11 maggio 2019 - 08:27

Alpini, la storia: tra trincee, dolori e grandi gesta sono diventati simboli d’Italia

La guerra degli alpini non è il conflitto disumano in cui si uccide il nemico senza vederlo. È, dal ponte di Bassano a quello di Perati, dall’Isonzo al Don, la guerra contadina del mulo, del fucile, della terra da conquistare e proteggere metro a metro

di Aldo Cazzullo

Alpini, la storia: tra trincee, dolori e grandi gesta sono diventati simboli d’Italia
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Dal diario di guerra del tenente Salsa: «Come gli alpini hanno tentato di uscire dalla trincea, in fila, per il varco praticato tra i sacchetti, dal bastione di roccia che orla la cima come una corona titanica sono partite delle fucilate rare, metodiche, come di una vedetta sperduta tra i sassi: ad ogni colpo, un alpino stramazzava fra i nostri reticolati; sono caduti tutti, uno sull’altro, in quella strettoia che, in breve, venne barricata dalla catasta umana». L’ufficiale degli alpini, «un maggiore taciturno e severo come un asceta», telefona al comando e avverte che l’attacco non ha alcun senso. Il comando chiede quanti sono i caduti. «Una trentina di uomini». Così pochi? «Si riprenda l’azione» è l’ordine. Ma gli austriaci nel frattempo hanno montato una mitragliatrice. Gli alpini non fanno in tempo ad affacciarsi al varco che vengono colpiti. Il maggiore ritelefona al comando e chiede ancora di interrompere l’azione. Gli rispondono ancora di no. Conclude il tenente Salsa: «Dopo un conciliabolo serrato, il maggiore fu visto gettare il microfono. Al suo aiutante disse, pacatamente, con quella sua brevità austera e triste: “Esco io. È il solo mezzo per far cessare l’attacco”. Si buttò fuori, solo; ricadde sul mucchio dei suoi alpini». Finalmente l’azione fu sospesa.

I sacrifici vani

La Prima guerra mondiale è anche storia di assalti insensati, di ordini criminali, di generali che lontano dal fronte decidono di sacrificare migliaia di vite a volte invano. Ma è anche storia di ufficiali che si fanno uccidere al posto dei loro uomini. In questo caso, ma non per caso, un ufficiale degli alpini. Di fronte, le nostre penne nere avevano spesso nemici che condividevano con loro età, formazione, fede, valori. I Kaiserjaeger, gli alpini austriaci — e tedeschi — erano contadini cattolici che pensavano e sentivano proprio come i nostri. Questo rese a volte più umana, altre volte più penosa quella guerra in alta quota, con gelate che assideravano gli arti, valanghe che travolgevano vite, slavine che rendevano inutili lavori durati mesi. Lo spirito di corpo e la leggenda degli alpini sono nati in quelle condizioni grandiose e drammatiche. Ed è proseguita nel freddo della Russia, in quella ritirata terribile in cui gli alpini diedero grandi prove di coraggio, aprendosi con le armi in pugno la via verso casa. La Cuneense, la Tridentina, la Julia. L’insensata spedizione voluta dal Duce spopolò intere valli. Decine di migliaia di giovani montanari non tornarono a casa. Valli in cui l’antifascismo non bisogna insegnarlo a scuola. Eppure il fatto che quei poveri morti venissero da zone remote, lontane dalle grandi città, ha contribuito all’elaborazione di una memoria del regime non abbastanza severa.

La guerra contadina

Non è un caso, però, che le prime bande partigiane siano state fondate da alpini reduci dalla Russia. Uomini come Nuto Revelli. Perché se i tedeschi in ritirata si affacciavano nelle isbe dei contadini russi venivano cacciati o uccisi, mentre gli alpini italiani erano accolti e salvati? Perché, mentre dei suoi partigiani veniva fatto scempio, il sergente Maggiorino Marcellin, «Bluter», restituiva i corpi degli Alpenjaeger uccisi con un biglietto «da un alpino italiano a un alpino tedesco»? Perché i soldati con la penna nera non persero la loro umanità neppure nelle tragedie in cui vissero la giovinezza. La guerra degli alpini non è il blitzkrieg, il lampo tecnologico, il conflitto disumano in cui si uccide il nemico senza vederlo. È, dal ponte di Bassano a quello di Perati, dall’Isonzo al Don, la guerra contadina del mulo, del fucile, della terra da conquistare e proteggere metro a metro. L’unica guerra che un popolo contadino sapeva e poteva fare. Nel conflitto di sterminio che i tedeschi condussero in Russia, gli alpini sono un corpo estraneo. Ma quando il generale Reverberi, che comanda i superstiti della Tridentina dopo la decimazione della Cuneense e l’annientamento della Julia, ordina l’assalto per rompere l’accerchiamento e aprire la via del ritorno, i suoi uomini combattono con accanimento al punto da essere citati nel bollettino di guerra sovietico.

La memoria

Gli alpini rappresentano un pezzo fondamentale dell’identità italiana. E anche le loro canzoni, non meno importanti di quelle napoletane nel definire la nostra arte popolare e la nostra anima. Ne ricordo in particolare una, che con i miei nonni e i miei genitori cantavamo in coro quando andavamo a passeggiare in montagna. È una storia molto triste, quella del capitano di una compagnia che sta per morire, e vuole al capezzale i suoi alpini perché ascoltino le sue ultime volontà: il corpo dovrà essere tagliato in cinque pezzi, uno per la patria, il secondo per il battaglione, il terzo per la mamma, il quarto «alla mia bella che si ricordi del suo primo amor», il quinto «alle montagne che lo fioriscano di rose e fior». Ho ripensato a quei cori e a quella canzone quando mi è accaduto di leggere la lettera del tenente degli alpini Adolfo Ferrero, caduto sull’Ortigara nell’estate del 1917. È una lettera straziante, scritta la notte prima dell’assalto fatale e indirizzata ai genitori, cui il tenente chiede con insistenza di parlare di lui ai fratelli piccoli, Beppe e Nina: «Un giorno forse non sapranno di avermi avuto fratello». La lettera verrà trovata soltanto nell’estate del 1958. La pietà degli abitanti di Asiago farà sì che Nina Ferrero potesse leggere l’ultimo messaggio del fratello alpino. Ora riposa al suo fianco.

Questo articolo è stato pubblicato sullo speciale dedicato dal Corriere della Sera all’Adunata degli Alpini di Milano, nel Maggio 2019

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