Tutti gli articoli di Maurizio Paganelli

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L’età delle News

Guardate questo elenco di direttori di stampa quotidiana e tg televisivi italiani, segnalati in base all’età e al genere.
Non scopriamo nulla nel dire che su 64 direzioni e condirezioni di altrettante testate giornalistiche solo tre sono di donne. Non rispecchia né il numero di giornaliste (oltre il 41%) né tanto meno delle donne in Italia. Una ricerca del Reuters Institute su 240 testate in 12 Paesi (in tutti i continenti) indicava che solo 2 giornali su 10 sono diretti da donne, ma in media le donne giornaliste sono il 40%.
I giornalisti (uomini e donne) sarebbero in Italia oltre centomila, 30 mila i professionisti iscritti all’Ordine nell’apposito elenco e 75 mila i pubblicisti (attività non principale). In realtà solo 36 mila sarebbero i giornalisti attivi – Osservatorio Giornalismo AgCom – ancora troppi se paragonati ai dati della Gran Bretagna o degli Stati Uniti (simili invece alla Francia).
Interessante è soffermarsi sull’età. Già da tempo l’indagine AgCom segnalava l’invecchiamento della professione: «nel 2000, più della metà dei giornalisti (53%) aveva meno di 40 anni, mentre oggigiorno tale quota è scesa a circa un terzo (34%)». Ed era il 2015. Poi nel 2018 rispetto al 2000 i giornalisti fino ai 30 anni sono passati dal 16,9% al 6,4%, mentre quelli tra i 61 e i 70 anni sono cresciuti dal 2,4% all’11,9%.
La rivista Prima Pagina, nel 2018, segnalava – su dati Casagit, la cassa di assistenza integrativa dei giornalisti – che «l’età media dei giornalisti italiani è passata da 47 a 58 anni».
Ancora più illuminante è osservare le scelte degli attuali editori italiani su chi debba dirigere le aziende. E un piccolo confronto va all’altro secolo e al coraggio di quegli anni.
Delle 61 testate che ho guardato – sperando senza macroscopici errori – 49 direttori (e a volte condirettori) sono over 55. In 17 hanno superato i 65 anni. Sotto i 45 anni solo 5 direttori. Sono 34 i direttori che hanno oggi o che avevano al momento di essere nominati tra i 50 e 60 anni.

Le grandi eccezioni sono SkY Tg24 che nel 2019 promosse a direttore Giuseppe De Bellis che aveva allora 42 anni. Poi c’è il gruppo dei giornali nazionali (Nazione, Resto del Carlino, Giorno, QN) con Agnese Pini direttrice della Nazione a 34 anni e a 37 di tutte le testate del gruppo. Quindi c’è Il Foglio che nel 2015 fece diventare direttore a 33 anni Claudio Cerasa. Il Tempo ha un direttore di 49 anni e Il Secolo d’Italia uno di 44. Sembra che il pianeta conservatore dei media sia più aperto alle nuove leve. Rispondono però, debolmente, Domani e Il Manifesto con direttori di 52 e 50 anni.
Eppure un tempo nell’editoria che conta si era assai più arditi. Nel 1992 nasceva il TG5 e Berlusconi scelse Enrico Mentana che aveva 37 anni. Panorama nacque nel 1962 e Mondadori nominò come primo direttore Nantas Salvalaggio (nato nel 1923) quando aveva 39 anni. Poi, nel 1965, promosse Lamberto Sechi (nato nel 1922) uno che aveva 43 anni. L’Espresso apparve nel 1955, direttore era Arrigo Benedetti (nato del 1910) e all’epoca aveva 45 anni. Quindi, nel 1963, diventò direttore Eugenio Scalfari, nato nel 1924, all’età di 39 anni. Nel 1976 si stampò il primo numero di Repubblica ma Scalfari aveva già 52 anni…
Nel 1976 nacquero anche le tre Reti Rai: il TG1con direttore Emilio Rossi (nato nel 1923) che aveva 53 anni; il TG2 venne affidato ad Andrea Barbato (1934) che aveva 42 anni; al TG3 si installarono Biagio Agnes (1928), che aveva 48 anni, e Sandro Curzi (1930) che ne aveva 46.
Sky Tg24 apparve in Italia nel 2003 e il direttore scelto fu Emilio Carelli che aveva allora 51 anni.
Il Giornale nuovo nacque nel 1974, Indro Montanelli (nato nel 1909) compiva allora 65 anni.Il Foglio apparve nel 1996, con Giuliano Ferrara che aveva 44 anni. Libero spuntò nel 2000, Vittorio Feltri (del 1943) aveva compiuto 57 anni.
Il Fatto quotidiano andò in stampa nel 2009, Marco Travaglio (del 1964) aveva 45 anni, Peter Gomez 46 e Antonio Padellaro, che aveva 63 anni, ne diventò il primo direttore.
Mario Orfeo è un caso a parte. Diventa direttore de Il Mattino di Napoli nel 2002 a 36 anni; poi passa nel 2009 a dirigere il TG2 della Rai quando ne ha 43, due anni dopo a 45 siede sulla poltrona più alta de Il Messaggero. Ed è ancora direttore in Rai oggi. Non voglio assolutamente sostenere che i trentenni o i quarantenni siano migliori dei sessantenni, ovviamente. Mi chiedo solo se nelle scelte degli editori non vi sia poca voglia di rischiare sul nuovo. Specchio di un’Italia e di una professione che invecchia. Forse la Destra sta capendo meglio della Sinistra tutto questo? Certo i risultati in copie vendute o ascolti non danno una risposta univoca. I media sono cambiati in tutti i sensi. Gli over 55 – nella mia personale opinione e salvo rarissimi casi di esemplari foreveryoung – hanno difficoltà (unfit to understand Italy, direbbe l’Economist?) a capire i veloci cambiamenti dei queste epoche per “dirigerle”.
Nel 2022 sotto il titolo “Il giornalismo è un mestiere per vecchi”, Tito Borsa (www.lavocechestecca.com) basandosi sull’inchiesta di WatchDogs, scriveva: «L’assenza di un ricambio generazionale non è solamente un problema interno al mondo del giornalismo, bensì anche dei lettori. Ormai i giornali sono scritti da vecchi per i loro coetanei, offrendo una visione stantia e retrograda della realtà. Come possiamo avere un aiuto nell’interpretazione del mondo che ci circonda se in questa narrazione sono esclusi proprio coloro che quel mondo stanno costruendo e cambiando?»

Ecco la tabella dei direttori con età

Fabio Tamburini direttore Sole24ore dal 2018. Nato nel 1954, ha 70 anni. Diventato direttore a 64 anni.
Luciano Fontana, dal 2015 direttore Corriere della sera. Nato nel 1959 ha 65 anni, direttore a 56 anni.
Maurizio Molinari dal 2020 direttore di Repubblica. Nato nel 1964 ha 60 anni, a 56 anni a Repubblica.
Marco Travaglio, dal 2015 direttore de Il Fatto, nato nel 1964 ha 60 anni, diventa direttore a 51 anni.
Alessandro Sallusti direttore responsabile e Vittorio Feltri direttore editoriale de Il Giornale nati rispettivamente nel 1957 (ha 67 anni) e nel 1943 (ha 81 anni).
Mario Sechi, dal 2023 direttore di Libero, nato nel 1968, ha 56 anni. Condirettore Pietro Senaldi, nato nel 1969, ha 55 anni.
Maurizio Belpietro, dal 2016 direttore (e proprietario) de La Verità e poi di Panorama, nato nel 1958 ha 66 anni, diventa direttore a 58 anni.
Enrico Bellavia, direttore de L’Espresso, nato nel 1965, ha 59 anni.
Andrea Malaguti, direttore de La Stampa, nato nel 1965, ha 59 anni.
Piero Sansonetti direttore de L’Unitá nato nel 1951 ha 73 anni
Antonio Rapisarda (1980) direttore del Secolo d’Italia dal 2024 ha 44 anni
Andrea Fabozzi direttore de Il Manifesto nato nel 1972 ha 52 anni
Claudio Cerasa (1982) direttore de Il Foglio dal 2015 (a 33 anni) ha ora 42 anni
Emiliano Fittipaldi direttore di Domani nato nel 1974, 50 anni
Claudio Velardi direttore de Il Riformista nato nel 1954, 70 anni
Alessandro Barbano direttore de Il Messaggero nato nel 1962 ha 62 anni
Francesco De Core direttore de Il Mattino nato nel 1965 ha 59 anni
Agnese Pini è direttrice dei quotidiani La Nazione (dal 2019) a 34 anni e dal 2022 anche Il Giorno, Il Resto del Carlino, Il Telegrafo e Quotidiano Nazionale. nata nel 1985, ha ora 39 anni
Tommaso Cerno è direttore de Il Tempo nato nel 1975, 49 anni
Roberto Papetti è il direttore de Il Gazzettino nato nel 1960, ha 64 anni
Marco Girardo è il direttore de L’Avvenire, nato nel 1972, ha 52 anni
Carlo Fusi è il direttore de Il Dubbio, nato nel 1960, ha 64 anni
Massimo Razzi è il direttore del Quotidiano del Sud, nato nel 1952, 72 anni
Fabrizio Nicotra è il direttore di Leggo nato nel 1971, ha 73 anni
Luciano Tancredi è il direttore de Il Tirreno nato nel 1965, ha 59 anni
Salvatore Puzzo, direttore di Metro, è del 1957, ha 67 anni
Pasquale Clemente è il direttore responsabile del Roma e della Gazzetta di Caserta, nato nel 1965, ha 59 anni
E ancora:
Alto Adige – Alberto Faustini del 1964, ha 60 anni
L’Adige – Pierluigi Depentori del 1971, ha 53 anni
La Sicilia – Antonello Piraneo (1964) ha 60 anni e Domenico Ciancio Sanfilippo (1974) ha 50 anni
Giornale di Sicilia – Marco Romano del 1969 ha 55 anni
Il Centro – Piero Anchino del 1966, ha 58 anni
Gazzetta del Sud – Alessandro Notarstefano del 1960, ha 64 anni
Il Giornale di Calabria – Giuseppe Soluri del 1952, ha 72 anni
La Gazzetta del Mezzogiorno – Oscar Iarussi del 1959, ha 65 anni
La Nuova Sardegna – Giacomo Bedeschi del 1973, ha 51 anni
L’Unione Sarda – Emanuele Dessì del 1964, 60 anni
La Nuova Ferrara – Cristiano Meoni del 1968, ha 56 anni
Il Corriere delle Alpi, Il Piccolo, Messaggero Veneto, La Nuova Venezia, Il Mattino di Padova, La tribuna di Treviso e il sito NordEst Economia – Luca Ubaldeschi del 1963, ha 61 anni
Il Secolo XIX – Stefania Aloia del 1967, ha 57 anni
L’Eco di Bergamo – Alberto Ceresoli del 1962, ha 62 anni
L’Arena di Verona e Brescia Oggi – Massimo Mamoli del 1968, ha 56 anni
Giornale di Brescia – Nunzia Vallini del 1965, ha 59 anni
La Prealpina – Silvestro Pascarella del 1966, ha 58 anni
MilanoToday – Alessandro Rovellini del 1983, ha 41 anni
Corriere Adriatico – Giancarlo Laurenzi (1965) ha 59 anni
Corriere dell’Umbria – Sergio Casagrande del 1967, ha 57 anni
Il Dubbio – Davide Varì del 1971, ha 53 anni
Italia Oggi – Pierluigi Magnaschi del 1941, ha 83 anni; condirettore Marino Longoni (1958) ha 66 anni
L’Opinione della Libertà – Andrea Mancia del 1967, ha 57 anni
La Gazzetta dello Sport – Stefano Barigelli del 1959, 65 anni
Il Corriere dello Sport – Ivan Zazzaroni del 1958, ha 66 anni

Direttori tv

TG1 – dal 2023 Gian Marco Chiocci (nato nel 1964), diventa direttore a 59 anni
TG2 – dal 2023 Antonio Preziosi (1967), a 56 anni
TG3 – dal 2022 Mario Orfeo (1966), a 56 anni
Rai News24 – dal 2021 Paolo Petrecca (1964), a 57 anni
TG La Sette – dal 2010 Enrico Mentana (1955), a 55 anni
SKY Tg24 – dal 2019 Giuseppe De Bellis (1977), a 42 anni
TG5 – dal 2007 Clemente Mimun (1953) lo dirige (dopo breve interruzione) iniziando a 54 anni, ora ne ha 71
Tgcom24 (Studio Aperto e TG4)/NewsMediaset – dal 2016 e poi dal 2019 Andrea Pucci (1961) diventa direttore a 55 anni

La perdita di Bene (Mauro)

Ora che piangiamo Mauro affiorano i ricordi dei tempi lontani, quando tutti eravamo giovani, sfrontati e militanti. Ma anche affiorano i ricordi degli ultimi giorni, dialoghi di settantenni caparbi, capaci ancora di litigare, ma anche di essere assai più silenziosi. Ci scambiammo un pensiero di Charles Bukowski:

Caddi in uno dei miei patetici periodi di chiusura.

Spesso, con gli esseri umani, buoni e cattivi, i miei sensi semplicemente si staccano, si stancano: lascio perdere.

Sono educato.

Faccio segno di si.

Fingo di capire, perché non voglio ferire nessuno.Questa è la debolezza che mi ha procurato più guai. Cercando di essere gentile con gli altri spesso mi ritrovo con l’anima a fettucce, ridotta ad una specie di piatto di tagliatelle spirituali.


Ecco così mi sembravi in questi ultimi anni, e te lo scrissi, e mi è tornato alla mente ora.
Con Mauro ci siamo conosciuti ventenni, erano gli anni Settanta del secolo scorso, anni di speranza e di rivolta. Stesso liceo, sede centrale dell’Avogadro, quartiere Coppedé di Roma, stesso anno. Io e Andrea Purgatori (che abbiamo perduto neppure un anno fa) eravamo compagni di banco ma stavamo in un’altra sezione rispetto a Mauro. Ci conoscemmo alla fine del liceo e dopo la Maturità iniziammo a vederci sempre più spesso. Mauro si iscrisse a ingegneria (e studiava con l’amico Riccardo Zappalà) mentre io prima a Medicina (studiavo con Arnaldo D’Amico) e poi a Scienze Politiche. Mentre frequentavamo – verbo improprio, poche volte andavamo in realtà a lezione – l’università ci impegnammo a dar ripetizioni a decine di bimbi nell’allora borghetto di Monti di Pietralata, non lontano dal lanificio Luciani che fu di lì a poco occupato per i licenziamenti e poi chiuso definitivamente. Mauro seguiva i maschi più grandi, adolescenti inquieti, spesso violenti tra loro per storie passate o sgarbi recenti ed era tra i pochi che si facevano ascoltare. Riusciva miracolosamente a riportarli sui libri e sui compiti. Lo studio era davvero una grossa fatica per loro, una rinuncia. Eppure a maschi e femmine, grandi e piccoli piaceva tanto poter parlare con noi ventenni dai capelli lunghi e scarpe buone. Mauro era capace di relazionarsi e stare con i “ragazzi di borgata” e trovò anche lavoro come insegnante nelle carceri minorili ma finì per renderli così coscienti dei loro diritti che una rivolta ebbe come conseguenza il licenziamento di tutto il suo gruppo.
Avevamo al doposcuola parecchi bambini figli di operai o operaie del lanificio e andammo varie volte a portare la nostra solidarietà e aiuti concreti quando venne occupato. Per una serata portammo i dischi del Canzoniere, Ivan Della Mea, Giovanna Marini. I canti delle mondine, Bella Ciao e le canzoni della Resistenza, testi rivoluzionari: L’Italia l’è malata E Lenin l’è il duttur, Per far guarir l’Italia Tagliem la testa ai siur… Tanti ringraziamenti e sorrisi ma i dischi risultarono in realtà poco graditi perché poco ballabili, gli operai tessili preferivano Jesahel dei Delirium o Montagne Verdi di Marcella Bella. I bambini ci risero tanto, noi capimmo la lezione.

