Milano

Processo Brigandì, Maroni teste in aula: “Sconsigliai a Salvini di firmare per pagarlo”

L’ex segretario federale e l’ex storico avvocato della Lega Nord si sono trovati uno di fronte all’altro nel processo in cui il legale è imputato per patrocinio infedele e autoriciclaggio
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Vecchi dirigenti di un partito che non c’è più, Roberto Maroni e Matteo Brigandì, l’ex segretario federale e l’ex storico avvocato della Lega Nord, si sono trovati uno di fronte all’altro nel processo in cui l’ex presidente del Pirellone è testimone contro il legale, imputato per patrocinio infedele e autoriciclaggio. Accusato dal pm Paolo Filippini di essersi reso “infedele ai suoi doveri professionali”, per aver omesso “di denunciare il proprio conflitto di interessi” in relazione a un decreto ingiuntivo di 1,9 milioni da lui richiesto nei confronti del partito e di aver continuato a rappresentarlo nelle aule di tribunale.

A proposito di un documento firmato da Salvini, in cui si riconoscono a Brigandì rimborsi per spese legali pari a duecentomila euro, Maroni racconta in aula di averne parlato con l’attuale segretario della Lega, Matteo Salvini. “Gli sconsigliai di sottoscrivere quell’atto - dice Maroni - significava riconoscere un contributo a Brigandì”. “Sono rimasto stupito per il provvedimento che ci venne notificato nel febbraio del 2004 - ha ricordato Maroni a proposito del decreto ingiuntivo che gli arrivò - Nessuno ne sapeva nulla, perché l’avvocato Brigandì aveva dichiarato di non aver nulla da pretendere dalla sua attività di assistenza legale. Avevo verificato che il decreto ingiuntivo fu notificato da Brigandì a se stesso. Da qui, la mia denuncia per infedele patrocinio”.

Nel processo, nel quale la Lega si è costituita parte civile con l’avvocato Domenico Aiello, a Brigandì è stato sequestrato un immobile in Piemonte, mentre gran parte dei soldi oggetto del decreto ingiuntivo sarebbe stata - secondo gli accertamenti del Nucleo di polizia economio-finanziario della guardia di finanza di Milano - prima investita in una polizza vita (da qui il reato di autoriciclaggio) e poi trasferita su un conto bancario in Tunisia, dove l’avvocato aveva la residenza.