10 ottobre 2018 - 17:19

Sedici anni al «capo dei capi» della ‘ndrangheta Rocco Barbaro, il boss della coca in Lombardia

Dopo essere inserito nell’elenco dei 30 latitanti più pericolosi, venne arrestato a Platì nel maggio del 2017, bloccato nell’abitazione di una delle figlie. Per un periodo aveva vissuto a Buccinasco facendo il gommista

di Luigi Ferrarella

L’arresto di Rocco Barbaro a Platì L’arresto di Rocco Barbaro a Platì
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Nella sua vita ha avuto alcune condanne, ha passato molto tempo nelle carceri e parecchio pure in latitanza (al punto da meritarsi il soprannome di «’U sparitu» condiviso con il fratello Giuseppe che fu latitante per 14 anni fino al 2001), investigativamente è stato sempre ritenuto il vertice a Milano di una delle principali famiglie della ’ndrangheta calabrese, ed è persino stato inserito (fino all’ultima sua cattura nel maggio 2017 nella natìa Platì ad opera dei carabinieri) nella lista del Viminale dei 30 più ricercati in Italia. Ma, a rigore, sino a ieri nessuno poteva qualificarlo boss, perché mai Rocco Barbaro era stato condannato per mafia. Sino a ieri, appunto.

Perché mercoledì il sostituto procuratore Cecilia Vassena — al termine di un lungo e contrastato iter giudiziario, partito da un rigetto davanti al gip Alessandra Clemente dell’arresto per questa accusa (poi ordinato invece dal Riesame e dalla Cassazione quando però ormai Barbaro nel gennaio 2016 si era dato alla latitanza) — ha chiesto all’ottava sezione penale del Tribunale e ottenuto la condanna in primo grado del 53enne figlio del patriarca «Cicciu ‘u Castanu» a 16 anni di reclusione non soltanto per il reato di «intestazione fittizia di «beni» (un bar a due passi dal Duomo), ma appunto per la prima volta anche per «associazione a delinquere di stampo mafioso».

Rocco Barbaro, figlio del 90enne Francesco che è detenuto nel super carcere di Parma all’ergastolo per l’omicidio nel 1990 del brigadiere dei carabinieri Antonino Marino, è il cognato di Giuseppe Pelle, cioè del figlio dello scomparso Antonio Pelle detto «’U Gambazza», capo dell’omonima cosca di San Luca; e ha sposato la figlia di uno dei Papalia, cioè del fratello maggiore di Rocco, Domenico e Antonio Papalia.

Dopo essere stato detenuto 15 anni per traffico di droga, Barbaro nel 2013 si era stabilito nell’hinterland milanese, nell’ultimo scorcio di pena scontata in misura alternativa a Buccinasco, dove aveva preso a lavorare come gommista in un’officina prima di sottrarsi alla misura cautelare emessa nel gennaio 2016 appunto nell’ambito del procedimento approdato ieri a sentenza. In questo fascicolo la Direzione distrettuale antimafia milanese lo accusava di «intestazione fittizia» (dietro prestanome) di un locale in pieno centro tra il maggio 2013 e il gennaio 2014, il «Bar Vecchia Milano in corso Europa», assai vicino al Duomo e non lontano dal Palazzo di Giustizia. Lo stesso bar dal quale usciva con il giubbotto marrone nella famosa fotografia scattata dai carabinieri del Nucleo investigativo di Milano nel 2013 durante un pedinamento. Per questa vicenda, per la quale in rito abbreviato il figlio di Rocco Barbaro (Francesco) aveva già avuto in primo grado 8 anni, i giudici Nosenzo-Greco-Iannelli ieri hanno condannato, a vario titolo d’accusa, anche suo nipote Antonio a 2 anni, Giuseppe Grillo a 3 anni, e Fortunato Paonessa a 4 anni. La considerazione di cui godeva Rocco Barbaro in seno all’organizzazione è testimoniata dall’intercettazione captata il 28 novembre 2012 dai carabinieri tra due uomini vicini alla famiglia Papalia: «Per regola, questo qua è capo di tutti i capi, di quelli che fanno parte di queste parti».

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