Disciplina e lealtà

Furono anni di esperienze e legami fortissimi che sono rimasti nel tempo, prima di tutti con la sua amatissima Eleonora Ravello, sua ex moglie per un soffio di tempo, amica e confidente per sempre, e con Cristina Bellussi, che oggi lo piangono strette ad Alessandra Longo, inviata anche lei di Repubblica, da oltre 30 anni inseparabile, stimolante e protettiva moglie nella buona e cattiva sorte.
Il dopo scuola di Pietralata prima fu nei locali di una parrocchia francescana, rasentando un approccio comunitario cattolico. Poi si decise di affittare una casetta, sicuramente abusiva, con un giardinetto. Appendemmo fuori un cartello: Collettivo Comunista di Pietralata e ci risvegliammo nella Rossa Primavera. Non catto-comunisti ma Comunisti-comunisti a sinistra del PCI, com’era già stato per me fin dall’autunno caldo del ’69 nel Collettivo dell’Avogadro quando si vagheggiava l’unità operai-studenti sull’onda delle proteste anti-autoritarie di massa. Era il vagito dell’estremismo, che rifiutava in blocco il pachiderma riformista e “revisionista”, quel Partito Comunista così legato a Mosca. Sebbene fossimo i primi ad esultare e studiare la Rivoluzione d’Ottobre, ora guardavamo alla Cina maoista, alla Cuba di Castro e Che Guevara, alla Primavera di Praga e alla Rivoluzione Culturale, al Vietnam che lottava “per la libertà” contro l’imperialismo americano, volutamente ignari degli obbrobri della cosiddetta “Dittatura del proletariato”. E Mauro ci si immerse in pieno oltre ogni misura e si formò davvero in quegli anni: militante (un “quadro”) di Avanguardia Operaia (AO), piccolo gruppo, almeno a Roma anche dopo l’unificazione con Sinistra Leninista, che nella capitale aveva come leader Silverio Corvisieri, anni dopo deputato PCI.
A Roma AO era una organizzazione minoritaria nel panorama caotico delle formazioni extraparlamentari a sinistra di PCI e PSIUP. Nonostante fossero gli anni del centro-sinistra e di importanti conquiste e riforme, i socialisti di Nenni erano becera Destra, figuriamoci i socialdemocratici di Saragat, i “servi degli Usa”. Erano anni di innumerevoli cortei, slogan e atti violenti, di continue zuffe tra servizi d’ordine per conquistarne la testa – di attriti fisici soprattutto con i militanti del PCI – di scontri con la polizia (“lo Stato borghese si abbatte e non si cambia”) e con i fascisti; erano gli anni della strategia della tensione e delle bombe, dei timori del colpo di Stato e dell’internazionalismo. «Una sera mi arrivò la notizia di non dormire a casa per qualche notte», raccontava Mauro, «C’era odore di colpo di stato e anche i dirigenti del PCI erano in allarme».
Questo il retroterra politico-culturale di Mauro, una formazione da “quadro di partito”, che gli aveva lasciato due peculiarità: la disciplina e la lealtà. Furono i tempi della dittatura dei Colonnelli in Grecia – evento che segnò tutta la nostra generazione (durò dal 21 aprile 1967 fino al 1974), poi, l’altro terribile 11 settembre di noi più anziani, quello del golpe in Cile e di Allende del 1973. Nel 1970, c’erano state le rivolte degli operai polacchi represse nel sangue, quindi, 4 anni dopo, la speranza che portò la Rivoluzione dei garofani in Portogallo, dove Mauro per Avanguardia Operaia andò a capire meglio chi fossero davvero questi militari che avevano sconfitto Salazar e la dittatura. In Italia c’era un fermento di movimenti e iniziative: le lotte operaie e studentesche, le occupazioni di case, i CUB operai, il movimento dei soldati e lo studio dei testi marxisti-leninisti. Niente Stalin (come per Capanna e Movimento Studentesco) e un poco di Trotzkij, ben poca Rosa Luxenburg, quell’”Aquila che a volte vola bassa come le galline” (Lenin dixit).

L’inchiesta sulla Destra

Discussioni, fumo, musica, vino – che non è mai mancato – nelle agitate nottate comuniste e comunarde. Si creavano convivenze improbabili pur di andare via dalla famiglia d’origine, ci si impegnava allo stremo per un’ideale lontano. Vita con pochissimi soldi e qualche lavoretto rimediato. A volte vacanze tra Ansedonia e Uccellina, ospiti non paganti dai genitori di Eleonora. C’erano anche Piero Schiavello, Arnaldo D’Amico, Silvia Bonaccorsi. Oppure a Sperlonga o sulle montagne, in tenda, con l’amico di quegli anni, sempre disponibile e affettuoso, Marcello Cinque.
Poi arrivò il femminismo – che fu lo tsunami dei gruppi di estrema sinistra (Lotta Continua in primis) – il crescere delle formazioni armate, il movimentismo senza avanguardie, senza partito: ecco tutto questo ha formato e alimentato il giornalista Mauro Bene. Dopo una brevissima esperienza da “volontario” in un piccolo quotidiano abruzzese che si stampava a Roma – Il Mezzogiorno d’Abruzzo – approdò nell’autunno 1975 a Repubblica e lì iniziò fin dalla nascita del giornale di Scalfari nel gennaio 1976. Aveva 24 anni. Una volta Mauro mi ha scritto: «Quando mi liberai di AO per andare a Repubblica fu il giorno più bello della mia vita…fu rompere una cappa che pesava su di me…Silverio cercava di trattenermi… quando me ne andai sentii una felicità che avrò provato solo un altro paio di volte negli ultimi cinquant’anni».
La politica era dunque il suo fulcro ed Eugenio Scalfari con il suo progetto lo folgorò. E possiamo dire che anche Scalfari fu “folgorato” da Mauro. Il gruppo di giovani “arruolati” nella Repubblica – dei 70 che si proposero, dura e competitiva selezione – doveva far riferimento a Gianluigi (Gigi) Melega e Giulio Mastroianni. Restarono in meno di 15 – come ricordava Guglielmo Pepe, con contratti trimestrali finiti solo per intervento del sindacato. Mauro fu tra i primi con Luca Villoresi (uno dei suoi amici più cari e più amato anche da Alessandra, oltre che da tutti coloro che lo hanno conosciuto). E c’erano Irene Bignardi, Guglielmo Pepe, Antonio Cianciullo, Giorgio Lonardi, Paola Zanuttini, Paolo D’Agostini, Guido Barendson, Domenico Del Rio, Tomaso Monicelli, Laura Ballio. E anche Mario Tedeschini Lalli – come lui stesso ha ricordato una volta – che però fece un’altra strada e approdò solo anni più tardi a Repubblica.

Un nucleo di intellettuali

Era un nuovo giornale con un nucleo di giornalisti dal forte carattere e pensiero, capaci di confrontarsi sotto il Grande Regno di Eugenio Scalfari. Parliamo di Mario Pirani, Gianni Rocca, Giorgio Bocca, Andrea Barbato, Fausto De Luca, Sandro Viola, Giorgio Signorini, Giorgio Rossi, Rosellina Balbi. E a seguire Miriam Mafai e Carlo Rivolta. Di lì a poco Mauro sarebbe diventato il loro punto di riferimento al quotidiano, prima capo cronista, poi capo al Politico e infine all’Ufficio centrale, con il suo indimenticato maestro Franco Magagnini. Divenne colui che assegnava pezzi, quello che progettava il giornale del giorno dopo, dove e come inserire gli articoli, come titolarli e “passarli”, spesso correggendoli. Sotto il suo sguardo vigile sono passati gran parte degli editoriali del direttore Eugenio Scalfari e di tutto il gruppo di intellettuali che lo circondava. Insieme a loro un insieme via via crescente di giornalisti, sia grafici che cosiddetti “macchinisti”, che lasciavano Paese Sera o anche l’Unità per questa nuova avventura.
Ma all’inizio, per Mauro, fu davvero dura. E ce la fece sempre da solo. Alcuni articoli, i non moltissimi che portano la firma Mauro Bene su Repubblica, furono sui movimenti della Destra e dell’estrema Destra. Ne ricordo in particolare uno – da inviato – sui neofascisti napoletani, se non sbaglio. Un’inchiesta sul MSI, Movimento Sociale Italiano, ha ricordato Alessandra Longo, fu l’ultima cosa pubblicata a sua firma.
Era la innata curiosità – mai mancata a Mauro anche negli ultimi anni- di scoprire l’altro mondo da sé, quello che aveva combattuto fin da giovanissimo, quello dell’autoritarismo e della dittatura. I suoi folti e lunghi capelli furono – già in adolescenza – segno della sua protesta in famiglia e sfida all’autorità paterna e all’esistenza piccolo borghese – la vecchia piccola borghesia della canzone di Claudio Lolli. Il quartiere dove aveva vissuto da giovane era abitato in gran parte da impiegati, quartiere chiamato Africano, per il nome delle strade: viale Eritrea, viale Libia, via Asmara, via Sirte…Coincidenza vuole che anche Alessandra Longo, sua compagna di vita, stessa curiosità giornalistica, abbia poi seguito per anni sulle pagine di Repubblica le evoluzioni della Destra in Italia.

“Per sempre il mio direttore”

Degli anni di Repubblica e del suo lavoro hanno scritto altri, Massimo Giannini lo ha ricordato sulle pagine del giornale e alla libreria Eli a Roma, tantissimi altri sui social. Quel che posso testimoniare è il suo rapporto forte con Giorgio Leonardi (con cui condivise una casa per un periodo), con Antonio Cianciullo e soprattutto con Luca Villoresi. Magagnini, il mitico caporedattore della Repubblica è stato suo mentore e paterno istruttore. Una vita gomito a gomito, dal pranzo quasi fisso all’Osteriaccia alla casa in Maremma. Con Scalfari aveva un rapporto di massima fiducia, lealtà e di enorme affetto. Uno della famiglia, per Enrica e Donata quasi un fratello, lo scrivo nonostante tutta la retorica che si porta dietro. Quando Scalfari compì 98 anni, prima del luglio fatidico, Mauro scrisse: «Per me come un padre e per sempre il mio direttore»
Con Scalfari si sentiva spesso anche quando era andato in pensione, scambiandosi impressioni e valutazioni politiche e giornalistiche. Mauro non si è mai accontentato, era certo di poche parole anche se non ha mai taciuto un dissenso. Eppure quando non era d’accordo è stato sempre pronto a fare la sua parte: ecco la disciplina e la lealtà che riaffiorano. Chi ha parlato di Repubblica-partito non ha mai colto la complessità dei legami di idee, anche differenti, e di relazioni che l’ha resa unica, ma in quanto a disciplina e lealtà – almeno per Mauro – fu un trovarsi a casa.
Per un periodo Mauro lavorò all’ufficio centrale con Franco Recanatesi, poi divenne lui il successore di Magagnini. Di volta in volta strinse legami professionali e di amicizia con grandissimi professionisti: Paolo Pagliaro, Anna Maria Mori, Antonio Polito, Alfredo Del Lucchese, Federico Geremicca, Massimo Giannini…
Repubblica era ormai diventata, dalla navicella in balía dei venti degli inizi, una “portaerei”, con un brand che nessun altro giornale è mai riuscito a diventare. Indimenticabili i grandi eventi, i dubbi, le tribolazioni, le sfide, il coraggio: dai ricatti dei terroristi con il rapimento Moro, alle battaglie sulla “questione morale”, il crimine organizzato e il malaffare, alle svolte atlantiste dei comunisti italiani, fino agli scontri con Craxi-Ghino di Tacco. Mauro c’è stato sempre, a fianco di Scalfari. E c’era Gianni Rocca. Era sicuramente un’altra Repubblica, quella a cui Mauro è sempre stato più affezionato. Poi vennero fasi diverse. Intense e faticose. Fino ai giorni terribili, con Ezio Mauro direttore, quando si cercava di strappare Daniele Mastrogiacomo dai tentacoli dei talebani. Daniele l’ha ricordato riportando la coincidenza della stessa data di marzo, quando lui fu liberato nel 2007 e questo terribile 19 del 2024, quando Mauro ci ha lasciati in una splendida alba primaverile.

Capalbio e Parigi

Poi avvenne lo “strappo”: era già da tempo vicedirettore, ma fu mandato da Repubblica a dirigere l’AGL. Rimanemmo di stucco. Non era un “pensionamento”, sembrò a molti un “Promoveatur ut amoveatur”, ma tant’è. Il giornale aveva già avuto un mutamento profondo. Durò poco all’AGL, prima colpito dalla malattia poi affondato per la sua ostinata difesa della redazione. Arrivò il tempo del pre-pensionamento. Non volle altro. “Cadde in quei suoi periodi di chiusura”- come diceva Bukowski. Con Alessandra al suo fianco, sua interlocutrice ma anche occhi e orecchi sul mondo politico come lo erano stati i suoi redattori e inviati per tutta la vita professionale. Non è mai stato frequentatore di salotti, legato a clan di potere o di contropotere. Era leale a Scalfari, that’s all. Molto esclusivo nelle amicizie, quelle vere. Poco formale e diretto nei giudizi. Amava viaggiare con Alessandra, e con lei spesso andare a Parigi a trovare l’amico di entrambi Giampiero Martinotti, corrispondente per Repubblica.
Adorava Capalbio, il buen ritiro acquistato e creato a misura della coppia, ultimo approdo dopo anni di girovagare tra case in zona, fin dalla giovinezza, da Ansedonia alla Parrina o alla campagna maremmana. Divenne animalista convinto, i gatti come l’asina e i cavalli erano suoi compagni, come testimonia la sua pagina Facebook. Lì trovate anche gli strali di Mauro, telegrafiche invettive verso le sue “bestie nere”: Berlusconi – of course – o Renzi, Salvini, Meloni, Sgarbi ma recentemente anche il generale Vannacci, Travaglio e il Fatto quotidiano, Piero Sansonetti e l’Unità. E Calenda. Non ha mai abbandonato un’idea di Sinistra schierata contro malaffare, diseguaglianze, fascismo. A me mancherà tanto. Abbiamo discusso sempre con passione, diverse volte con idee diverse. Sento rispetto e affetto che mi è sfuggito via. Cerco con queste parole e ricordi un modo di dirgli addio e mi torna alla mente il verso di Attilio Bertolucci: Assenza, più acuta presenza…

PS. –  Avrei voluto trascrivere questo testo anche sul mio Blog di Repubblica “Apiccoledosi”. Ma tutti i blog sono stati oscurati sulle pagine di Repubblica.it lasciandone solo traccia di archivio, e non posso più scriverci. Non è una lamentela, mi sembrava solo il luogo più giusto dove depositare una simile memoria.

Malaria: un vaccino, anzi due. Ma bastano?

