5 settembre 2018 - 07:27

Seveso, le accuse alla politica: «Niguarda vittima sacrificale»

La svolta dopo quattro anni di perizie sulle esondazioni negli anni tra il 2010 e il 2014. Periferia sacrificata e mancata informazione: sotto accusa Formigoni, Moratti e Pisapia. Nel mirino dei pm anche Boni, Belotti, Granelli e De Corato

di Luigi Ferrarella

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La periferia nord di Milano va sott’acqua a ogni grosso temporale perché da decenni la politica sceglie lucidamente di sacrificarla al centro città e di lasciarla allagare dalla ricorrente piena del Seveso anziché rischiare che ad allagarsi siano case e negozi e metrò non lontani dal Duomo. Opzioni politiche non sindacabili dalla magistratura, le ravvisa ora la Procura di Milano nel cercare, dopo quasi quattro anni di perizie e accertamenti, di individuare responsabilità per le quattro esondazioni che tra il 2010 e il 2014 causarono complessivamente almeno 178 milioni di euro di danni. E alla fine di un ragionamento complesso, che ha visto anche confrontarsi in Procura valutazioni diverse, i pm in un avviso di conclusione delle indagini imputano profili colposi della inondazione non solo all’ex presidente della Regione Roberto Formigoni, e ai suoi ex assessori al Territorio Davide Boni e Daniele Belotti, ma anche (nel presupposto di una omessa informazione ai cittadini) degli ex sindaci Letizia Moratti e Giuliano Pisapia, dell’ex vicesindaco Riccardo De Corato (ora assessore regionale alla Sicurezza) e Marco Granelli (attuale assessore comunale alla Mobilità e all’Ambiente); mentre una richiesta di archiviazione si profila invece nelle prossime settimane per l’ex presidente della Regione Roberto Maroni, gli ex suoi assessori al Territorio Viviana Beccalossi e Alessandro Moneta, gli ex vertici di Metropolitana Milanese Lanfranco Senn e Giovanni Valotti, l’allora assessore comunale alla Mobilità Pierfrancesco Maran, e gli ex assessori regionali alla Protezione civile Simona Bordonali (oggi deputato leghista) e Nazzareno Giovannelli.

La perizia tecnica

Il punto di partenza, oltre che la geografia, è la consulenza del professor Luigi Natale di Pavia. Il torrente Seveso termina la propria corsa nel Naviglio della Martesana, che vicino a via Melchiorre Gioia si immette in un altro canale sotterraneo artificiale all’altezza del Ponte della Gabelle in prossimità dei Bastioni di Porta Nuova: è il cavo Redefossi, che (prima di sfociare nella roggia Vettabbia e poi nel Lambro) scorre sotto la cerchia dei Bastioni, oltrepassa Porta Venezia e piazza Cinque Giornate (vicino al Tribunale e non lontano dal Duomo), per poi piegare più decisamente verso sud all’altezza di Porta Romana.

