Fichi d'India, Max Cavallari: «Non andavo a trovare Bruno Arena perché stavo troppo male e non facevo più ridere»

diAnna Gandolfi

Il comico parla dell'amico e collega scomparso nel 2022: «Dopo il malore a Zelig nel 2013 era prigioniero in un corpo non suo». Il legame nato a Varese da bambini: «Era il ras dell'oratorio, non mi faceva mai giocare. Mi sono vendicato: col primo ingaggio gli ho regalato una bici con le gomme bucate»

Max Cavallari

Bruno Arena, morto il 22 settembre 2022, e (a destra) Max Cavallari, 59 anni

Quali sono stati, quest’anno, i temi più cliccati dai lettori su milano.corriere.it? Il 2023 si conclude: dal 20 dicembre, uno al giorno per 10 giorni, ripubblichiamo alcuni tra gli articoli milanesi e lombardi che hanno suscitato più dibattiti, commenti, condivisioni nella community digitale. Buona lettura!

(Articolo uscito il 19 marzo 2023)

È vero che con uno dei primi ingaggi ha comprato una bicicletta?
«Mica per me. Era un regalo che volevo fare da tanto tempo».

 A chi? 
«A Bruno. Ovvio. Non era una bici qualsiasi». 

Che bici era? 
«Una Bianchi. Con le gomme bucate». 

Ma come? 
«Era una vita che gli dicevo: ti buco le gomme della Bianchi. Di biciclette ne aveva 10, era fissato. C’era una Bianchi azzurrina che teneva come una reliquia. Se mi faceva arrabbiare lo minacciavo: te la scasso. Non ho mai messo in pratica però quel regalo è stata una soddisfazione. Sono cresciuto con 'sta cosa: il Bruno mi stava sulle balle». 

Max Cavallari e Bruno Arena sono i Fichi d’India. Nati e cresciuti a Varese, hanno calcato i palchi di tutta Italia sfornando tormentoni della comicità dagli anni ’90: ahrarara, tichitic. «Qualcuno ci guardava dall’alto in basso: comicità da villaggio turistico. Intanto noi prendevamo i premi. Bruno tagliava corto: se ridono, abbiamo vinto. E la gente rideva, eccome se rideva...». Bruno Arena è morto il 22 settembre 2022. «Mi è mancata la terra sotto i piedi — racconta Max —. Tutto in realtà era cominciato molto prima». Nel 2013 un aneurisma ha strappato Arena dai palchi. 

«Lo andavo a trovare, oggi penso non abbastanza. Lo andavo a trovare poco: faceva malissimo vederlo così. Non riuscivo a fare niente, non mi alzavo dal letto, non riuscivo a fare gli spettacoli. Senza di lui non ero più io. Sono stato fermo più di un anno». Poi ha ricominciato. «Molto dura». Ora ha nuovi show all'attivo e gira l’Italia presentando il suo libro: «Non spegnere la luna». «Lo ripetevo a Bruno. Qualsiasi cosa succeda, non spegnere la luna. Lui mi guardava, non parlava, so che capiva. Ogni tanto accennava ad alzare il dito medio...». Cavallari ha 59 anni. Nei centri commerciali e nelle librerie il pubblico non manca. Tuta rossa e capelli che sfidano la gravità («Si abbassano solo quando fa il bagno», rivela la compagna, e sua agente, Elena Gaia: «Ci siamo incontrati nel 2020, al primo appuntamento lui usciva da teatro e si è presentato con un parruccone rosso, sembrava la strega dei Puffi. Ero imbarazzatissima. Non ci siamo più lasciati»). 
Lo incontriamo così, tra un selfie, una gag e fan in vena di amarcord. 

Riavvolgiamo il nastro. Con Bruno niente amore a prima vista.
 «Bruno era l’Arena Bruno della Brunella, rione di Varese. Abitava a 50 metri da casa mia. Aveva sei anni in più, era quello grande, il ras dell’oratorio. Ed era quello bastardo: mai una volta che mi facesse giocare a calcio, a basket, a palla avvelenata o a nascondino. “Tanto chi ti cerca?”. Avevo otto anni e già non lo sopportavo. Mi divertivo a dargli il tormento. Ciao Bruno, e lui: ciao imbranato. Ciao Bruno, e lui: ciao imbranato. Ciao Bruno, se non mi chiami per nome sto qui tutto il giorno. Alla fine ha ceduto».