Due altre armi contro la malaria

È che la malaria v’entra nelle ossa col pane che mangiate, e se aprite bocca per parlare, mentre camminate lungo le strade soffocanti di polvere e di sole; e vi sentite mancar le ginocchia, o vi accasciate sul basto della mula che va all’ambio, colla testa bassa, Invano Lentini, e Francofonte e Paternò cercano di arrampicarsi come pecore sbrancate sulle prime colline che scappano dalla pianura, e si circondano di aranceti, di vigne, di orti sempre verdi; la malaria acchiappa gli abitanti per le vie spopolate li inchioda dinanzi agli usci delle case scalcinate dal sole, tremanti di febbre sotto il pastrano e con tutte le coperte del letto sulle spalle.
(Giovanni Verga – Malaria)

La fine della malaria ha cambiato l’aspetto stesso del paese. I bambini non hanno più i visi gialli e smunti, le pance gonfie di un tempo; gli uomini e le donne non sembrano più fatti di fradicia argilla. E il lavoro è possibile.  (Carlo Levi- Ritorno in Lucania)

Questo anno 2024 tra tante tragedie e guerre, speranze e vite infrante, ha portato anche l’inizio della campagna vaccinale anti-malarica in Africa, a cominciare dal Camerun: 331.200 dosi per bambini tra i 5 mesi e i 2 anni. L’obiettivo è raggiungere entro il 2025 6,6 milioni di bambini in venti paesi africani – laddove la malaria da plasmodium falciparum colpisce di più, con il 95% dei morti causati dal parassita veicolato dalle zanzare (globalmente, anno 2022, 600mila decessi, 8 su 10 bambini sotto i 5 anni). I Paesi introdurranno l’antimalarico nei loro programmi di immunizzazione, sotto il coordinamento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e il contributo di Gavi, the Vaccine Alliance, il Fondo globale per la lotta all’AIDS, tubercolosi e malaria, UNITAID. Si tratta del vaccino sviluppato dalla farmaceutica GlaxoSmithKline e da PATH Malaria Vaccine Initiative – dalla sigla RTS,S/AS01 – che ha dimostrato di ridurre le morti infantili del 13%. I risultati vengono da un lungo studio sperimentale iniziato nel 2019 che ha coinvolto quasi 2 milioni di piccoli a rischio in Ghana, Kenya e Malawi. Già 18 milioni di dosi (servono 4 dosi a distanza di tempo per ogni bambino) sono state assegnate per il piano 2023-2025 in 12 Paesi ma entro il 2026 saranno necessarie tra i 40  e i 60 milioni di dosi di vaccino, per arrivare a 100 milioni entro il 2030. Un vaccino anti malaria ad ogni bambino.

Due vaccini disponibili

I casi di malaria in Africa tra il 2019-2020 (Covid) e il 2022 sono cresciuti da 209 milioni a 233 milioni (580 mila morti), invertendo la discesa registrata negli anni precedenti. I dati complessivi, relativi al 2022, segnalano 249 milioni di casi e 608 mila morti.

Il vaccino della GSK, approvato nel 2021 dall’OMS, ha un’efficacia intorno al 40% – piuttosto bassa per un vaccino preventivo-  ed ha altri due “talloni d’Achille”: la produzione non riuscirà a coprire la fortissima richiesta e il costo piuttosto alto (9,80 dollari a dose). Un richiamo è possibile. L’approvazione – nel dicembre 2023 – nella lista dei vaccini prequalificati dell’OMS di un altro antimalarico – che agisce sempre su un antigene di una proteina nello stato infestante del parassita – aiuta di molto. Si tratta del vaccino chiamato in sigla R21/Matrix-M – sviluppato dall’Università di Oxford e prodotto dal Serum Institute of India. Dai dati pubblicati l’efficacia si aggira intorno al 68-75% (migliore ma ancora piuttosto basso), prevedendo tre dosi (possibile richiamo), ad un costo che si aggira tra i 2 e i 4 dollari a dose. Sono previsti entro il 2024 cento milioni di dosi utilizzabili.

Un parassita sfuggente

Le difficoltà nella ricerca di un vaccino per la malaria, da oltre mezzo secolo ci si stava provando, dipendono dalla «plasticità, malleabilità, velocità di evolvere del parassita: se gli metti pressione, evolverà, cambierà», come ha raccontato il malariologo dell’Università del Maryland, Chris Plowe. Nel 1997 una relazione della rivista Lancet segnalava che lo sviluppo del vaccino per la malaria aveva più punti in comune con le difficoltà per trovarne uno contro il cancro al seno che per quello contro il vaiolo. «Non è mai stata trovata una sostanza immunizzante efficace contro un agente patogeno con un ciclo di vita  complesso come quello dei plasmodi – scriveva Frank Snowden, storico della medicina all’università di Yale nel suo libro del 2006 The Conquest of Malaria  aggiungendo – Come ci insegna la storia, ogni volta che si è sperato nell’intervento di miracoli nel campo della medicina, l’efficacia  delle scoperte è stata  quasi sempre inferiore alle aspettative».

Alcuni interrogativi 

Di questioni aperte scrive il Lancet Infectious Diseases nell’editoriale di Febbraio dal titolo Una nuova alba per la prevenzione della malaria (A new Dawn for malaria prevention) ponendo alcune questioni: «deve essere fatto un richiamo ogni anno finché giungono all’età scolastica? Quanto è facile aggiungere questi vaccini alla schema di immunizzazioni già previste nei paesi a malaria endemica? Nell’attuale panorama di alta trasmissione locale, con punti di alta e bassa prevalenza trovati nello stesso Paese, come si è visto in Tanzania o Kenya, la vaccinazione rimarrà conveniente?». Per non parlare dei fondi necessari: il budget previsto è enorme, coperto per ora solo per la metà.

Da soli non bastano

Resta un insegnamento che i malariologi più avveduti non dimenticano: l’approccio e la soluzione della malaria (come di tante malattie) non può dipendere da “rimedi magici”. Nel 2000 il malariologo Jose Najera affermava: «Tutte le esperienze precedenti (…) dimostrano che per riuscire a controllare la malaria occorre considerare le sue implicazioni socioeconomiche e ambientali». E così il Lancet il 10 febbraio scorso: «Una cosa è chiara: i vaccini da soli non sono la soluzione». Servono dunque le zanzariere impregnate di insetticida, spray insetticidi per gli interni delle case, combinazione con farmaci preventivi, ancora ricerca (oltre ai vaccini, la modifica genetica delle zanzare…) e un piano contro l’esitazione vaccinale. Così già avvertiva Snowden quasi venti anni fa: «(serve) Un approccio più completo della malattia e una presa di posizione che prenda in esame i principali fattori che permettono al morbo di dilagare nella regione afrotropicale, fra cui la malnutrizione, analfabetismo, manodopera migrante, guerra, povertà, degrado ambientale, esodi forzati e l’incapacità delle autorità locali e dei Paesi industrializzati di riconoscere la reale portata dell’emergenza sanitaria determinata dalla malaria».

Per approfondire

WHO data – World malaria report 2022

The Lancet. Malaria vaccines: a test for global health, Editorial, vol 403; p503 – February 10, 2024

BMJ- WHO recommends second vaccine for malaria prevention in children, 2023; 383; p2291

The Lancet – Malaria vaccines for children: and now there are two – Vasee Moorthy, Mary J Hamel, Peter G Smith

Comment, vol 403; p504-505 – February 10, 2024

The Lancet – Routine malaria vaccinations begin, Paul Adepoju, World Report, vol 403; p423 – February 3, 2024. 

Goats and Soda, The malaria vaccine that just rolled out has a surprise benefit for kids, Simar Bajaj, January 24, 2024

The Lancet Infectious Diseases – A new dawn for malaria prevention – Editorial, Vol 24; p107- February 2024




Le narrazioni che cambiano la sanità

Esistono parole inflazionate, una sopra tutte negli ultimi anni: narrazione. Narrazione e non narrativa – ci spiega l’Accademia della Crusca. Il termine inglese “narrative” sarebbe traducibile infatti con il nostro narrazione. In italiano “la confusione tra le due parole, narrazione e narrativa, è frequente e tollerata”. Ma in realtà la narrazione non è la narrativa. Quest’ultima utilizzata come aggettivo – “costruzione, strutt
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ura narrativa – perché come sostantivo vale oggi quasi solo come genere letterario, avverte il linguista Vittorio Coletti. Troppo spesso entrambe le parole sono utilizzate al posto di affermazione o rappresentazione, valutazione, interpretazione. «Una narrazione può essere bella o brutta, convincente o deludente, noiosa o coinvolgente, ma non sbagliata, semmai mal fatta», aggiunge l’esperto.
Ma se queste parole sono abusate in politica o nel giornalismo, sembrano avere un valore crescente in medicina. Altre parole che andrebbero in sanità invece rivalutate e valorizzate sono “processo di guarigione” e resilienza ma di questo parlerò in altra sede.

Esiste un Istituto in Italia che sulla “medicina narrativa”, l’umanizzazione delle cure, la personalizzazione delle terapie, sta proponendo ricerche e aggiornamenti sempre più interessanti e stimolanti. E trova aziende e associazioni capaci di investire e credere in quest’area di ricerca. È l’ ISTUD Sanità e Salute, area dell’Istituto Studi Direzionali, che ha ormai superato i venti anni (nato nel 2002, costola dell’iniziativa di Confindustria e aziende multinazionali per la formazione del management fondato assai prima, nel 1970 ) con l’obiettivo di migliorare i percorsi di cura e assistenza e trovare risposte concrete nel pianeta sanità.

Nell’anno appena concluso e negli anni precedenti con l’approccio della medicina narrativa – i diversi punti di vista del paziente, del caregiver, dei sanitari – sono state affrontate molteplici patologie creando i presupposti per cambiare gli approcci, le relazioni, integrare le cartelle cliniche, migliorare e rendere più efficiente il servizio sanitario, umanizzare le cure, creare alleanze terapeutiche, puntualizzare nodi irrisolti, affrontare la continuità delle cure (aderenza) e i precorsi terapeutici. Una modalità che tiene conto e si inserisce nel tracciato della medicina basata sull’evidenza (basata sulle prove) migliorandone l’azione e l’efficacia.

Così sono stati affrontati con pazienti, familiari, medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali innumerevoli universi: dallo scompenso cardiaco alla depressione, dall’epilessia alla BPCO (BroncoPneumopatia Cronico Ostruttiva), fertilità e tumore, cancro alla prostata, malattie rare.

Nell’ultimo trimestre del 2023 tre nuove ricerche e studi sono stati presentati sul dolore cronico, anemia da insufficienza renale cronica, malattia dell’occhio secco.

Il dolore cronico

È il sottofondo onnipresente della malattia, il convitato di pietra della NON-salute e della sanità. Secondo il 1° Rapporto Censis-Grünenthal «Vivere senza dolore», due italiani su dieci (19,7% degli adulti) soffrono di dolore cronico. Per l’86,2% degli 348425250_1421192615347700_6284527643025734037_nintervistati (500 affetti da dolore da più di 3 mesi intensità moderata o severa) serve al Servizio sanitario istituire uno specialista di riferimento per il dolore cronico; per l’81,7% il dolore dovrebbe essere riconosciuto come una patologia a sé stante. Su questa realtà si inserisce l’«indagine qualitativa sulle esperienze di dolore cronico, analizzando in profondità 9792 commenti raccolti da 5733 utenti sulla pagina Facebook Dimensione Sollievo: la Community sul Dolore Cronico che ha oltre 19.300 followers». Qui si racconta chi è “spossato” dal dolore, chi è scettico e in cerca di ascolto. L’85% è donna, over 60, da almeno 10 anni convive con il dolore. Scrivono: «Dolori ovunque del corpo, stanchezza, (stanca di sentire dolore). Spesso confusione. Non avere la forza di tenere una tazzina di caffè in mano. Non dormire per i forti dolori… questa non è vita». E ancora: «a NESSUNO PIACE PARLARE DI MALATTIE, finché non ne sono colpiti loro in prima persona perché la malattia spaventa (come se tutti ne fossero esenti) e dà fastidio una che si lamenta…»; «Noi invisibili… Non riconosciuti… per molti malati immaginari !!!»; «Vorrei addormentarmi. E svegliarmi come ero anni fa. Altrimenti non vale la pena svegliarsi».

Sfoghi, ricerca di risposte, voglia di cambiamento, necessità di migliore comunicazione medico-paziente, «necessità di stili comunicativi non giudicanti e ‘aperti’», «ricerca primigenia di sicurezza e di condivisione attorno al dolore, che può trovare nei social network un ambiente accogliente», sono le conclusioni degli esperti ISTUD che hanno analizzato i dialoghi. La Community “Dimensione Sollievo – al centro del Dolore Cronico”, promossa sempre da Grünenthal, risponde ad una esigenza: «la condivisione è sempre un sollievo», «Grazie mille, almeno c’è una persona che mi capisce…», sono i commenti. C’è ampio materiale per specialisti e medici in modo da cambiare la relazione e la comunicazione con il malato.

Occhio secco

Il progetto di medicina narrativa DINAMO (acronimo che sta per la raccolta delle narrazioni in persone con sindrome dell’occhio secco, Dry Eye) pone al centro l’analisi dei racconti di pazienti, caregiver e specialisti su questa disfunzione del sistema della superficie oculare con alterazione della produzione di lacrime. Trentasette centri oftalmologi coinvolti, 318 testimonianze (171 di pazienti, 111 cartelle redatte dagli specialisti, 36 caregiver) una analisi puntuale delle narrazioni in larga prevalenza scritte da donne, anche tra gli oftalmologi, sulla base di tracce narrative, un questionario sociodemografico e domande sul percorso di cura e la qualità di vita. Analisi dei temi e delle parole ricorrenti come delle metafore utilizzate, comparazione di “prima” e “dopo”, la ricerca di una diagnosi, i sentimenti dei protagonisti (vergogna, imbarazzo, incomprensione) e il vissuto (sarcasmo, indifferenza, fastidio rispetto a richieste ed esigenze particolari).

Qui torna il dolore: «La sintomatologia dell’occhio secco infligge percezioni dolorose, che spaventano per la loro irruenza, intensità, persistenza, continuità». Le metafore usate dai pazienti possono spiegare: «immagini come la sabbia e il deserto per trasmettere le sensazioni legate a una sorta di “siccità” corporea collocata negli occhi; la natura arida in particolare e il fuoco vengono evocati per raccontare del bruciore, anche molto acuto, che li affligge; la luce che non si rintraccia più, neppure nel proprio stesso viso, è oggetto di nostalgico ricordo». Nelle tracce narrative, gli stimoli, – aspetto assai interessante – vengono utilizzate le parole “evocative” dell’approccio del Natural Semantic Metalanguage. Si tratta di alcune delle 65 parole “neutre e universali” individuate dai linguisti nelle più diverse e lontane culture. Dalla ricerca e dal libro che ne è emerso, con il contributo di Bausch & Lomb, si sono scoperti percorsi di cambiamento per pazienti, familiari, strutture sanitarie, specialisti. Rendersi conto, da punti di vista diversi, del “percorso lungo e tortuoso” della cura, la scoperta dell’empatia e delle relazioni. Come delle cure personalizzate e delle spiegazioni e informazioni semplici. Ricorda un oftalmologo: «Per curarlo efficientemente ho dovuto innanzitutto conquistare la sua fiducia». (Progetto Dinamo, a cura di Maria Giulia Marini Alessandra Fiorencis, Roberta Invernizzi, Antonietta Cappuccio)

Anemia da insufficienza renale cronica

L’hanno chiamato DIANA questo progetto curato da ISTUD Sanità e Salute, contributo di Astellas, con 8 centri nefrologici, da Genova e Milano a Catania e Bari, con 74 testimonianze raccolte tra pazienti, caregiver e medici.