La strettoia

A strozzare ulteriormente questo tratto milanese del Redefossi è un «collo di bottiglia» di 2 chilometri ostruito al 40 per cento da detriti che la competente Metropolitana Milanese rimuove solo parzialmente ma consapevolmente, nel senso che altrimenti il Seveso non esonderebbe più a Niguarda in periferia, bensì in pieno centro. I magistrati prendono atto che, per quanto cinicamente volta a evitare danni ancora più grandi e visibili, è una scelta evidentemente politica e non sindacabile in tribunale (da cui discenderà l’archiviazione degli allora presidenti Mm e del competente ex assessore). Storicamente, invece, negli anni si è cercato di ridurre la portata della piena verso Milano con l’artificiale Canale Scolmatore di Nord Ovest (CSNO) che da Paderno Dugnano devia parte delle acque del Seveso nel Ticino; poi, essendo insufficiente, si è progettato un Canale Scolmatore di Nord Est (per deviare le acque del Seveso nel Lambro) mai però realizzato per altre criticità; infine dal 2003 uno studio della Regione ha imboccato la strada della «laminazione», cioè di una serie di aree collocate lungo l’asta del fiume nelle quali scavare vasche artificiali dove far confluire temporaneamente le acque del Seveso in piena. Anche qui la scelta è squisitamente politica e la Procura si arresta di fronte al fatto di non essere legittimata a stabilire se le vasche siano la soluzione migliore per il Seveso e per il suo bacino. Ma su questa scelta fa le proprie valutazioni in termini di nesso di causalità, basandosi sulla relazione del professor Natale per il quale le vasche, se fossero state realizzate, avrebbero prevenuto 19 delle 20 peggiori esondazioni del Seveso fino al 2014 (periodo dell’indagine). Quando si passa ai ruoli, e quindi ai giudiziariamente sommersi e salvati dalle piene del Seveso sotto indagine, i pm rimarcano che solo la Regione, e non i singoli Comuni, ha il potere ed il dovere di realizzare interventi strutturali, ma nel contempo prendono atto della complessità del lavoro di un presidente di Regione, del tempo necessario a far partire i lavori, delle difficoltà da sistemare. E tuttavia le piene del Seveso sono così ricorrenti da non rappresentare più di fatto un pericolo eventuale ma una certezza, quantomeno nel se, ovviamente non nel quando e nel quante volte. Perciò, tra i vertici avvicendatisi al Pirellone, i pm si ritengono di non poter muovere ragionevolmente un rimprovero a coloro che hanno ricoperto la carica per meno di due anni dalle esondazioni più significative, nel presupposto che sia il tempo minimo da lasciare a chi assume una carica politica, soprattutto se privo di competenze tecniche, per rendersi conto dei problemi, individuare gli interventi necessari, stabilire una scala di priorità e trovare i finanziamenti. Per questo sembrano avviati ad archiviazione Maroni e i suoi ex assessori al Territorio.

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L?acqua sommerge la zona Nord di Milano

Gli episodi più gravi

Il rovescio di questo criterio è invece l’imputazione per l’esondazione del 18 settembre del 2010 (75 milioni di euro di danni in allagamenti di strade, edifici pubblici e privati, negozi e tre stazioni della metropolitana M3) all’allora presidente della Regione, Formigoni, e al suo assessore al Territorio, Boni; ma anche all’allora sindaco Letizia Moratti e al vicesindaco con delega alla Protezione civile Riccardo De Corato (attuale assessore alla Sicurezza nella giunta regionale di Attilio Fontana), ai quali si rimprovera di aver «omesso di assicurare, attraverso il sistema di protezione civile comunale, adeguate misure di prevenzione e di contenimento dei danni da esondazione del torrente Seveso, in specie mediante una idonea attività di informazione e formazione dei residenti nelle aree a maggior rischio di esondazione, anche attraverso l’organizzazione di esercitazioni coinvolgenti la popolazione medesima, nonché mediante la fornitura, ai medesimi, di opportuni presidi (ad esempio sacchetti di sabbia, tavole di copertura, eccetera) idonei a limitare i danni». Stesso schema per l’esondazione dell’8 luglio 2014 da 28 milioni di danni e per quella del 12 novembre 2014 da 75 milioni di danni (seguita da quella del 15/16 novembre): qui infatti il nucleo centrale riguarda ancora Formigoni e gli assessori al Territorio, Boni e Belotti, ma la prospettata omessa informazione ai cittadini viene contestata dalla pm Maura Ripamonti (con il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano) anche all’allora sindaco Giuliano Pisapia, sempre nella veste di Autorità Comunale di Protezione Civile, e all’allora delegato alla Protezione civile Marco Granelli, che oggi è assessore comunale alla Mobilità nella giunta di Giuseppe Sala. Un tratto di pulizia idrica di competenza tra Paderno Dugnano e il Naviglio Martesana, trasferito dalla Regione all’Agenzia Interregionale per il Fiume Po (AIPO), chiama infine per i pm anche il ruolo del dirigente Luigi Mille.

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Niguarda, esonda il Seveso
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