 Lei vive sempre a Varese?
 «L’ho lasciata perché è cambiata. Quando l’ho detto, parlando ad esempio del carcere che cade a pezzi, ci sono state delle polemiche. Adesso sto sul Lago Maggiore, a Laveno Mombello. Ho preso casa vicino a Renato Pozzetto che è nato lì. Stiamo tutti lì, chi ci è cresciuto e chi è arrivato: Francesco Salvi, Enzo Iacchetti. È la terra di Nanni Svampa, dei Gufi, di Piero Chiara, di Dario Fo, di Cochi. A Natale facciamo le rimpatriate con Abatantuono. Arrivano Teocoli, D’Urso, Parietti, Venier...». 

Ci veniva anche Bruno? 
«Per un periodo sì. Il libro l’ho scritto anche per lui: non vuole essere un cimitero degli elefanti, vuole essere la storia dei Fichi d’India. Non so come abbiamo fatto ad andare d’accordo, avevamo sempre idee opposte. Lui aveva studiato, faceva il prof di educazione fisica. Io ho la terza media e mi diceva: prendi il diploma, non comprare macchine costose, non fumare».

Come un fratello maggiore. 
«Poi le parti si sono invertite. Dopo l'aneurisma lo andavo a trovare e lo vedevo lucidissimo, in un corpo non suo. Forse per questo sono andato da lui troppo poco. Nella clinica dove è stato ricoverato all'inizio c’era anche Lamberto Sposini. Li facevo divertire, che gare in carrozzina». 

Sono passati dieci anni.
«Maledetto 17 gennaio. Bruno lo sapeva che il 17 gli portava male. Dalle sue agende il 17 di ogni mese era cancellato, una riga dopo l’altra. Nel 1984 il primo incidente, quello in auto che gli ha lasciato le cicatrici sulla fronte, è avvenuto il 17: uno gli aveva tagliato la strada». 

Poi c’è stato il malore. Il 17 gennaio 2013 stavate registrando una puntata di Zelig.
 «Continuo a chiedermi se avrei potuto accorgermi di qualcosa. C’era la giacca intrisa di sudore, aveva litigato con uno degli autori: ci chiedevano i ritmi di Ahrarara ma la nostra età ormai era quella che era. Lui sale sul palco carico, troppo. Deve fare il dinosauro. Cade a terra, il pubblico pensa a una gag e ride. Inizia a sbattere un braccio. Silenzio. C’è un medico? No. Dicono: è una congestione. L’ambulanza parte in giallo. Invece era un aneurisma. Speravo migliorasse e invece non migliorava. Non avevo più voglia di fare nulla. Alla fine, però, con lui vicino ho capito di dover tornare sul palco. Un po’ per entrambi». 

Come ha iniziato a fare il comico? 
«Mio padre aveva “la fabbrichetta” di calze e collant nata dal niente grazie a mio nonno. Sessanta dipendenti. È stata la mia scuola: ho fatto il chimico, il taglia e cuci. Organizzavo gli scioperi contro mio papà, Giuseppe Rocco, e lui si arrabbiava di brutto. Alla fine mi ha licenziato. Io volevo fare il comico e loro a casa mi dicevano no, non andare a fare lo scemo».

È finita diversamente. 
«Facendo lo scemo, quando c’è stata la crisi del tessile, la liquidazione agli operai sono riuscito a pagarla io. Nessuna rivalsa: la mia famiglia per me aveva fatto tanto e io sono stato felice così». 

Origine dei Fichi d’India.
 «Il nome l’abbiamo scelto d’estate al mare. L’inizio vero? A Varese, al bar Fuoripasto: la moglie di Bruno lavorava lì e noi la aspettavamo raccontando barzellette. Si radunava un gran pubblico. Un manager di Radio Deejay ci ha intercettato». 

