce?
«Direi 5 o 6»
E dunque per questo parla così bene anche l’italiano.
«Ci vengo spesso. La Svezia è un bel Paese ma la conosco fin troppo bene, a volte è un po’ noiosa. In Italia vive la mia compagna. Abita a Milano ma è originaria del Salento. Tra zie e nipoti ci accolgono sempre in 40 persone. L’Italia è poco formale, ci si può incontrare e stare insieme senza infrastrutture mentali. Oltre ad essere un posto dove si mangia bene (sorride)».
E poi in Italia lei ha un zoccolo duro di lettori...
«Il mio editore è Iperborea. MI segue da oltre 20 anni. E da altrettanto tempo sono sempre invitato in qualche libreria o in qualche città, anche se non ho libri nuovi da portare. Diario di bordo l’ho scritto solo per i miei lettori italiani. L’altro giorno mi ha scritto una studentessa 22enne di Venezia. Una lettera davvero meravigliosa: mi spiegava che il mio libro le ha cambiato la vita perché le ha dato il coraggio di essere quello che voleva essere. Che non è una cosa facile: in Italia i giovani coltivano un sogno di libertà ma ci sono sempre la mamma, la casa, la famiglia. Non è un caso forse che esistano pochi romanzi su storie di emigrazione e molti invece sul ritorno».
Sta già lavorando a un nuovo libro?
«Ho due o tre progetti. Mi manca un romanzo storico. Vorrei parlare dei celti» —
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