Napoli

Il volto di Napoli, Francesco Cito: "La fotografia oltre i like, così racconto storie"

Francesco Cito (foto Riccardo Siano) (siano)
"La mia foto-simbolo? Una palestinese di 10 anni che guarda i soldati israeliani"
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Nelle foto di Francesco Cito c’è l’essenza del giornalismo: raccontare storie con rispetto, senza mai cercare sensazionalismi. Lo confermano i due World Press Photo vinti e lo sostiene Ferdinando Scianna, che del collega napoletano ha detto: «È uno dei migliori in Italia». Settant’anni, nato al Rione Sanità di cui ricorda le luminarie per la festa d’o Munacone, ha consumato le suole delle scarpe - come si dice in gergo - in Afghanistan, Palestina, Iraq, Bosnia e altre zone di guerra; e, ancora, nella Napoli della camorra e del contrabbando, alle proteste dei minatori inglesi e alle contestazioni dei punk, nella Sardegna rurale e al Palio di Siena. Cito è stato pochi giorni fa ospite del Sabato della fotografia, rassegna curata da Pino Miraglia e prodotta da Casa del contemporaneo presso la Sala Assoli e Palazzo Fondi. Dietro le storie di Cito, pubblicate dai più importanti magazine nel mondo, c’è tanto altro da raccontare.

Partiamo da una foto che meglio sintetizza il suo lavoro. Quale sceglieresti?
«Una ragazzina palestinese di dieci anni che guarda l’esercito israeliano andar via dopo che le ha distrutto la casa. Nei suoi occhi c’è odio, l’innocenza è rotta. Non importa quanto questa foto sia estetizzante. È quello che dice. Il medium giornalistico deve far comprendere il senso della realtà oltre i luoghi comuni. In Palestina, ad esempio, manca tutto, non c’è da mangiare. Noi occidentali non sempre conosciamo le cose come stanno, e c’è molta distanza culturale. Una volta a Betlemme, nel piglia piglia animalesco della distribuzione del cibo in strada, un medico - si badi bene cattolico - mi disse: Dopo quello che ci fanno, se mio figlio facesse il kamikaze, lo accetterei».

Come è arrivato al fotogiornalismo?
«La mia aspirazione era l’arte, anche se con le foto di Walter Bonatti dall’Amazzonia o dal Nilo, su Epoca, sognavo di diventare un esploratore. A vent’anni andai a Londra per frequentare una scuola di fotografia. Non avendo soldi, finii per fare il lavapiatti. Ma una sera vinsi 250 sterline al casinò e comprai una macchina fotografica».

Quali furono le prime foto?
«All’inizio erano per me. Nel ’75 feci degli scatti alla Spaghetti House, il ristorante dove tre rapinatori si barricarono con ostaggi. Le volle il produttore dell’omonimo film con Nino Manfredi. Non le ha mai pagate. Poi mi assunse la rivista Radio Guide. Il primo servizio fu il debutto europeo di Santana».

Perché?
«Sudai sette camicie con tutti quei cambi di luce sul palco. Per un anno e mezzo ho fotografato tante star. Ho imparato il lavoro giornalistico frequentando quella redazione: fumosa, malandata, frenetica».

Differenze tra Italia e Inghilterra?
«In quegli anni mi presentai a Epoca con una storia sui punk: una novità, allora. Il caporedattore rispose prima “Punk chi?” e poi, cosa che mi colpì, non ebbe nemmeno la curiosità di guardare le foto. Cadde un mito. Le diedi a L’Europeo, cioè alla concorrenza. Epoca fece un servizio sui punk tre mesi dopo».

Come nacque il reportage per il “Sunday Times” sul contrabbando di sigarette?
«Il photo editor mi concesse un appuntamento. Ma c’era stato un malinteso. Era convinto che fossi lì per acquistare foto. Alla fine, mi mandò a Napoli perché aveva letto una notizia a cui stentava a credere: i contrabbandieri scioperavano».

Fu facile fotografarli?
«Trascorsi un mese a Santa Lucia, ma non si facevano avvicinare. Un giorno, tre signori ben vestiti vennero a prendermi in Mercedes per portarmi a pranzo a Bacoli. Mi offrirono cinque milioni - pari a una cassa di sigarette - per levarmi di torno. Risposi che lo facevo per ambizione e non per soldi, anche se mi servivano eccome. Andò per le lunghe. Poi, uno di loro disse: “Però, ‘o guaglione parla buono”. La sera ero su uno scafo. Fotografai stando alle loro regole. E poiché nelle pause davo volontariamente una mano a scaricare, insistettero nel darmi 150mila lire e tre stecche».

Negli anni ’80, dopo il Libano, ha seguito la camorra. Perché?
«L’avevo lasciata ai tempi dello “sgarro” e la ritrovavo che faceva cinque morti al giorno. Era una guerra. Mi stabilii in Questura, ma non ho passato un minuto in sala stampa. Giravo per gli uffici, stringevo rapporti. Il trucco è che bisogna farsi accettare. Così, dopo un po’ ero fisso sulle volanti, in tutte le azioni. Sul posto sentivo dire: “Ma che è, la Polizia prima ci fa le foto e poi ci arresta?”».

Cosa la colpì di quella storia?
«La gente indifferente ai cadaveri».

Perché ha fotografato tutto ciò?
«Devo capire il perché delle cose e devo far vedere agli altri quello che altrimenti non potrebbero vedere. Se ho smosso anche solo una coscienza, ho fatto centro. Ho iniziato dopo il Vietnam, una guerra che finì appena toccò l’opinione pubblica. Non a caso è stata l’ultima fotografata liberamente».

Ha vinto due World Press Photo, ma non con il servizio a cui teneva di più.
«Sì, era il reportage sulla Palestina del ’93, che The Observer ritenne il migliore degli ultimi dieci anni. Entrambe le volte ho vinto con altri servizi. Nel ’95 ho vinto il terzo premio con quello sui matrimoni a Napoli. Dovevo fare un lavoro sull’infanzia abbandonata, ma un giorno a piazza Vittoria vidi una troupe di otto persone accanto a due sposi. Pensavo fosse un film. Entrai nel meccanismo: la squadra che faceva scena, il custode di un monumento che fittava lo spazio “a nero”, e così via. Quando vinsi il premio, la Rai volle intervistarmi. Erano convinti fossi un fotografo di matrimoni. La seconda volta, il primo posto, fu con il lavoro sul Palio di Siena».

Dove andrebbe domani mattina?
«In Siria o tra i cinquanta milioni di poveri degli Usa».

Il suo viaggio più difficile?
«In Afghanistan. C’era appena stata l’invasione sovietica. Poiché il visto mi fu negato cinque volte, presi un aereo per Delhi con scalo a Kabul. Però non mi fecero scendere e proseguii in India. Lì, tramite un’agenzia di stampa, fui introdotto a due esiliati afghani che mi diedero una lettera di presentazione per un comitato di liberazione in Pakistan. A loro volta, questi mi introdussero a un gruppo di guerriglieri che mi portò alla meta. Ci sono stato tre mesi da clandestino».

Come vede il futuro del giornalismo?
«Resisterà, ma servono contenitori ed editori. Poco fa mi fu offerto di andare in Libia per un servizio sull’ex calciatore Claudio Gentile. Pensai: magari approfitto per vedere che fine hanno fatto le “amazzoni” di Gheddafi e come stanno i monumenti romani. Non andai, pagavano pochi giorni di soggiorno. Un reportage richiede tempo, contatti. Le foto non valgono i like. Bisogna raccontare storie».