«Nel paziente affetto da malattia renale cronica (MRC) valori di emoglobina inferiori a 11 g/dl identificano un grado di anemia meritevole di trattamento con agenti stimolanti la produzione di globuli rossi». In questa malattia la causa è multifattoriale ma in gran parte si deve all’ormone che stimola il midollo osseo a produrre i globuli rossi (eritropoietina). I pazienti «hanno una qualità di vita insoddisfacente, caratterizzata da scarsa resistenza all’esercizio fisico, facile affaticabilità, difficoltà di concentrazione, disturbi del sonno, affanno, tachicardia, talvolta anche bassa pressione arteriosa. Il cuore è l’organo che risente in misura maggiore dell’anemia». Il percorso di diagnosi e di cura – grazie alla ricerca farmaceutica la situazione è assai migliorata – è comunque lungo e pesante. La comunicazione, la buona comunicazione, è uno strumento essenziale. L’approccio della medicina narrativa aiuta proprio in questo. Le associazioni dei malati hanno un ruolo decisivo perché sono le più consapevoli «che si tratta di cambiamenti radicali, nelle procedure mediche e nei processi organizzativi, che, se non gestiti correttamente possono generare insufficienze dei servizi, invece che progressi». (ANED, Associazione Nazionale EmoDializzati Dialisi e Trapianto – ONLUS). La metodologia delle analisi e degli spunti per le narrazioni è sulla falsariga di quella sull’occhio secco. Ma nell’orizzonte dei malati qui c’è il trapianto di reni: «Io domani vorrei fare il trapianto e dopo anni stare il più bene possibile». «L’anemia è definita da alcuni pazienti come “subdola”, aggettivo particolarmente calzante nel descrivere una condizione che sembra lieve, non di primaria importanza rispetto alla malattia renale ed altre eventuali comorbidità. Eppure, essa può diventare “la goccia che fa traboccare il vaso” per l’abbattimento della salute che comporta, nel fisico prima e nella mente dopo. Vengono descritti corpi che cambiano, diventano più magri, pallidi, meno forti, e umori che si deprimono». Ecco la depressione, avvertita da caregiver e pazienti ma assai meno dagli specialisti preoccupati più della stabilità clinica e della sintomatologia. L’ascolto attivo può diventare l’arma di una sanità più sostenibile con effetti sul rapporto di cura e sulla comunicazione tra i diversi attori coinvolti. Alcuni racconti sulla stanchezza sono significativi: «La mia giornata tipo era “poltrona, poltrona e poltrona” quindi con le persone vicine, a volte, mi sentivo inutile». «Io prima della malattia renale cronica ero una bambina felice.(…) Vorrei non essere malata e vivere come una persona sana». «Ho ricominciato ad uscire senza la carrozzina, dato che nei primi mesi della malattia era necessaria perché faticavo a deambulare e avevo frequenti crisi di ipotensione. Anche le dialisi erano spesso complicate da svenimenti, dovuti alla pressione eccessivamente bassa». «L’erba voglio mai cresce, nemmeno nel giardino del re, ma una maggiore spiegazione sull’anemia, sulle cure e anche sugli effetti dell’avere l’emoglobina alta, sarebbero bene accetti». «Mi sento affranta anche se ce la metto sempre tutta per uscire dalle criticità. Il mio corpo oggi è fragile, tanto da non avere strumenti a casa per continuare a curarmi. Questa cosa mi strugge molto perché mi sento un peso per i miei familiari e per i medici che mi prendono in cura».

La conclusione di Maria Giulia Marini, direttore scientifico dell’area sanità e salute ISTUD è «maneggiare con cura».Si ricorda ai pazienti che «hanno una condizione che li appartiene ma non sostituisce la propria identità». Ai caregiver che hanno bisogno di prendere anche del tempo per sé stessi. Ai medici «di saper vedere dietro al paziente anche la persona fatta di tante dimensioni, tra cui anche quella della realizzazione del sé»

Ecco spiegato l’obiettivo della Medicina Narrativa: «costruire un significato possibile rispetto a quanto accade alle persone ammalate nel loro processo di cura, in riferimento al loro mondo di relazioni» e «produrre efficacia nel contesto sanitario quotidiano riducendo le inappropriatezze e valorizzando le buone pratiche». (Progetto Diana a cura di Paola Chesi, Francesco Minetti, Antonietta Cappuccio).

Val Maira, passeggiando in lingua d’oc

Valle Maira, Occitania. La terra della lingua d’Oc: si tratta di un deja vù, un ritorno al passato, fino agli anni del liceo. Quella formazione sui banchi con l’amatissimo e consultatissimo Giuseppe Petronio, a pagina 11 de L’attività letteraria in Italia:

« c) Il sostrato culturale in lingua d’oc
Ma il sostrato letterario esistente in Italia, al principio del Duecento era ancora più ricco e più complesso, perché i nostri primi scrittori, oltre ad avere il possesso delle due letterature latine – classica e medievale – avevano anche conoscenza diretta di quelle letterature volgari che già si erano formate fuori d’Italia, in paesi confinanti con il nostro e con i quali avevamo rapporti assai stretti, tanto politici quanto commerciali e culturali.
Nel mezzogiorno della Francia, in Provenza, si era già svolta una poesia lirica in lingua d’oc (occitanica), che, specialmente in alcune regioni italiane più vicine alla Provenza per contiguità territoriale o per somiglianza di strutture politiche e sociali, parve facilmente un modello da imitare, o, addirittura, da ricalcare nella sua stessa lingua originale. Pertanto in Liguria, Piemonte, in Lunigiana, nella Marca Trevigiana, si ebbe una fioritura di poesia su temi provenzali composta in provenzale da scrittori italiani che, naturalmente, con questo loro poetare si rivolgevano non a quel più largo pubblico di connazionali cui si rivolgeva chi poetasse in volgare italiano, ma un gruppo di chierici, provenzali o italiani che fossero. Vi fu così una schiera di “trovatori italiani”, come sono stati chiamati, alcuni dei quali hanno una loro individuata fisionomia…

Occitania, la lingua d’oc, Questo è

Eccoli i trovatori: Lambertino (o Rambertino) Buvalelli (bolognese), Lanfranco Cigala e Perceval Doria (genovesi), Bartolomeo Zorzi (veneziano), Sordello da Goito (mantovano) citato anche da Dante nei versi famosi del Purgatorio:

Gustavo Doré, l’incontro di Virgilio e Dante con Sordello da Goito – Purgatorio

Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,

ma di nostro paese e de la vita
ci ‘nchiese; e ‘l dolce duca incominciava
«Mantua…», e l’ombra, tutta in sé romita,

surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!

Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;

e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.

Sempre Dante, sempre nel Purgatorio, produsse gli otto versi in lingua occitana, laddove le rime si chiamano “coblas” (XXVI, 140-147)

«Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!».

(Tanto mi piace la vostra cortese domanda,
che non mi posso né voglio nascondere a voi.
Io sono Arnaut che piango e vado cantando;
preoccupato vedo la passata follia,
e godendo vedo davanti a me la gioia che spero.
Ora vi prego, per quel valore
che vi guida al sommo della scala,
vi sovvenga, a tempo debito, del mio dolore!)

Arnaut Daniel (Arnaldo Daniello come lo chiama Petrarca) è il trovatore francese in lingua occitana che Dante aveva in tale considerazione da definirlo “Padre della Lirica”. All’epoca – occorre sapere – le poesie erano spesso cantate (più avanti parleremo della musica occitana!). E Arnaut, come afferma Dante nella sua Divina Commedia, scrisse poesie e prosa. È Guido Guinizzelli ad indicarlo all’Alighieri nel Purgatorio:

col dito – e additò un spirto innanzi –
fu miglior fabbro del parlar materno.
Versi d’amore e prose di romanzi
soverchiò tutti: e lascia dir li stolti

Così l’Alighieri teorizzò i tre idiomi: la lingua d’oc, la lingua d’oïl (il francese), la lingua del sí (l’italiano). Rispettivamente: hoc est (questo è); illud est (quello è); sic est (così è).

Il giornale della Valle

E dunque viaggiamo nella terra del “questo è”, da Dronero, poco più di 7 mila abitanti in provincia di Cuneo, 621 metri d’altezza, punto di ingresso della valle Maira. Il “feudo” di Giovanni Giolitti – cinque volte Presidente del Consiglio nel Regno d’Italia, politico prima della Sinistra poi del Centro, degno erede del trasformismo di Depretis e Crispi. Giolitti riuscì bene a barcamenarsi tra reazionari e socialisti, cercando di attuare riforme (nazionalizzazione di telefoni e ferrovie; miglioramenti sociali; suffragio universale per i maschi…) tali da creare i presupposti per un boom economico dell’inizio del Novecento. Fu accusato di cinici progetti, scambi di favori e di malaffare per la gestione del voto al Sud (il “ministro della malavita”). Se ne discute ancora: i suoi eredi politici sono stati, alla fine, assai peggio di lui? Nel 1922 votò – a sua grande colpa –  per Mussolini in Parlamento ma dal 1924 s’accorse dell’errore e andò all’opposizione. Nella cittadina, 25 anni fa, hanno creato il Centro Europeo Giovanni Giolitti per lo studio dello Stato con imponente archivio dello statista, centro attivo in ricerche e convegni.  

La piccola Dronero è un borgo che fu di conti e marchesi fondato – riportano le guide – nel 1240. Chi arriva qui immortala il ponte del Diavolo, quelle arcate Vecchie sul torrente Maira, costruzione che risale al 1400, legato alla leggenda paesana.

Nessun ponte reggeva alle piene del torrente e allora il podestà del tempo – si narra – chiese aiuto al Diavolo. Belzebù accetto in cambio della prima anima che fosse passata sul ponte appena costruito. A lavori conclusi, con un tozzo di pane lanciato con astuzia dal podestà da una parte all’altra della lunga e potente arcata fu un cane randagio a passar per primo. E solo l’anima di un cane divenne proprietà del Diavolo!  

Di Dronero – tornando all’oggi – è pure Ezio Mauro, ex direttore de La Stampa di Torino e poi de La Repubblica come successore – per 20 anni – del fondatore Eugenio Scalfari. Ezio Mauro, figlio di commercianti (un negozio di abbigliamento a Dronero) così ricorda la piccola cittadina (Repubblica, Fabrizia Bolino 18/12/2022): «Com’era la vita a Dronero? Ho fatto lì elementari e medie. E poi il collegio a Mondovì. Avevamo fatto la squadra di calcio di Dronero e giocavamo contro il resto del mondo. Ricordo che i primi due anni si tornava a casa solo a Natale e Pasqua, facevamo l’autostop con gli amici. Dalla finestra della mia camera cercavo un punto all’orizzonte dove mi immaginavo ci fosse Dronero». Nostalgia. Radici. Pregi e difetti dei provinciali. Con gli amici di una vita – racconta Ezio Mauro nell’intervista – fondò un giornale che ora ha superato i 50 anni,  “Drago” (il simbolo della città è un drago nero; dal 2011 la testata si chiama Il Dragone).

Ne fu secondo direttore (scritto nel suo destino): «Ha continuato a uscire grazie alla generosità di Gianni Romeo, (primo direttore, ex Tuttosport e Stampa ) unico giornalista in carne ed ossa che conoscevamo». Il primo numero apparve la vigilia di Natale del 1969 – «cresciuto pian piano nella storica sede del bar Oriente di via Roma» come racconta l’attuale direttore Sergio Tolosano che dal 1976 si avvicinò a quell’avventura. È il periodico della valle Maira (La voce di Dronero e Valle Maria, è la scritta che campeggia sotto la testata), ed è l’house organ dell’Associazione Culturale Dragone. (http://www.dragonedronero.it). 

La comunità tedesca

L’interessante è che il giornale ha anche – dal gennaio 2021 –  una pagina dedicata alla Comunità di lingua tedesca della Valle Maira (wir sind alle europeär: siamo tutti europei) e questo dice molto su chi sono i grandi amanti della valle e in parte i primi a credere ad un turismo di montagna rispettoso dell’ambiente. A cominciare da Maria Schneider, “la capostipite della comunità di lingua tedesca, in quel di Borgata San Martino”, (di Maria, morta il 22 febbraio 2022 e del marito deceduto nel 2004 parleremo tra poco), una comunità che sta crescendo. Seguire la traccia del mensile della valle , “Periodico apartitico di informazione, cronaca, cultura, varietà, sport”, può essere istruttivo. Una sorta di guida.

Scrive Sven Henitz, freelancer e accompagnatore cicloturistico in Valle, presentando la pagina dedicata agli amici/residenti alemanni: «I tedeschi ammirano la cosiddetta “dolce vita”, la cercano e spesso la trovano in Valle Maira, con il turismo lento, che permette di staccare per un poco dalla vita frenetica, organizzata e scandita dagli impegni. Fuggire in mezzo alla natura spesso immacolata non ha prezzo». In realtà, di turisti, ve ne sono moltissimi anche dalla Francia e dalla Svizzera. I turisti italiani sono in netta minoranza.

Ezio Mauro racconta così l’avventura del giornale: «La scelta decisiva, prima ancora di partire, nelle lunghissime chiacchierate al Villino, fu di non fare un giornale di ragazzi, un foglio giovanile, espressione di una parte soltanto della comunità cittadina (…). Provammo dunque a coinvolgere gli adulti: (…) Furono decisivi due incontri, con Domenico Poggio ed Elda Gottero, che si lanciarono nell’operazione, coinvolgendo ambienti diversi dal nostro. Anzi, l’osteria della madre di Elda – “Oriente”, in via Roma – diventò subito la redazione volante del giornale, l’amministrazione casuale, la spedizione volontaria, e soprattutto la sede delle riunioni e delle discussioni collettive per commentare il numero appena uscito e impostare il prossimo». Per anni la sede e le riunioni redazionali erano il venerdì sera, «al bar Oriente, da Praveja»; oggi la sede è in via Fuori le Mura. Sei redattori, un vignettista, tanti collaboratori (undici fissi altri saltuari), tutti impegnati a titolo gratuito. Seguendo il giornale si scopre la lunga valle, 45 chilometri – in ordine alfabetico – Acceglio, Canosio, Cartignano, Celle di Macra, Dronero, Elva, Macra, Marmora, Prazzo, Roccabruna, San Damiano Macra, Stroppo e Villar San Costanzo. Una infinità di sentieri per la gioia di camminatori e sportivi più o meno esperti.

Con il Dragone sotto braccio

Facciamoci guidare: «Ogni mese, in occasione dell’uscita dell’ultimo numero del Dragone, percorriamo la valle Maira per la distribuzione dei giornali, che effettuiamo rigorosamente di persona (…) da Cartignano ad Acceglio ci fermiamo nei principali negozi o edicole, ritiriamo i giornali del mese precedente, consegniamo quelli nuovi, e il tempo non manca per scambiare qualche parola con i commercianti». Gli “amici” del giornale nella valle sono vari negozi a Dronero, poi gli alimentari Eleonora Bertaina a Pratavecchia (frazione di Dronero), la farmacia Gallinotti a Roccabruna, gli alimentari Ribero a Morra Villar (Villar San Costanzo), La Gabelo di Baralis a Prazzo Inferiore. 

Dai poco più di seicento metri di Dronero si arriva agli oltre 1600 di Chiappera, frazione di Acceglio, laddove termina la strada e si è vicini alla frontiera francese. Ma dalla strada principale vi sono deviazioni importanti che ci portano in splendidi valloni e paesi. Se l’intenzione è quella di fare un grande itinerario a fermate camminando (o in mountain-bike, con navette sherpa che portano i sacchi da un luogo all’altro) ci sono 23 posti tappa dei percorsi occitani – il filo conduttore della valle – di cui parleremo più avanti.

