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Bracciate contro le leggi razziali: «Il nuoto, antidoto al fascismo»

David Salvadori racconta la vicenda di suo padre Giorgio, fuggito in Svizzera per non essere perseguitato. Nel 1946 divenne campione italiano di stile libero e fondò nel 1956 la società Mestrina

Eugenio Pendolini
2 minuti di lettura

LIDO. Capita che la passione per il nuoto arrivi ad essere, sola e ostinata, un’ancora di salvezza. Anche quando tutto intorno rema contro. E non c’è altra colpa se non l’essere ebreo. E capita che quella stessa passione da salvezza si trasformi in spirito di rivalsa: verso la dittatura, i delatori, le leggi razziali, l’olocausto. In mezzo, però, il cammino è irto di ostacoli.



È la storia di Giorgio Salvadori, raccontata dal figlio David (attuale direttore della piscina Ranazzurra del Lido) nel libro “Il nuoto mi ha salvato la vita”. Un lavoro di ricostruzione storica minuzioso, realizzato unendo documenti dell’epoca, ritagli di giornale, racconti e testimonianze di chi suo padre l’ha incontrato di persona.



La storia di Giorgio Salvadori inizia a Venezia, sua città natale, nel 1921. La sua famiglia, non particolarmente osservante, è di origine ebraica. Suo padre è proprietario di una tabaccheria in Frezzeria, due passi da San Marco. Giorgio inizia a dividersi tra scuole e lavoro, ma ben presto il richiamo dell’acqua cresce in lui. Nel ’34 si avvicina alla scuola di nuoto Passoni alle Zattere. Inizia così le prime gare agonistiche, e compare nelle cronache del tempo come «giovane e promettente balilla».



Gli anni passano, la dittatura svolta verso l’incubo delle leggi razziali. È il ’38 e agli ebrei viene vietato di partecipare alla vita sociale: niente scuola, niente eventi sportivi (così titola la Gazzetta di Venezia del 31 dicembre di quell’anno), niente lavoro, niente bagno in spiaggia al Lido. Giorgio però è intrepido. Decide di gareggiare sotto falso nome.

È il 1942 quando incontra la sua futura moglie, Mirca. Una relazione clandestina. L’amore scoppia proprio quando la situazione precipita: 8 settembre ’43, l’armistizio. È l’inizio dei rastrellamenti nazisti. Irrighe nell’Alpago, poi ancora Venezia a casa dei genitori della fidanzata: Giorgio è in fuga. A novembre, insieme ad altri dieci perseguitati, scappa verso la Svizzera.

Niente da fare, confini sbarrati. «Dammi la pistola che mi sparo: è una delle poche cose che mio padre ci ha raccontato di quegli anni», rivela David Salvadori, «ed è curioso vedere, oggi come allora, che la storia si ripete con la chiusura dei confini». Il gesto, ad ogni modo, spiazza la guardia di confine, che lo lascia passare. Neutrale durante la guerra, la Svizzera presidiava il suo territorio. Così, a lavorare ci vanno gli immigrati. Tra loro, Giorgio finisce in un campo di lavoro al nord. «Mi trattano come uno schiavo», confida in una lettera scoperta dal figlio. Resiste, non può fare altrimenti. Allo stesso tempo, la voglia di nuotare non è assopita. A Lugano prima, a Zurigo poi (in mezzo anche una punizione per una sassaiola all’indirizzo di un treno carico di nazisti col braccio teso), Salvadori riprende a gareggiare e a insegnare. Fino al fatidico 25 aprile ’45, giorno della liberazione. Fa rientro in Italia, a bordo di mezzi di fortuna. E qui ritrova Mirca, la sua amata. Nel ’46, la sua consacrazione: a Milano, Salvadori diventa campione italiano sui 100 e 200 metri stile libero. Da qui in avanti, si dedica all’insegnamento. Fonda nel ’56 la Mestrina Nuoto e trasferisce la passione ai suoi figli. Compreso David, che dal 2002 gestisce la piscina del Lido. «La passione ha guidato mio padre per tutta la vita» confida «ma la mia ricerca storica di sicuro non finisce qui» —

Eugenio Pendolini

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