Napoli

Eduardo Castaldo: "Ho fotografato il dolore e la guerra"

I volti di Napoli: un'intervista al grande fotografo, autore delle immagini di set per la saga tv "L’amica geniale".

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Muove gli occhi più agile di un micio. Pure se rimane immobile con le gambe, il collo e il torace. Guarda, percepisce in silenzio e nasce lentamente una fotografia. Per adesso. Un giorno – non troppo lontano – lo attende il cinema, dietro la macchina da presa.
Eduardo Castaldo, acerrano di 41 anni, è emigrato in Medio Oriente per assecondare l’amore della paternità e, dice, meglio comprendere le catastrofi. Ha accompagnato per mano lungometraggi scelti al Festival di Cannes, realizzato installazioni politiche nel centro antico di Napoli. Fino a essere catapultato dentro le storie di Lila e Lenù, facce e fantasmi de "L’amica geniale".
E così questa conversazione avviene proprio sui gradini d’ingresso della Biblioteca Popolare del Rione Luzzatti, i cui muri Eduardo ha ripulito e ritinteggiato con toni di grigi e gialli per la serie tv. Di più: ha affisso locandine di "Ladri di biciclette" e "Lo sceicco bianco" sulle rovine del cinema Rivoli, morto a ridosso del terremoto del 1980, per restituire un senso narrativo a questo labirinto di periferia. L’inaugurazione dell’intero progetto è in agenda domattina con il governatore Vincenzo De Luca, le piccole attrici Ludovica Nasti ed Elisa Del Genio e Vittorio Viviani (il maestro). Appuntamento alle 10.

Castaldo, dov’era e perché ha cominciato a fare fotografie?

«Ho cominciato a Napoli nel 2006 per l’emergenza rifiuti. Mi sono spostato in Palestina perché la mia ex compagna era là con mio figlio, neonato, li ho raggiunti e ho preso a lavorare coi settimanali internazionali: in prevalenza americani e francesi. Dopo quattro anni sono andato in Egitto per "coprire" la rivoluzione: alcune immagini hanno vinto il World Press Photo. Ancora due anni al Cairo post-rivoluzione e quando mio figlio s’è trasferito in Germania con la mamma ho capito che poteva bastare. Il vero motivo del fotogiornalismo, forse, era lui.
Desideravo fare altro».

Si sente ancora un fotoreporter, o è un fotografo d’arte?

«È stata la mia prima vita, il mestiere di fotoreporter. Dal 2007 al 2014. Oggi mi ritengo un fotografo. La camera l’ho comperata per fare il primo passo verso il cinema. Non avevo l’intenzione cosciente, per così dire, di fare il reporter di guerra».

Ma qual è la differenza tra fotografo e fotoreporter?

«Il fotoreporter ha una responsabilità diretta su ciò che fotografa. Se scatti il dolore della gente a Gaza dopo un bombardamento, non hai libertà espressiva. Non puoi esprimerti artisticamente. Hai responsabilità sulle persone che ritrai, che si affidano a te e ti affidano le loro storie. La fotografia invece è libertà creativa. Adesso sto tentando di stabilire una connessione tra queste due anime. Per esempio con l’installazione fotografica realizzata a Port’Alba con le scene della Primavera araba, dove c’è una matrice artistica derivata dal fotogiornalismo. Con delicatezza e coscienza. Dopo il 2014, per due anni, ho abbandonato la macchina fotografica. Mi sembrava di non avere il diritto di utilizzare quelle immagini. Così ho scritto una sceneggiatura e l’intenzione è realizzarla da regista. Poi c’è stata una mia mostra nello studio del fotografo Luciano Ferrara e in quell’occasione mi sono sbloccato. Ho capito che devi essere consapevole dei contenuti delle immagini e poi puoi veicolarle. Basta una didascalia per cambiare il senso di una foto».

Ha vissuto qualche frustrazione ...

«Eccome! Accade che tu sia in situazioni di pericolo, durissime, magari pubblichi su "Time" o "‘Le Monde"; sei contento, ti pagano bene, ma se leggi quello che viene scritto negli articoli sei in disaccordo profondo. Perché la mia foto sostiene un testo che non approvo. Professionalmente è il top, ma rispetto all’esperienza vissuta senti estreme discrepanze. Di recente però mi sono riappacificato con il mio archivio del Medio Oriente » .

Napoli ha una potente tradizione di fotografi e di fotogiornalisti. E si dice che aldilà delle architetture e degli spazi cittadini sia la luce stessa del golfo a essere speciale.

«Napoli mi ha dato tutto. È stata indispensabile per la mia formazione. L’aver vissuto qui, prima di andare in Medio Oriente, ha agevolato la possibilità di muovermi in quelle città e instaurare contatti con la gente.
Anche nella mia città avevo sperimentato situazioni tese, dai rifiuti ai fatti di camorra. Napoli ti cresce dentro perché la nostra città è sempre nel ciclone degli organi di informazione. Faccio un flashback: nel 2006 l’emergenza rifiuti non era un boom mediatico. Iniziai a fare foto perché ero di Acerra, ci tenevo alla mia terra e pensavo che quegli scatti avrebbero avuto un senso e una strada. Ma mi accorsi che anche le testate prestigiose in fin dei conti si prestavano a uno strano gioco di comunicazione. Da quel momento mi è stato più chiaro come raccontare gli altri».

Il riconoscimento al World Press Photo le ha fatto intuire che quel che faceva era corretto o, al contrario, che da fotografo dev’essere ancor più intensamente indipendente?

«A me ha fatto capire che desideravo smettere. Paradossalmente. Quando ho ritirato il premio ad Amsterdam ho percepito il declino, anche del cosiddetto business del settore. Ne avevo la nitida certezza. Per cui economicamente e eticamente non sentivo più di appartenere a quel sistema».

Oggi è sul set di "Nevia", il debutto da regista di Nunzia De Stefano, ex compagna di Matteo Garrone. Con lui, lei ha lavorato per "Reality", che a Cannes vinse il Grand Prix. Ma domani presenta ufficialmente la nuova installazione in strada sul limite territoriale Gianturco-Poggioreale: un’idea figlia delle sue foto di set per la saga tv "L’amica geniale".

«Da lettore, ho amato Elena Ferrante prima che ci fosse l’idea della serie tv. Dopo aver scattato le foto sul set sono felice di mettere assieme i romanzi e le immagini con un intervento sul Rione Luzzatti. Dopodiché in primavera si farà un’ampia mostra in un museo napoletano. Cominceremo con l’allestimento nella Biblioteca Popolare – scatti legati alla scuola, all’educazione, ai libri – con un intento più politico che pedagogico. Voglio portare i visitatori qua, lontano dai decumani, perché vedano le installazioni nei cortili, negli androni, sugli edifici. Non si tratta di opere gigantesche, sono lavori di coscienza. Rielaborazioni di foto, sagome, ombre che appaiono come fantasmi per popolare le strade del rione».