Elva e gli affreschi del Quattrocento

Ora, passati Roccabruna, Cartignano, San Damiano Macra e Macra, sulla destra saliamo verso Elva, strada piena di curve da prendere con calma (info: 340 9846508). Una meta artistica classica per i tedeschi. Il comune è a 1637 metri, 88 abitanti, con decine di piccolissime frazioni: nella chiesa parrocchiale in stile tardo-romanico si vengono ad ammirare gli affreschi di Hans Clemer, maestro d’Elva. Il pittore fiammingo del finale del Quattrocento «illustra storie della vita della Vergine e di Cristo. Culmine del ciclo, una grandiosa scena della Crocifissione che occupa l’intera parete di fondo». Il panorama – come in tutta l’alta valle Maira – è straordinario. Passeggiate ci portano ad altre chiese con preziosità: «a 1233 metri di altitudine, su uno sperone roccioso a strapiombo sulla Valle Maira, la chiesa di San Peyre di Stroppo» (XI-XII secolo). Nella chiesa a tre navate troverete dipinti del XIV secolo, Cristo con San Pietro e Paolo, lungo le pareti i dodici apostoli. Poi, opera di un maestro lombardo del XV secolo un ciclo della natività – ispirata dai Vangeli apocrifi – con un pastore con la cornamusa. Ma sono tante le cappelle e le chiese con affreschi e dipinti del medioevo: la cappella votiva di San Sebastiano con il campanile sulla strada per Serre e Ruà, l’abside affrescato – con un san Sebastiano – da Giovanni Baleison nel 1484; oppure, sulla antica mulattiera tra Villar Macra e Borgata Camoglieres, la cappella di san Pietro – XIII secolo – con gli affreschi della Danza macabra; o ancora la cappella di San Salvatore, fondata nel XII secolo, con affreschi tardo-gotici e un Cristo dagli occhi a mandorla. Tanti luoghi da far promuovere il sentiero dei pittori itineranti (info https://cuneotrekking.com/itinerari/escursioni/sentiero-dei-pittori-itineranti-valle-maira/)

Il Museo del Pels

Ma seguiamo ancora il giornale: «A Elva, il negozio di riferimento è La Butego, unico esercizio commerciale presente nel paese, riaperto al pubblico recentemente (…). Il negozio viene gestito da una coppia di giovani, che ha deciso di scommettere sul proprio futuro e, diciamolo, sulle potenzialità della valle (…)». Ma proprio lì – lamenta il cronista – non si può neppure acquistare il pregiato formaggio d’Elva. Non viene consegnato! Incapacità di promuoversi della Valle Maira? E pensare che nella strada quasi in parallelo della valle Grana, c’è Castelmagno e il suo più famoso e straordinario formaggio alpino, che si sponsorizza ampiamente.

Ad Elva anche un curioso museo il Museo dei Pels (o museo dei capelli) che racconta il lavoro “inventato” dai contadini di un tempo per il periodo autunnale; raccoglitori di capelli per le parrucche. In giro per Italia e Francia alla ricerca di chiome lunghe da riportare in paese dove le donne – dopo lavaggio, pettinatura e cernita – creavano trecce da asciugare e commercializzare.

Elva, in realtà, è un poco il campo base dei tedeschi. Qui a San Martino inferiore una coppia di tedeschi – Andrea e Maria Schneider – 43 anni fa, nel 1980, si innamorarono di questi posti e abitarono per sei anni a Prazzo e poi – nel 1986 – comprarono e ristrutturarono le prime case in una frazione di Stroppo, dopo 4 anni, crearono il Centro Culturale Borgata San Martino, pubblicizzando corsi di arte, mostre, passeggiate con una filosofia chiara: andatura lenta e consapevole, il muoversi in montagna senza mezzi di locomozione, il camminare prestando attenzione al proprio respiro e alla natura circostante. Pubblicità rivolta in primis ai tedeschi. A 53 anni, nel 2004, Andrea d’improvviso muore in Svezia durante un soggiorno di cura. Maria porterà avanti la comune creatura – ampliandola e incrementandola. Colpita dalla Sla, la malattia neurodegenerativa progressiva, nel 2021 Maria ha lasciato tutta la gestione a Paola Brivio, e – nel febbraio del 2022 – è deceduta. Sul sito del Centro campeggia una citazione di Herman Hesse:

«Ogni volta che rivedo questa regione benedetta alle pendici meridionali delle Alpi, mi sento come tornato a casa da un esilio, come essere finalmente sul lato giusto della montagna. Qui il sole splende più intimo, e le montagne sono più rosse, qui crescono castagni, viti, mandorli e fichi …»

Da Marmora al Lago Nero

Ma scendiamo da Elva, affrontiamo i ripidi tornanti, e reimettiamoci sulla strada provinciale 422 prendendo la direzione per il fondo della valle, verso Acceglio. Dopo poco, sulla sinistra c’è il bivio per Marmora-Canosio, altro splendido villaggio incasellato tra le montagne. Siamo a 1225 metri, con 11 frazioni, una realtà che in meno di 50 anni si è ridotta di 151 abitanti. Oggi registra 59 residenti, ma è un centro turistico con realtà di alto livello, sempre prenotate soprattutto da tedeschi e francesi. Anche da qui, come ad Elva, vi sono sentieri e passeggiate per ogni età, possibilità e capacità. Da qui passano i percorsi occitani e l’itinerario tra le borgate, “Per antichi sentieri” (https://www.invalmaira.it/itinerari_escursioni_Sentiero_per_antichi_sentieri.html). Non solo: c’è anche il sentiero dei bastìers, Bastai e Sellai. Gli antichi mestieri della valle, i basti (strutture di sostegno realizzate in legno e cuoio per il carico degli animali da soma) e le selle per cavalli, asini, muli (https://www.invalmaira.it/itinerari_escursioni_Sentiero_Bastai_sellai.html). Da raccomandare in questo vallone una sosta e una cena al relais alpino Brieis (3472242137 http://www.brieis.it), superata Marmora un poco più in alto. E a Marmora l’albergo diffuso Ceaglio (3477839466 http://www.ceaglio-vallemaira.it).

È verso Canosio e poi Preit che si arriva al luogo di partenza del sentiero ad anello per il Lago Nero, circa 700 metri di dislivello, panorami mozzafiato. L’itinerario, tutto ben segnato, è preferibile intraprenderlo dal lato destro, il più ripido, perché in discesa può essere di non facile gestione soprattutto quando le pietre sono umide e scivolose. Si arriva in alto, 2240 metri, nei territori del pino mugo. Si passa dalle Grange Colombero sottane, le Grange Chiacarloso, si guarda la Rocca la Meja, le Grange Culausa, affacciandosi sul Vallone del Preit e sull’Altopiano della Gardetta per tornare, tra i larici, alle Grange Selvest.

La fatica è assicurata (portarsi acqua e cibo) ma lo spettacolo è un incomparabile rimborso. Per i montanari è un trekkimg anche per bambini di 6-8 anni e ci vogliono – a loro parere – circa tre ore. Sarei molto cauto: almeno 5 ore al passo del turista non molto allenato. Non mancano comunque sentieri per ogni gusto e difficoltà. Questo però è da raccomandare.

Verso Chiappera e Acceglio

Riscendiamo e riprendiamo la strada lungo la valle per raggiungere Acceglio e Chiappera. Fermata d’obbligo a Prazzo Inferiore, nel luogo di informazioni d’eccellenza, bar, ritrovo, alimentari, articoli vari, cartine, giornali, pompa di benzina: La Gabelo (https://la-gabelo.webnode.it). Qui, al primo piano, c’è anche il museo della canapa e del lavoro femminile “Fremos, travai e tero”. La frazione Ussolo è il luogo considerato “classico” per ambientazione medievale tra passaggi coperti, muri in pietra grezza e tetti in losa, la lastra di ardesia. Così la propagandano:

«Il suo fascino particolare l’ha fatta scegliere come location per la realizzazione di due film. Il primo è del 2004 e si intitola Piròt, en fiet d’en bòt, in occitano Pietro, un bambino di un tempo, dei registi Sandro Gastinelli e Marzia Pellegrino. Il secondo è stato un caso cinematografico del 2005, premiato in diversi festival. L’aura fai son vir, Il vento fa il suo giro, è il film scritto da Fredo Valla e diretto da Giorgio Diritti che racconta una amara storia di difficile integrazione tra la comunità alpina locale e i forestieri»

Ora senza più indugi corriamo verso Acceglio, Acelh, ultimo comune della valle occitana, 157 abitanti, 1600 metri. Luogo principe per trekking, percorsi in bici, arrampicate, fondo, passeggiate con racchette sulla neve. Ma il gioiello è la sua frazione, Chiappera dove si consiglia di alloggiare. È la Rocca Provenzale, la vetta rocciosa che si erge sul borgo, a dare l’imprinting al paesaggio. 

Il luogo è stato abitato da secoli, fu roccaforte degli Ugonotti, via di passaggio per intere popolazioni in fuga verso la Francia laddove convergono innumerevoli percorsi. Non è un caso se anche dalla Valle Maira passa la “strada dei Catari” (http://www.catari.it pagina itinerari). Erano i “puri”, gli “uomini e le donne buone” del 1100-1200, gli eretici  soprattutto francesi combattuti dal Papa perché fustigatori di ricchezza e potere della Chiesa di Roma, rigidissimi contro tutto ciò che era materiale in contrapposizione allo spirituale. Persino il sesso. L’Occitania era la loro roccaforte. Ci volle una crociata e 70 anni di Inquisizione per estirparli.

Le cascate di Stroppia

Da Chiappera, in primavera – al tempo del disgelo, periodo di splendide fioriture e giornate più lunghe – si possono ammirare le alte cascate di Stroppia, 500 metri, le più alte d’Italia. Ancora sentieri e visioni di larici e faggi. Altri panorami da godersi, rocce imponenti, alte cime, boschi e ripide rocciose discese di ghiaia e pietre, canaloni e mulattiere (a questo proposito esiste anche un itinerario che si sta recuperando, la Strada dei Cannoni, percorso ciclo-pedonale sulle mulattiere usate nella guerra)

Anche qui, come ad Elva, una iniziativa privata ha dato il “la” allo sviluppo turistico. È la Scuola di Chiappera (347 944 8738, cercarla su Facebook, il sito non funziona) un rifugio, centro di alpinismo, ristorante, luogo d’incanto e albergo diffuso, creato proprio dentro le aule dell’antica elementare del borgo di fatto abbandonato. Peccato che da quest’anno passerà di gestione, speriamo con continuità e affinità con il suo creatore che ha sempre tenuto ad un turismo ecosostenibile. Anche qui la storia risale ad oltre 30 anni fa quando una coppia, Stefano Busso e Adriana Arneodo, si innamorarono di questo posto e comprarono case in abbandono. Così racconta Leonardo Selvetti su comunitamontagna.eu. Lentamente le ristrutturarono e nel 2008 con fondi europei, il contributo pubblico e quello comune di chi credeva al progetto si è passati alla creazione e acquisizione della Scuola. Inizialmente fu un notaio (Testa di Savigliano) a diventarne proprietario, poi è passata di mano agli attuali intestatari Aldo e Patrizia Pellegrino con un accordo di collaborazione con Stefano Busso e Pierpaolo Mauro.

È Stefano Busso ad aver realizzato con cura e amore l’arredo e l’ambientazione architettonica rispettosa della storia e dei materiali. Nel 2014 la Scuola venne inaugurata (10 camere). Ora Stefano, arrivato vicino a settanta anni, ha deciso di ritirarsi. È estremamente faticoso gestire e vivere in questi posti, nonostante la grande passione. 

Ma non c’è solo la Scuola di Chiappera che avrà nuova gestione. Da un anno è tornata a Chiappera, con il marito Eraldo, Francesca, nata in questa valle: hanno riorganizzato l’antica casa di famiglia e creato un B&B, due comode stanze con bagno, chiamandolo Oronaye come il massiccio montuoso (tel 347 452 5036 https://www.oronaye.com). Anche per loro una scelta di vita e una nuova avventura ma in un’età già più avanzata. Entusiasti e curiosi di rapporti umani. Almeno per ora.

Chiappera, ovviamente, è tappa dei Percorso occitani

I percorsi Occitani

Un anello di 177 chilometri, 15 tappe, 23 posti d’accoglienza in altrettanti borghi, «dalla pianura di Villar San Costanzo fino agli alpeggi di Elva, Prazzo e Acceglio; rientro dal versante opposto passando da Chialvetta, la Gardetta, Marmora, Macra e Celle Macra». L’Occitania e la sua lingua: in realtà proprio il parlare un medesimo linguaggio identifica un gruppo, rende una comunità riconoscibile. Questo è un percorso che va letto e vissuto anche in chiave linguistica, lingua perduta e ritrovata, parole che si mostrano ad indicare montagne  e vette ma anche bar e ristoranti o alberghi.

Ogni lingua è una concezione del mondo integrale, non un vestito che fa indifferentemente la forma a ogni contenuto

Così scriveva nel 1930 Antonio Gramsci dal carcere fascista . Lingua madre, viene detta, e attraverso la lingua si comprende una popolazione. Dunque addentriamoci nei territori nella lingua dell’ “hoc est” facendoci guidare dal linguista francese Claude Hagège (Halte a la mort del langues):

«Tutti i filologi, o tutte le persone che nutrono curiosità per le lingue, sanno che in esse si depositano tesori che raccontano l’evoluzione delle società e le avventure degli individui. Le espressioni idiomatiche, le parole composte hanno un passato che mette in scena personaggi viventi; la storia delle parole riflette quella delle idee. Se le società non muoiono non è solo grazie agli storici e ai narratori ufficiali, ma anche grazie al fatto che possiedono lingue, e dalle lingue sono narrate».

Se dimentichiamo la lingua – scrivono i linguisti – ci dimentichiamo di noi stessi. E il multilinguismo, ripetono, è una ricchezza.

Così torniamo ai Percorsi, nati oltre 20 anni fa. La storia è sul sito: i primi curiosi furono i «Transalpedes, un gruppo di “attivisti delle Alpi” sulla via da Vienna a Nizza attraverso la Valle Maira. Tra loro vi era il giornalista ed autore Jürg Frischknecht che poco dopo ritornò con la sua compagna e coautrice Ursula Bauer. La Valle Maira li aveva catturati entrambi. Nacque l’idea di una guida escursionistica, e nel 1999 apparve la prima edizione di “Antipasti e antichi sentieri” presso l’editore Rotpunkt di Zurigo». Ripubblicato più volte. La parola e il racconto ha fatto da volano. Ancora i tedeschi.

Le varie tappe, che possono variare a seconda delle esigenze, si possono ritrovare sul sito (http://www.percorsioccitani.com), i borghi con locande e ristoranti vengono anche lì segnalati – ma ce ne sono tanti altri che sono sorti – il servizio interessante è quello per i bagagli – costo minimo 20 euro – con il trasporto da una tappa all’altra, lo sherpabus e taxi  (348 8231477 –  0171 99024 Gianni). A Dronero val la pena di segnalare l’ospitale luogo per pernottamento e colazione (due stanze con bagno ma niente cene), strada sterrata e poco agevole, ma in realtà a poca distanza dal centro, in mezzo al bosco, alle pendici del monte San Bernardo: Il Picco (3476020923 http://www.bbilpicco.it). Anche in questo caso una (ostinata) scelta di vita della famiglia, “un sogno diventato realtà” trasformando, in 15 anni, un’area lasciata in abbandono in un’oasi curata tra alberi, fiori e prati. 

La lingua cantata

Che la lingua sia parte dell’orgoglio occitano lo testimonia la vivace presenza di una tradizione musicale e di danza in tutto il territorio. Occit’Amo Festival. «Occit’amo è una grande festa diffusa che si svolge tra le Valli Stura, Maira, Po e Infernotto, tra le Valli Varaita, Grana e la Pianura del Saluzzese con incursioni oltralpe (…)». Ideatore e curatore Sergio Berardo.

