22 febbraio 2019 - 10:01

Il Tribunale di Milano nega l’estradizione di un prof in Cina

Liberato Xu Chao, agli arresti per corruzione I giudici di Milano: rischia la pena di morte Accusa L’ex capo finanziario dell’Università di Qingdao accusato di aver sottratto 2 milioni Difesa «Mi perseguitano perché sono seguace di Falun Gong. Se torno mi uccidono»

di Luigi Ferrarella

Il Tribunale di Milano nega l’estradizione di un prof in Cina
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Le autorità di polizia italiane arrestano un funzionario statale cinese su mandato di Pechino, che ne reclama l’estradizione per un’accusa di corruzione che l’indagato sostiene essere il pretesto di una persecuzione politica: ma ieri i giudici di Milano negano l’estradizione alla Cina e - dopo 38 giorni di custodia cautelare in carcere e altri 7 mesi ai domiciliari - liberano il professore perché non ritengono affidabile la generica promessa di Pechino di non condannarlo a morte per un reato che in Cina lo consente. Sino a ieri non si era mai saputo che il 9 giugno 2018 Xu Chao, 39enne ex capo dipartimento finanziario dell’Università di Qingdao, fosse stato arrestato dalla polizia di Milano in esecuzione del mandato emesso a fini di estradizione dalla Cina, che lo accusava di avere manipolato nel 2011-2016 le ricariche online delle schede-pasti degli studenti e così sottratto dal conto dell’università 20 milioni di yen cinesi (2,6 milioni di euro). Xu Chao, all’avvio della battaglia procedurale condotta dal suo difensore Niccolò Bertolini davanti alla competente V Corte d’Appello e seguita passo passo dall’avvocato romano Cataldo Intrieri per conto della Cina, si dice perseguitato seguace dal 2011 del Falun Gong, disciplina ispirata al buddismo e messa al bando nel 1999 dal governo.

E produce sia la lettera di sospensione dalla cattedra nel giugno 2014 per essersi «più volte espresso in maniera inappropriata, intimidendo la sicurezza politica dello Stato», sia nel gennaio 2016 l’«avviso sulle attività di rettifica del comportamento» emesso dall’Università contro il professore reo di aver «pubblicizzato la democrazia costituzionale occidentale, organizzato marce degli studenti, pubblicato articoli reazionari e avuto cattiva influenza sulla società». La 37enne moglie Guo Jingyi aggiunge di essere minacciata della stessa sorte del marito, e a riprova consegna 4 colloqui registrati con un funzionario dell’ambasciata cinese: e in effetti il 20 novembre pure lei è arrestata dai carabinieri su richiesta della Cina. Ma il 4 dicembre la Germania, alla quale aveva chiesto asilo, la riconosce perseguitata politica; il 17 dicembre l’Interpol la cancella dal database di arresti; e il 23 gennaio 2019 l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati scrive all’Italia. Eventi che però non fermerebbero l’estradizione del marito, quasi scontata in presenza delle condizioni formali previste dal Trattato bilaterale, e dell’impossibilità per l’autorità giudiziaria italiana di sindacare la fondatezza dell’accusa proposta dalla Cina.

Ma ieri i giudici (Ichino-Curami-Simi de Burgis) negano l’estradizione perché un Paese, quando la chiede in fase di indagine, per le norme italiane deve adottare «una decisione irrevocabile che irroga una pena diversa dalla pena di morte»: e invece per i giudici «non possono certamente ritenersi equipollenti le astratte assicurazioni della Corte Suprema del Popolo e della Procura Generale cinesi, veicolate dall’ambasciata in Italia». Era proprio quello che il suo amico Hu Feng, poi arrestato in Cina per aver «fornito prove false» a favore, aveva previsto il 5 settembre 2018 in una mail avventurosamente fatta arrivare alla moglie di Xu Chao: «Ho visto i documenti interni del Comitato di Supervisione di Feixian sul caso. Quando Xu Chao torna in Cina sarà condannato a morte. Hanno promesso all’Italia di no, solo per ingannare i giudici italiani e ottenere l’estradizione».

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