Roberto Benigni vi ha affidato la parte del gatto e la volpe nel suo «Pinocchio». 
«Nel 1999 facevamo il Dopofestival con Fabio Fazio, Alessia Marcuzzi, Teo Teocoli. Teocoli ci fregava le battute e noi eravamo in una situazione d’imbarazzo. Cioè, Teocoli lo faceva per scherzare ma per noi non era semplice. Benigni ha raccontato di aver pensato: guarda questi che fanno ridere anche se sono imbarazzati...». 

Vi ha chiamato a Roma. 
«Immaginatevi Benigni che vi scruta, come sa fare lui. Tu hai gli occhi in giù - ero io - un po’ tristi, come un gatto che se si arrabbia sono dolori. Tu - era Bruno - hai l’occhio furbo. Siamo entrati nel cast. Benigni annuncia: vi viene a prendere il mio autista. Poi si presenta un signore con una Opel scassata. Mi dico: siamo su Scherzi a parte». 

Invece? 
«Invece Roberto per tutti i suoi film ingaggiava persone che non avevano lavoro e dava loro uno stipendio. Era così per l’autista, la macchina era la sua personale. Per Roberto la squadra è tutto». 

Sul set come andava? 
«Noi non studiavamo mai niente, improvvisavamo. Roberto ci faceva il mazzo: adesso immaginiamo che il Gatto e la Volpe abbiano imparato la parte, in sei o sette ore dovremmo farcela... Ha scelto molti dei nostri girati fuori copione, forse per disperazione». 

Però di voi ha scritto: «Due clown meravigliosi, inarrestabili, indefinibili».
 «Parole bellissime». 

Avete conosciuto bene Maurizio Costanzo.
«Era il 1999. Per “Amici, ahrarara” ci ispiravamo agli imbonitori di provincia, uno su tutti: Sergio Baracco con la sua erre moscia. Baracco si è arrabbiato, si sentiva diffamato. Voleva denunciarci ed era serissimo. Noi eravamo abbastanza spaventati da questa cosa. Poi è intervenuto Maurizio».

Cosa ha fatto? 
«Ha detto che ci pensava lui, che avrebbe invitato tutti nel suo salotto in tv per parlarne». 

Ha fatto da paciere. 
«Ci è riuscito. Baracco si è ammorbidito, è stato la guest star nel film Amici Ahrarara. Abbiamo vinto il Giffoni Film Festival e il Premio nazionale Ugo Tognazzi. Con Baracco tutte le volte che passo a Novi Ligure ci incontriamo».

Con Costanzo era la prima volta che vi sentivate? 
«No. Una volta ricevo una chiamata e questo tizio annuncia: è la redazione del Maurizio Costanzo Show, le passo il dottore. E io: eh? Parte la musichetta. Tremavo. Poi prende la linea il Maurizio vero: vi vorrei in trasmissione ma devo fare un provino adesso». 

Al telefono?
 «C’erano delle regole. In trasmissione bisognava stare sempre seduti. Chiede: mi può fare Cappuccetto Rosso al telefono? Vediamo se è divertente anche così. Ho fatto la vocetta: ciao... ciao.. ciao... È andata bene».

Cosa non le piace del mondo dello spettacolo di oggi? 
«Quelli che se la tirano e nemmeno ti salutano. Io e Bruno prendiamo premi eppure ci sono quelli che ci guardano male. Amici, le casse da morto con le tasche non le hanno ancora inventate. Poi ci sono gli youtuber...».
 
Che cosa hanno fatto gli youtuber? 
«Sono pericolosi, in un certo senso. Guadagnano tantissimo ma poi salgono su un palco e ti chiedono aiuto perché dopo 20 minuti non sanno come tenere la piazza». 

Come si vede Max Cavallari domani? 
«Con l’Ospedale di Circolo di Varese sto portando avanti un progetto a cui tengo molto: rappresentiamo le commedie di Gilberto Govi, me le aveva fatte conoscere mia nonna Gilda. Io la mia pensione la vedo a teatro. Voglio diventare un Fico maturo».

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20 dicembre 2023 2023 ( modifica il 20 dicembre 2023 2023 | 15:36)