Eccoli gli eredi dei trovatori, le band che parlano d’oc e suonano e ballano in occitano: i Lou Pitakass (i Picchi), ragazzi che hanno iniziato dieci anni fa da giovanissimi per fare musica tradizionale occitana “contaminata”; i Lou Seriol, nati nel 1992 o i Lou Dalfin, dal 1982 con l’obiettivo di rivisitare la musica tradizionale occitana; i Sonadors che ripropongono musica occitana tradizionale in chiave alternativa; gli Autre Chant si propongono come una nuova espressione dello spirito Folk Rock Occitano; i Bataclan, fanfara fondata e diretta dal maestro Dino Tron, un laboratorio permanente di cornamuse d’oc e banda da strada di cornamuse d’oc; Lhi Destartavelà, gli “scavezza collo”, nati nel 2008, suonano musica tradizionale occitana con spunti personali intrecciando strumenti della tradizione; la Teres Aoutes String Band; per non tralasciare il duo occitano di musiche rituali Sergio Berardo – Bodega e Riccardo Serra – Tamborn. Ecco i nuovi cantori d’oc, con organetto diatonico, cornamusa, ghironda, fisarmoniche, violino, plettri, clarinetto, flauti, intonano pezzi tradizionali come “Au pont de Mirabel” o nuove composizione occitane come “Laiseme”.  E ballano. Correnta, Balet, Giga, Contradança, Guiona, Cadrilha, Tressa, Borrea Vielha: quanta tradizione, come tramandarla? Per la danza c’è Daniela Mandrile che lo fa da 40 anni…

Il giornale, il Dragone, ci riporta all’oggi, tra tradizione e futuro, ai negozi e alle attività che chiudono, alla necessità di “rinascita”. Il Risveglio era il primo editoriale di presentazione del periodico della Valle Maira. Val D’oc: “Questo è”…

La trilogia dei cooperanti

Testimonianze, racconti e utili informazioni per aspiranti professionisti all’aiuto allo sviluppo

Terzo volume di racconti di cooperanti nel mondo, anche questo stracolmo di curiosità, spunti di riflessione, esperienze e notizie: appare in libreria (o sulle piattaforme web) Senza Barriere – Posti lontani, genti sconosciute e umanità in cammino (pagine 138, euro 14, Infinito edizioni) sotto la vigile cura dell’instancabile medico tropicalista Giampaolo Mezzabotta. A distanza esatta di un anno dal secondo libro (Dove la polvere brucia gli occhi  – È lì che parte la sfida; pagine 160, 18 euro, Infinito edizioni) e due anni dopo A viverci è tutta un’altra storia (per il quale avevo già scritto su Mondo Solidale-Repubblica.it e nel mio blog su Repubblica.it (urly.it/3xg21). Ventuno testimonianze il primo, 17 il secondo (3 new entry), undici l’ultimo, con un nuovo entrato: qui scriverò del secondo e del terzo libro.

Il messaggio e gli interrogativi 

Nelle prefazioni dei due autorevoli e importanti personaggi del pianeta delle Ong e associazioni – don Dante Carraro di Cuamm-Medici con l’Africa e Riccardo Noury di Amnesty International – troviamo una serie di spunti che richiamano l’intero progetto  – nato come naturale prosecuzione del blog Salirei anch’io su quel barcone. Parlano di aiuto allo sviluppo e di migrazioni. E la parola stessa Cooperazione ci richiama ad uno sforzo comune. Per don Dante, in chiave cristiana, «se non c’è condivisione di vita, non c’è vera cooperazione, frutto di tempi lunghi, pazienza, fiducia guadagnata giorno per giorno». Ricordando Papa Francesco ripete quel “Siamo tutti sulla stessa barca” e il “Nessuno si salva da solo”. A me erano venuti in mente il romanzo di Margaret Mazzantini del 2011 e poi la performance del 2018 di Marina Abramovich e i murales di Banksy! Per molti impegnati nelle periferie del mondo il richiamo potrebbe essere a Paul Freire e alla sua “Pedagogia degli oppressi”: «Nessuno educa nessuno, come nessuno si educa da solo, gli uomini si educano insieme con la mediazione del mondo». Il portavoce di Amnesty Italia – nel terzo volume – ha fatto eco e lo esplicita: «Non è possibile per un cooperante lavorare da solo, ma la chiave è proprio la comunità».

Cooperazione?

Mezzabotta ci arriva dritto: «La cooperazione è esattamente quello che la parola significa: lavorare assieme verso un obiettivo comune. Non dare, donare o fare da soli». Ma sulla “comunità” il medico tropicalista dalle molteplici esperienze la fa più complessa nel suo capitolo (il più emozionante e profondo che finora ha scritto, a parer mio) “Partire” che apre il terzo libro: «Non appartenere alla comunità in mezzo alla quale vivevo, non parlarne la lingua, non condividerne la condizione socioeconomica faceva sì che ci fosse un invisibile ma robusto diaframma tra me, che ero lì per scelta, e chi era lì perché vi era nato ed era destinato a restarvi». E ancora: «Ma è proprio lì che emerge la differenza tra chi, come era il mio caso, osserva la scena dall’esterno e può inorridirne e chi, invece, vive da povero tra i poveri». Per poi aprire alle emozioni personali: «Non si passa indenni attraverso esperienze che – pur non colpendoci direttamente – mettono in mostra tutta la crudezza del mondo».

Perché partiamo

Sempre Mezzabotta ci riporta alla professionalità: «Siamo semplici professionisti dell’aiuto allo sviluppo – una professione che spesso non è ben compresa né apprezzata». Ma come si decide di partire? Varie le risposte. Un poco ideologiche: «Alla fine approdai all’organizzazione che per orientamento ideologico e professionale più si confaceva alle mie aspettative» (Partire – Giampaolo Mezzabotta). Molto razionali: «Erano gli anni della pletora medica, in Italia c’era un medico ogni 150 abitanti (…) Mi sembrava quindi logico liberare un po’ di spazio nelle affollate corsie di ospedale» (Una luce nel buio – Filippo Curtale). Curriculum: «Una internship alla fine dei miei studi di Medicina» (Un cammino tra il nascere e il morire – Fabrizia Del Greco). Il caso: «Il lavoro in Libia capitò per caso» (Quella volta nei campi di detenzione in Libia – Maurizio Angeloni). Cambiamento: «Il desiderio di varcare i limiti ristretti del mio mondo» (Oltre i limiti – Giovanni Norbis). Inconfessabili dubbi: «A volte mi rendo conto che non so perché sono venuta fin qui» (Figli di una guerra qualsiasi – Maddalena Grechi). Certezze: «Se vuoi aiutare qualcuno, prima chiedigli di cosa ha bisogno. Chiedigli anche come vuole che le cose vengano fatte o addirittura proponigli di farle insieme a te». (Attenti al lupo! Viva il lupo! – Davide Berruti). Ma comunque: «Una volta che sei partito, l’immagine che avevi di te stesso e i tuoi legami affettivi vengono d’un colpo spazzati via. E, tranne rare eccezioni, non torneranno più. O non come prima» (Mezzabotta).

Padri putativi

In quasi tutti i racconti appaiono figure mitiche – ma assai concrete, incontrate nel proprio percorso – medici instancabili e cocciuti nelle sale operatorie, suore tuttofare dal piglio manageriale e prudenti dispensatrici di consigli, autisti e accompagnatori dalle poche parole ma dalla saggezza infinita. Ecco sono i “padri  putativi” dei nostri scrittori, coloro che hanno fatto scoprire vita, costumi, pensieri, modi e segreti delle nuove realtà, Africa, Asia o America Latina che fosse. C’è qui il tramandare esperienze, introdurre nei nuovi mondi, c’è una storia che continua, e forse questa trilogia ne è un esempio limpido, per nuove generazioni di cooperanti. «Il mio mentore per il tirocinio pratico era un medico cinquantenne del Togo con molta esperienza sulla lotta alla lebbra in Africa«. «Figure leggendarie – come il dottor Prandoni all’ospedale di Wamba o i dottori coniugi Piero Corti e Lucille Teasdale che fondarono in Uganda, nel 1959, il Lacor hospital di Gulu – sono rimaste a lungo nella mente e nel cuore di molti di noi come amici e modelli di ispirazione». «Ma uno dei ricordi più belli e indelebili fu l’incontro con Mukiri, il “silenzioso”, come tutti lo chiamavano, nel cuore della foresta delle colline dello Nyambeni, a Mukululu. Un missionario tanto umile quanto attivo e, direi, portentoso. Costruttore di chiese, ma soprattutto “portatore d’acqua” e difensore della comunità e della sostenibilità dei progetti».

Nostalgia

C’è poi un trasparente amore/nostalgia per le terre dove hanno operato. Etiopia: «Me ne sono innamorato fin dalla prima volta, sedotto dalle sue bellezze naturali, innamorato delle sue genti, incantato dalla sua arte, intrigato dalla ricchissima storia». «Lo Sri Lanka era ed è tuttora quello che più si avvicina al paradiso terrestre: un paesaggio di foreste tropicali e campi di riso luccicanti sotto un cielo intermittente di piogge monsoniche che rendevano l’aria pulita, popolato di gente cordiale e accogliente verso gli stranieri». «Kampala anche una specie di paradiso in terra per il suo clima temperato e costante, per il fatto di sorgere sulle rive di quel pezzo di mare al centro dell’Africa Nera che è il lago Vittoria e per la grande quantità di verde pubblico che abbellisce i viali e le piazze». «Un‘eterna primavera era il Kenya dalle falde lussureggianti dell’omonima montagna, alle cime non meno belle degli Aberdare, dove c’è ancora il piccolo ospedale missionario di North Kinangkop. Dai laghi della Rift Valley, Naivasha, Nakuru, Baringo e Turkana, fino ai bassopiani disabitati a nord del Kaisut desert, da Laisamis alla foresta di Marsabit e a sud verso il Masai Mara e lo Tsavo, fino alle barriere coralline della costa sull’oceano Indiano».

Riflessioni e disagi

Sostiene Mezzabotta: «La riflessione sul “non avere qualcosa che eri abituato ad avere” è dominante nella vita di un cooperante e alla fine porta a capire quali sono quelle cose di cui non puoi proprio fare a meno». «Dopo anni in Africa, ho imparato che la nozione di vita e di morte è molto peculiare e può essere ben diversa che nelle altre culture. Essa si sviluppa con un andamento circolare e segue un ritmo ciclico: questo consente alle persone in Africa di affrontare la tragicità della morte forse in modo più resiliente» (Luca Falqui). «Ogni tanto qualche donna mi mette in braccio un figlio piccolo e mi chiede di portarlo via da qui, nel Paese dei bianchi, al sicuro». (Maddalena Grechi). «Ed eccolo lì, un gommone nero, poco più grande del nostro, vuoto. Scrivo e ancora adesso brucia, fa male, piango…Perché nessuno vuole mettere fine a quest’inferno? (Marta Piras sulla nave salva-migranti). E ancora: «Questa generale estrema gentilezza contrasta non poco con la corruzione dilagante, la povertà diffusa e la violenza imperante».«La determinazione delle donne africane va oltre il nostro immaginario di operatori “del primo mondo” che ancora non hanno accumulato anni di esperienza in terre difficili. Ci spiazza e ci minimizza, ricordandoci quanto rispetto dobbiamo a delle anime così umili e, allo stesso tempo, così forti».

Tra i tanti spunti (difficile citarli tutti) segnalo gli aspetti quotidiani e le contraddizioni che emergono. «A colazione, pranzo e cena si mangiava sempre lo stesso cibo». «Nella media, percorrevo duecento chilometri al giorno, quasi interamente su pista…». «Impossibile far lavorare insieme l’Unicef e l’Oms». «La cooperazione a quel tempo non era solo affollata da esempi miopi. Conoscevamo anche esempi criminali…». «Per le medicine contro l’Aids, invece, il paziente doveva recarsi di persona al dispensario per riceverle oppure poteva delegare un parente a farlo tale mancanza di sinergia tra i due programmi (TB e Hiv, ndr) era un problema diffuso e serio». «L’odore dell’immondizia è così forte da stare male e nuvole di mosche si depositano dappertutto, tanto che devono tenere tutto assolutamente coperto, soprattutto il cibo, per non rischiare malattie. Quando piove è anche peggio, perché l’acqua trascina i liquami intorno alle loro case, costringendoli a camminarci dentro».

Diseguaglianze

Una sola volta – in tutti i capitoli – si fa riferimento agli ambiziosi obiettivi 2030 dell’Onu, i 17 Sustainable Development Goals – Obiettivi per lo sviluppo sostenibile. Il dopo CoVid ci ha lasciato una eredità tremenda nel mondo. Inoltre i cambiamenti climatici e le disparità crescenti accrescono i problemi. I progressi nella lotta alla malaria di due decenni sono messi in discussione dalle nuove resistenze alle cure con artemisina per il terribile Falciparum in molti paesi dell’ Africa dell’Est e dal nuovo vettore Anofele che arriva dall’Asia. Mutazioni e resistenze si registrano in tutta l’area asiatica del Mekong, in Uganda e Rwanda (vedi New England Journal of Medicine urly.it/3xg26). Il virus Dengue, portato anche dalla zanzara tigre, è approdato in Italia non più con gli aerei dei turisti ma con focolai autoctoni. Pochi casi per ora. E non rassicura il via libera dell’AIFA (l’Agenzia italiana del farmaco) al vaccino della Takeda. Per la TBC siamo arretrati globalmente: incidenza e decessi sono aumentati tra il 2020 e il 2021, finanziamenti in calo, la pipeline per un vaccino realmente efficace è in ritardo. Il colera è in forte ripresa, casi raddoppiati globalmente, con epidemie in diversi Paesi (urly.it/3xg28). Anche per HIV-Aids siamo in ritardo sugli obiettivi 2030 (www.theglobalfund.org/en/results/). Persino sulla poliomielite la fine prevista per quest’anno è rinviata (urly.it/3xg29). Non sorprende quindi la riflessione che emerge sulla formazione e training degli studenti nei corsi di Salute Globale. La rivista Lancet Global Health (urly.it/3xg2b) si interroga se un quasi esclusivo focus sui Paesi del Sud Globale (a basso e medio reddito) sia la strategia e il modello di insegnamento migliore. Ciò coinvolge anche l’approccio alla cooperazione internazionale e le Ong: è la diseguaglianza, ovunque essa sia – le minoranze marginalizzate, gli immigrati – lil nodo da affrontare, sembrano indicare i due autori dell’interessante testo-appello. L’approccio Glocal (Globale e Locale) senza scoraggiare esperienze in Paesi a basso reddito, cerca di segnalare ad università e istituzioni le sacche di povertà e ingiustizie presenti sotto i loro occhi.

Letteratura e storia

Nei diversi capitoli dei due libri si possono apprendere molte cose, non solo su tradizioni e costumi ma anche sulle vicende recenti dei Paesi. Ne sono esempio – intrecciando la Storia con le storie personali – gli affreschi Venti di guerra africani di Jacopo Resti o Somalia, Anni ‘70: la guerra da vicino di Giovanni Norbis. Così il medico Carlo Resti con il suo racconto in Kenya e soprattutto l’apertura alla cultura locale e al dialogo con i guaritori. Sempre in campo sanitario è assai interessante il capitolo Essere donne in Africa del medico chirurgo Augusto Cosulich (fatto salvo l’incipit alquanto “patronising”). Interessante e profondo – a mio modesto parere – è A Garoura non c’è bisogno di guerra del pediatra Paolo Giambelli. Qui c’è sapiente scrittura. «Il Sudan si infila come un’enorme zolla di pietre e sabbia al centro di chi viaggia attraverso l’Africa (…) Traccia una spessa linea tra l’Africa nera e quella che si affaccia sul Mediterraneo. Non è comunque uno spazio vuoto, fatto solo di immense distese assolate, un sasso rovente. Al centro, nel suo ventre, pulsa l’aorta, il Nilo. (…)»  Nè va sottovalutato l’apporto della suora Anna Maria Gervasoni delle Isole Salomone (sempre pieni di curiosità e descrizioni i suoi scritti) né il clamoroso ritratto che ci regala il fotografo Marzio Marzot: «Touré, etnia hausa del Niger, è alto, secco e contorto come un vecchio tronco, occhi acquosi ma puntuti e una bocca deformata da lunghi denti posti un po’ a caso, come se un giorno avesse addentato un sandwich con una mina anti-persona nascosta nella lattuga». Poetica e struggente la tropicalista Fabrizia Del Greco: «Avrà avuto otto anni, nel momento in cui la madre veniva seppellita (..) Con i suoi occhi grandi e senza lacrime, mentre suo padre cedeva al pianto rifugiandosi sotto un alberello spoglio, lei pareva raccontare che tutta quella vita nascente aveva la sua contropartita, perché era giusto così, perché in Africa lo impari sin da piccolo, dalla maestosa natura, che la vita è un cammino, a piedi nudi, nella terra rossa, tra il nascere e il morire»

Finale senza conclusioni

Ma c’è ancor di più nei due libri. Tanti personaggi  e immagini che si affollano, dal bimbo Francisco e il padre Edson (Luca Falqui), la Libia del giugno 2012 (del ginecologo Maurizio Angeloni), la ricerca sulla tratta delle prostitute (il sociologo Francesco Carchedi), quel “Forse non tutti si ricordano della storia delle ragazze di Chibok…”(Davide Berruti). Resta la drammatica vicenda del parto in Angola che racconta la capo-progetto Ilaria Onida: «Restai fuori mentre le acacie salutavano il colore violaceo del cielo all’ora del crepuscolo. Mi invasero frotte di moscerini e di zanzare che banchettavano sulla mia pelle». Ma soprattutto la questione irrisolta – irrisolvibile? – delle migrazioni. Marta Piras ce la racconta da Siviglia, l’effetto (collaterale?) della surreale vicenda della nave OpenArms – 2019 – che approdò in Spagna dopo i dinieghi allo sbarco dell’allora governo Conte-Salvini (ma riusciremo a dimenticare anche questo). Alla fine morì un ragazzo minorenne: «F. ci raccontò che i genitori di A. avevano litigato riguardo la sua partenza verso l’Europa; uno dei due non era per niente d’accordo e avrebbe voluto che il figlio rimanesse in Somalia. Spettò a F. l’arduo compito di parlare con la madre del suo amico (…) Successivamente A. fu portato al cimitero di Jerez de la Frontera, Cádiz, dove da allora riposa». Sembra un poco la storia portata sullo schermo da Matteo Garrone – splendido documento – “Io capitano”. Paolo Giambelli la racconta così e c’è da crederci: «Per un uomo di Garoura, sudanese o eritreo, partire è una questione di niente: non lascia niente, non porta via niente, e lungo il viaggio vivrà esattamente come fa ogni giorno: poca acqua, poco cibo, poche storie da ascoltare. Il viaggio non crea disagio, privazione. Qui non c’è guerra, non più. Non c’è bisogno di guerra per lasciare Garoura. (…) Il grande dolore è lasciare la famiglia, i vecchi, le sorelle e le madri. Il dramma non è il viaggio, ma la violenza del viaggio, quella che si dovrà subire a ogni stazione, o ogni frontiera, a ogni sosta. Quella che verrà fatta a te e, se non a te, quella che vedrai, quasi ogni sera; lasciata Garoura la sera si dovrà stare sempre con la testa girata, per non essere colpiti ma soprattutto per non vedere e diventare orribili».

PS – Nel terzo volume appena apparso – Senza barriere – c’è anche una breve galleria fotografica inquadrando il Codice QR con il proprio cellulare. Il nome della casa editrice (Infinito) mi ha fatto sorgere un sospetto: che non sia affatto una Trilogia ma molto, molto, molto di più. Mezzabotta avvisato ….

Medicina, racconti d’autunno

Due libri di storia della ricerca medica che vale la pena di avere in biblioteca

Malattie divenute disperate con disperati rimedi si alleviano, o niente affatto

(W. Shakespeare – Amleto, atto 4 – scena 3)

Le storie della medicina che intrecciano avventurosi pionieri, eventi storici raccontati nei dettagli, svolte inattese, affascinanti e creativi personaggi della ricerca, sconfitte e dolori dei nostri simili in epoche diverse sono alla base di due libri usciti di recente. Si tratta di La memoria del nemico di Arnaldo D’Amico (Il Saggiatore, pagine 334, euro 24) con il sottotitolo “Perché ci sono voluti duemila anni per scoprire il sistema immunitario”, e di Eroica, folle e visionaria di Silvia Bencivelli (Bollati Boringhieri, pagine 280, 19 euro) dal sottotitolo “Storie di medicina spericolata”. I due libri – che hanno parecchi punti in comune – si possono leggere con relativo godimento saltando da un capitolo all’altro, come lunghi articoli colmi di aneddoti, piccoli e grandi curiosità, vicende dai mille risvolti. I due autori sono entrambi medici, bravissimi divulgatori, ora appartenenti alla categoria dei giornalisti scientifici, appassionati e dediti alla “buona e corretta informazione”.

Sfide alle malattie

Dalla peste alla malaria, dalla rabbia al colera e al vaiolo, dalla febbre gialla all’HIv-Aids fino al Covid, qui vedrete scorrere e potrete immaginare, sotto le parole, le vicende umane e alcuni protagonisti di cui avrete certo sentito parlare e di altri mai. Dicevo di una lettura dei capitoli come lunghi articoli: per La memoria del nemico è la stessa genesi del libro. Arnaldo D’Amico mi raccontava (e lo scrive nei ringraziamenti) che il libro -“a sua insaputa” – lo cominciò a scrivere sette anni fa, e c’è traccia pubblica già cinque anni fa con gli articoli apparsi sul mensile Le Scienze, incoraggiato dal direttore Marco Cattaneo. 

Dagli articoli al libro 

Iniziò nell’agosto 2018 (“La morte della morte nera”) sulla peste: è il primo capitolo del libro, con l’incredibile storia dell’arrivo in Europa del ratto grigio dall’Oriente, l’esodo di massa da Astrakan, guadando il Volga. Questo ratto che ha soppiantato nel 1700 il ratto nero, è «sia serbatoio che vittima prediletta del batterio della peste» e a differenza di quello nero ospita una pulce diversa che preferisce passare ad un altro ratto invece di passare sull’uomo infettandolo con il batterio. Un esodo di massa, o meglio più esodi, del ratto grigio, che fu poi denominato norvegicus (e scoprirete il perché). A questo articolo su Le Scienze sono poi seguiti “Una rivoluzione acqua e sapone” (4 dicembre 2018) che ritroviamo nel secondo capitolo “Il terrore viene dall’acqua”, poi “Il fantasma dello scorbuto” (3 giugno 2019) che si allarga nei capitolo 4 e 5 (Peste grigia e La riscoperta dei limoni) per arrivare (3 aprile 2020) a “La scoperta dell’immunità “ e poi nel 2021 e nel 2022 i due articoli su lebbra (“Il morbo che uccide in vita”- 26 luglio 2021) e malaria (“Il parassita tenace” del 27 luglio del 2022) a cui fanno riscontro i capitoli “La memoria del nemico”, “I silenzi del corpo umano” e “Il nemico più antico”.

L’immunologia 

In una delle tante interviste ad Alberto Mantovani (questa al Corriere della sera) il famoso immunologo – anche lui – parla del libro II della Guerra del Peloponneso di Tucidide (400 avanti Cristo) sui sopravvissuti alla peste di Atene, come anticipazione di meccanismi immunologici: «Tuttavia mostravano maggiormente compassione per chi moriva e chi era ammalato quelli che ne erano scampati per averne fatto esperienza ed esserne ormai essi al sicuro; non colpiva infatti due volte la stessa persona, almeno in modo da ucciderla». D’Amico cita l’identico passaggio. Mantovani pensa al sistema immunitario come ad un’orchestra, insieme di armonia e complessità. E parla del tanto lavoro /ricerca da fare:« si stima che non sappiamo il significato di quasi il 20% delle molecole codificate dal nostro genoma. Una vera e propria materia oscura, essenziale per lo sviluppo di nuovi approcci diagnostici e terapeutici». E D’Amico apre il capito 7 così: «Il “non ritorno” diventa un formidabile strumento di prevenzione. E chi lo perfeziona scopre anche il nemico. Per ultima arriva la scoperta della memoria».

Capitoli consigliati

Segnalo nel libro di D’Amico il lungo capitolo sulla malaria, vera summa di storia della medicina, tra false ipotesi (già nel nome Mal-aria), falsi miti e false soluzioni. L’epopea della Scuola romana, la vicenda/truffa della Smalarina del “fascista della prima ora”, le campagne di disinfestazione e i reali meriti del DDT, le vecchie e nuove resistenze alle cure: «Sospendere il chinino prima che abbia sterminato il plasmodio con certezza, errore che si fa anche con antibiotici e antivirali, lascia dei sopravvissuti che moltiplicandosi di nuovo fa ripartire la roulette delle mutazioni. Sino a che non arriva quella che dà resistenza» (pagina 284).

Autoesperimenti 

Non mancano punti di contatto con il libro di Silvia Bencivelli, trattando spesso di identiche malattie, vedi in particolare i capitoli “Esploratori e germi”; “Acqua sporca”, “Farmaci e cose che forse non lo erano”, “Vaccini”. Così l’autosperimentazione del norvegese Daniel Cornelius Danielssen sulla lebbra e la disfida con il genero Armauer Hansen con cui ci delizia D’Amico, poteva ben rientrare nel libro della Bencivelli. Nelle oltre duecento pagine di aneddoti, audacia, sventatezza, piccole truffe e passione morale per la medicina, potrete trovare davvero racconti incredibili. Si potrebbe dire: Nascita, crescita, culmine e caduta dell’autosperimentazione. Una pratica che non ha ormai – se fatta solo su se stessi – più alcun valore scientifico, ma affascinante come le più incredibili avventure degli eroi dell’infanzia. 

Dal rachitismo all’LSD

Incontrerete – scelgo fior da fiore –  Harriette Chick (siamo a fine 1800) e i suoi trial su diete e rachitismo con un gruppo di scienziate; la vicenda del premio Nobel André Cournand, franco-americano, che nel 1956 «fa emergere la storia di Werner Forssmann», nazista della prima ora e con cui dividerà il premio sul cateterismo cardiaco. Forssmann si era ritirato nella Foresta Nera come medico di campagna. Vi appassionerà la vicenda di Jan Purkinje, record di 35 autoesperimenti, o quella della scoperta della morfina (Friederich Serturner). Del mitico esperimento di Alfred Hofmann con l’LSD si è scritto tanto (c’è anche l’autobiografia), ma val la pena vederla riassunta nel libro. Sulla febbre gialla, a corredo del libro di D’Amico, qui potrete leggere con grande piacere tutta la vicenda del gruppo di Walter Reed ripulito dai falsi miti. 

Capitolo preferito

 Raccomando – a me è piaciuto molto –  tutto il capitolo sui vaccini con la intricata vicenda dell’Hiv e di Daniel Zagury. La citazione che avrei ben visto su questo volume, legato alla ricerca, è quella del presidente cinese Mao Tse Tung, antica saggezza: “Se si vuole conoscere il sapore di una pera bisogna trasformarla mangiandola”. Insomma splendidi racconti, anche di tremende sconfitte e arretramenti, di protagonismo e narcisismo come di umiltà e altruismo. Ci sono anche – in entrambi i libri – personaggi misconosciuti e alla fine riscoperti. Poco si parla – solo qualche accenno – di Ignaz Semmelweis e della pulizia delle mani (durante il Covid ce ne siamo tutti ricordati, nevvero?): consiglio, allora, la lettura del meraviglioso Il dottor Semmelweis di Louis Ferdinand Céline, sua tesi di laurea (1924). Così poco spazio purtroppo hanno trovato il sommo Robert Koch e la tubercolosi, benché sia la malattia che ancora affligge e uccide nel mondo 1,6 milioni di persone l’anno e che con le forme di estrema resistenza agli antibiotici si presenta come una nuova minaccia alla salute pubblica globale.

Buona lettura!

Itinerari/ Basilicata

La frana che svuotò Craco

L’Italia ferita dagli smottamenti può aver bene un paese simbolo: è in Basilicata, si chiama Craco a 56 chilometri dalla splendida Matera. Meno di un’ora lungo l’Appia (statale 7) verso Pisticci e nel finale con una salita a curve in territorio di calanchi, laddove si staglia bene nel cielo quella che è definita la “città fantasma”. Non distante da Aliano, il paese dove lo scrittore Carlo Levi, fu confinato durante il Fascismo e che diede origine ed ispirazione per quell’opera di realismo e di denuncia della diseguaglianza che si intitola “Cristo si è fermato ad Eboli“.

Arroccata e ferita, “risvegliata” come meta di set cinematografici (primo fu nel 1978 il regista Francesco Rosi con il suo Cristo si è fermato ad Eboli) e di un turismo del surreale (perché tale è il paese), ora la “città fantasma” ha riaperto nel centro storico, da marzo scorso, il parco “museale scenografico” affidato dal Comune alla cooperativa Oltre l’Arte. Così riprenderanno le visite (con caschetto protettivo) con orari da 1° aprile al 31 ottobre (tutti i giorni,) 10-18 ; dal 1° novembre al 31 marzo, solo dal venerdì alla domenica orari 10-15. Nell’agosto 2020 si era verificato un incendio lungo il tunnel del percorso di visita che come conseguenza aveva indotto il sindaco ad un’ordinanza di chiusura. Qui ripercorriamo con l’aiuto della cronaca dei quotidiani dell’epoca (Gazzetta del Mezzogiorno e da https://www.lucania.one/aindex.php?com=craco), l’agonia di Craco che con il terremoto del 1980 finì per  diventare off-limits (anche se una famiglia si rifiutò di essere trasferita, diventando poi prima guida per spericolati turisti restii a seguire avvertimenti o divieti di accesso).

Il paese che cammina

Dicembre 1963: Da alcuni anni si sta verificando, nell’abitato di Craco, un movimento franoso, che da qualche mese è diventato sempre più preoccupante. Tale movimento interessa un gran numero di abitazioni: quasi 2/3 dell’intera cittadina, e si estende su un fronte di 500 mt, in senso longitudinale rispetto alla collina. Per cui si teme che da un momento all’altro, l’intero blocco di argilla slitti sullo strato stabile, travolgendo l’intero quartiere il che costituirebbe la pratica sparizione dalla carta geografica del nostro Comune. (Angelo Manghise)

9 Dicembre 1963: Il paese è posto a 391 mt s.l.m. su marme argillose e ghiaiose. Ha una popolazione di poco più di 1.700 abitanti suddivisi in 380 famiglie. Circa mille vani compongono tutto il nucleo abitato. Già nel 1886 una frana colpì la medesima zona. Su quei ruderi i crachesi hanno costruito le loro nuove case, ora irrimediabilmente compromesse.

10 Dicembre 1963: Per accertare l’entità del fenomeno franoso da ieri i geologi “spiano” i muri di Craco. Non esclusa la possibilità di trasferire eventuali senza tetto.

13 Dicembre1963: La pioggia ha aggravato la situazione. La grande frana di Craco continua la marcia verso valle. Aumentato il numero delle case lesionate. Sinora quaranta ordinanze di sgombero.

14 Dicembre 1963: Il paese continua a – camminare. Spezzata in più parti la rete fognante di Craco. (Gazzetta del Mezzogiorno)

21 Dicembre 1963: Nominata una commissione per studiare la possibilità di trasferire a valle la parte dell’abitato interessata dal movimento franoso. (Gazzetta del Mezzogiorno)

22 Dicembre 1963: Il Natale è ormai prossimo. Dalla parrocchia l’altoparlante diffonde musiche natalizie. La gente però è triste e preoccupata per la gravissima minaccia dei movimenti franosi. In questi ultimi giorni la statale 103, che costeggia l’abitato, sta lentamente sprofondando lungo il muraglione di sostegno.

31 Dicembre 1963: Un geologo ha visitato le zone franose. Occorre rinforzare il muro di Craco. ‘Urgenti provvedimenti: prosciugamento delle acque di infiltrazione, sostituzione delle fognature, chiusura delle cisterne’. Tutto questo porterebbe ad una dilazione ormai inevitabile, dilazione che comporterebbe il trasferimento dei rioni franati in luoghi più solidi, trasferimenti che debbono essere effettuati in breve tempo se si vuole salvaguardare la incolumità pubblica. La realizzazione di questi accorgimenti fa nascere molti problemi economici e morali, di notevole portata: un piccolo paese di appena 1700 abitanti può essere evacuato? Che cosa rimarrebbe in sostanza del vecchio? Assolutamente niente. Gravi quindi le apprensioni dei proprietari di case (costate sacrifici di intere generazioni), che vedono le loro proprietà minacciate e non sanno se avranno un risarcimento adeguato o urgenti opere di risanamento previste anche dalla legge Zanardelli. (Gazzetta del Mezzogiorno)

6 Marzo 2008: Per molti secoli Craco Vecchio è stato un faro luminoso per tutta la Lucania, con una storia davvero ricca di eventi e di riconoscimenti prestigiosi. Il motivo per cui questo faro, infine, si è “spento” è una frana. Negli anni Sessanta del secolo scorso, alcuni lavori di scavo per le fognature causarono dei crolli da cui prese il via lo smottamento del terreno sottostante. Le forti piogge degli anni seguenti peggiorarono la situazione e nel 1972 iniziò lo spopolamento. All’alba degli anni Ottanta, Craco era già un paese fantasma. (Gazzetta del Mezzogiorno)

Una poesia

(riporto da Michele Ascoli) «Craco è un fiore reciso allo stelo che china lentamente la sua corolla (…) Qui le case si tengono per mano, hanno paura di cadere l’una sull’altra. Qui la voce di Leonardo Sinisgalli si fa d’obbligo e non posso esimermi dal citare solo alcuni versi della poesia:

Paese”
…Qualcuno
ci disse buona notte seduto davanti alla porta.
Le strade sono così strette e gli arredi
stanno così addossati alle soglie che noi
sentimmo friggere al nascere della luna,
i peperoni calati
»

Michele Ascoli (https://www.lucania.one/00page1.php?grup=&id3=40757&nome0=rocco&comune3=craco&cit3=craco).

Celebrato dalla CNN

Nel febbraio 2022, nell’ambito di un servizio della tv statunitense CNN sulle città fantasma (ghost city) ecco apparire Craco vecchio, al secondo posto dopo la spagnola Belchite, in una gallery di dieci località che comprende California, Costa d’Avorio, Namibia, Cina, India, Turchia, Norvegia e Canada.

Belchite, Spagna (dal sito CNN)-https://edition.cnn.com/travel/gallery/most-fascinating-abandoned-towns/index.html

Inserito nella lista della non profit World Monuments Fund dal 2010 come luogo da salvaguardare, ha potuto usufruire, tramite la Regione Basilicata, di fondi straordinari. Oggi Craco nuova ha 630 residenti.

Giordania 5/Mar Morto

Quel marchio così “salato”

Come riuscire a vendere in chiave salutista in tutto il pianeta, anche a prezzi non certo economici, un nome che si associa alla fine della vita e alla profonda depressione terrestre, nome in più collegato ad uno dei condimenti più controversi – negli ultimi decenni – in termini di salute?

Questo è il primo miracolo del mar Morto, il lago salato più profondo della Terra. I prodotti con questo marchio, dai fanghi ai sali agli olii, sono ricercatissimi in cosmesi, contro cellulite, ritenzione idrica, psoriasi, eczemi, dermatiti e acne, per la pelle e il cuoio capelluto, contro pruriti, arrossamenti, secchezza, sono anti-rughe, per migliorare la circolazione sanguigna, anti-stress, rilassanti, per il benessere dei muscoli e delle articolazioni. Insomma, toccasana miracolosi.

Nella Bibbia viene chiamato Mar Salato, poi trasformato in Mar Morto come nella versione CEI/Gerusalemme: Tutti questi si concentrarono nella valle di Siddim, cioè il Mar Morto. (Genesi 14, 3) ; si fermarono le acque che fluivano dall’alto e stettero come un solo argine a grande distanza, in Adama, la città che è presso Zartan, mentre quelle che scorrevano verso il mare dell’Araba, il Mar Morto, se ne staccarono completamente e il popolo passò di fronte a Gerico. (Giosuè 3,14)

Tanti altri nomi che accendono la fantasia ha ricevuto questo luogo: Mare Pestilenziale, Mare del Diavolo, lago Asfaltide (in epoca ellenistica), mare del Deserto, mare dell’Araba, lago della Pianura, lago Salso, lago Orientale o, infine, lago di Lot, che rimanda ancora ai racconti biblici. Se arrivate da Aqaba, città musulmana sul Mar Rosso iper-tradizionalista e costeggiate la strada del Wadi Araba al confine con Israele, superata la zona agricola e del fosfato di Safi, si entra nella terra di Lot, nipote di Abramo, il giusto che dimorava con la sua famiglia a Sodoma. Proprio in uno dei primi punti panoramici sul Mar Morto, voltando lo sguardo vedrete sulla montagna che sovrasta la strada due statue di sassi: sono Lot che fugge dall’ira di Dio sulle città peccaminose di Sodoma e Gomorra e la moglie, lei trasformata in sale (o nel senso della parola ebraica, “si sciolse”) perché osò guardarsi dietro contravvenendo al divino divieto. La moglie di Lot nella Bibbia non ha un nome: Ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale. (Genesi 19, 26).

Così 22 chilometri prima del bivio per Karak, per chi fosse interessato alle tracce del patriarca dei Moabiti e Ammoniti, è indicato il santuario di Lot, un sito archeologico con varie stratificazioni dall’età del Bronzo attraverso i nabatei e i bizantini e gli omayyadi (qui la porta in legno intarsiata più antica della Giordania).

Su Aqaba, il golfo giordano sul Mar Rosso, vale poco la pena soffermarsi. Resort con spiaggia per un bagno, il fortino che ricorda Lawrence d’Arabia e la sua conquista nella rivolta araba contro i turchi, siamo nel luglio 1917, negozi e ristoranti. Oggi la città è più che altro un fortino del conservatorismo musulmano nonostante la grande apertura al turismo occidentale.

Viaggiamo quindi verso Nord con, a sinistra, il mar Salato e, a destra, le colline. Siamo in una profonda depressione, sotto il livello del mare per 400 metri, in questa pozza mitica e culla di religioni alimentata dal fiume Giordano. Ormai il Giordano è il solo fiume che porta ancora acqua, anche se sempre più scarsa. Un lago che tutti danno per spacciato entro i prossimi 30-50 anni, salvo progetti miracolosi e, sembra, ancora possibili. I colori delle sponde, i grumi di sale bianco che contrastano con i rossi e i grigi e i bruni delle terre, con sassi e ciottoli levigati dalle tinte nero carbone, rosso ruggine, grigio cemento, ne fanno un paradiso della vista.

Ma i vostri occhi non dovranno mai bagnarsi nella realtà di quell’acqua “miracolosa”: vedere sì, inebriarsi della vista e del susseguirsi delle cangianti tonalità dei monti dell’altra sponda, israeliana, dall’alba al tramonto, senza mai stancarsi del diverso rosa. Ma tenete lontane le gocce di aggrumata salsedine dalle vostre ciglia e iridi, e se dovesse avvenire spargete subito acqua dolce sul bruciante occhio. Anche sulle ferite, escoriazioni e irritazioni – raccontano tutte le guide – bisognerebbe aspettarsi dolori. Sconsigliano persino di fare il bagno appena rasati. Un avvertimento che incute timore ma è molto esagerato. Il bagno e il quieto e, anche qui, quasi miracoloso galleggiamento di superficie con la gioiosa e ilare difficoltà a tirare giù i piedi mettendosi eretti è un’esperienza unica. Chi vuole, inoltre, può allora cospargersi – secondo precise indicazioni – del fango purificatore.

All’altezza del King Hussein bridge, un breve ponte dalle arcate e piloni di cemento armato, sulla sinistra troverete un grande e vasto palmeto. Un’azienda agricola dove potrete acquistare anche datteri freschi e poi, svoltando nel cancello a fianco, andate lungo la strada sterrata in discesa fino al Mujib Chalets, 15 camere con bagno e vetrata con incredibile vista sul Mar Morto. È questo sicuramente il posto da preferire rispetto agli alberghi/resort e piscina che troverete più avanti lungo la strada. La spiaggia privata, le docce, il terrazzo panoramico e la confortevole sala ristorante rendono questa struttura, nella sua essenzialità (e con parti ancora da completare) una buona scelta. Alba e tramonto restano momenti magici nell’immobilità quasi innaturale spazzata d’improvviso dal vento che arriva dal Nord ad increspare le acque. Anche questa struttura, inaugurata nel 2008, è gestita da The Royal Society for the Conservation of Nature e rientra nel circuito dei Viaggi Sostenibili: risparmi idrici, cibo dei produttori dell’area, reinvestimento di parte dei guadagni a favore della comunità locale e di progetti eco-sostenibili.

Tornando sulla strada principale, sotto il King Hussein bridge troverete l’ingresso – a pagamento – della Mujib Biosfere Reserve e il punto informazioni dell’Adventure Center (con caffetteria) dove organizzare trekking e gite per esplorare il Wadi Al Mujib. Buon Canyon trail!

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Giordania/4 – Il deserto

Wadi Rum, la Valle della Luna

“Vasto, echeggiante e simile ad una divinità”, scriveva di Wadi Rum Lawrence d’Arabia, archeologo e agente segreto inglese. La potenza di questa sabbia rossa, di questo deserto dalle alte rocce multiformi, dei suoi spazi allucinati e immobili ne fanno un archetipo lunare. Non è un caso che questo paesaggio sia stato scelto per tante ambientazioni cinematografiche di fantascienza: Star Wars, Pianeta rosso, Transformers 2, Sopravvissuto- The Martian. Ma anche film storici o di fantasia come Lawrence d’Arabia, Passione nel Deserto, Tutti i soldi del mondo, Theeb, Aladdin.

Quando si arriva a Wadi Rum e alla sua terra rossa la fetta d’asfalto dell’unica strada sfuma ai lati nel polveroso deserto, mentre sulla sinistra corre una ferrovia a scartamento ridotto sullo stesso piano mentre si susseguono a distanze regolari i pali di legno che sorreggono la fila continua dei cavi elettrici. Sembra un’atmosfera da selvaggio West che però si sgretola alla vista di un gruppo di cammelli guidati da un giovane beduino. Nel deserto si stagliano alte le rocce, multiformi e limpide, ogni picco ha il suo nome, le spaccature come ferite rivelano colori mischiati, un mélange che attrae lo sguardo. Alture all’orizzonte e pilastri di granito, basalto e arenaria che nei millenni si sono in parte sfarinati regalando questa sabbia rosata. Qua e là dune, qualche isolato cespuglio, sassi e soprattutto segni di pneumatici che lacerano ovunque il panorama. Sono le jeep 4×4 a centinaia, il censimento del 2020 ne contava 1400, guidate dai beduini che hanno messo da parte i cammelli e le capre per cimentarsi, con miglior fortuna e guadagni, nel turismo di massa.

Così le grandi tende colorate e gli igloo bianchi o verdi con panoramica vetrata sul deserto sono cresciuti come funghi al riparo di massicci di pietre frastagliate. Insieme e accanto a loro ecco spuntare strutture di accoglienza e distese di pannelli solari: sono i villaggi, confortevoli eppure essenziali, che accolgono i viaggiatori per la notte nel deserto di Lawrence d’Arabia. Almeno una settantina di questi “campeggi turistici” , con o senza licenza, son via via cresciuti, tutti gestiti da famiglie di beduini e condotte esclusivamente da maschi. Nessuna donna per le pulizie o per servire a tavola, per cucinare o accogliere i moderni viandanti. È l’uomo, con kefiah e tunica, l’unico inserviente, padrone, driver, guida, elettricista, idraulico, portare di valigie, intrattenitore con danze, suonatore, cammelliere, traduttore, amministratore, mediatore, colui che riscuote e che organizza, che avverte e sveglia, che prega con il suo tappetino rivolto verso la mecca e spiega i misteri del deserto, che, con noncuranza, risponde al cellulare dalla cover con il volto di Bin Laden.

Il maschio beduino è il religioso padrone del deserto, gentile affarista dalle forti convinzioni tradizionali ma fino ad un certo punto. L’orda dei “pellegrini del Wadi Rum” è tecnologica e affamata di immagini, ha poco tempo (una-due notti e via), è curiosa, abbastanza ricca e spensierata: il beduino sa come accontentarla. Con gentilezza e affabilità guiderà tutti a cena e a colazione, sulla jeep standard o su quella Vip, davanti alla casa diroccata di Lawrence (ma è una truffa) e al suo pessimo ritratto scolpito nella roccia, per accontentarla rinominerà le montagne Jabal al-Mazmar “i Sette pilastri della saggezza” – persino sulla cartina del centro visitatori – in omaggio sempre al Lawrence che abbiamo in mente noi. In due-tre o quattro ore, dipende dalle tasche, ci porterà sull’arco di roccia di Umm Fruth o ad ammirare gli antichi messaggi lasciati dalle carovane sulle pareti dei massi nei secoli dei secoli e per renderli verosimili ci porterà sul posto – sempre in jeep – dove c’è il mercatino (come accanto all’arco) e una decina di dromedari, con relativi beduini biancovestiti, maschi, uomini e animali stanchi e assopiti, dallo sguardo oppiaceo sotto il sole splendente o all’ora del tramonto.

I luoghi sono – comunque – a parte la folla e la ressa di 4×4 – di un fascino che lascia stralunati. Basta volgere lo sguardo dall’altra parte, mettere le spalle all’orda, per vedere l’immensità e la potenza di sabbie e pietre, allontanarsi un poco e ascoltare i silenzi profondi e antichi di questo lembo di mondo. Sull’arco di roccia – immortalati milioni di volte, come su un palcoscenico globale – si susseguono ragazzi e ragazze, vecchi e anziane signore, palestrati, giovani donne accaldate e sorridenti, transgender, Lgtbiq+, bambini con ciuccio e senza, ragazzine incinta, panciuti mezzetà, splendidi trentenni e quarantenni, cinquantenni abbronzate, tutti immancabilmente lassù per essere ripresi e rilanciati sul set dei social mondiali a conferma dell’intuizione geniale di Andy Warhol sui “minuti di celebrità per tutti e ciascuno”.

Ma non finisce qui: c’è la tappa dell’altissima parete di sabbia da risalire faticosamente per poi riascendere, se si vuole, in slalom, slittino o discesa libera. Sciare sui rossi granelli del deserto, una fantasticheria e uno sfizio mentre giù in basso, come nelle più famose e affollate stazioni alpine, un mare di auto sosta attendendo gli sportivi viaggiatori. Non si nega nulla al turista che paga. Ultima tappa, siamo al tramonto, il terrapieno sulla distesa rosata con sfondo di alte rocce che fu il set di un episodio di Star Wars. Una fotografia di gruppo con beduino, un tè nel deserto, una cena sotto le stelle, un’arrampicata e una folle discesa con jeep sulle dune, ogni giorno, ogni notte, tutti i santi 365 dell’anno.

Ci sono in verità anche itinerari e traversate del deserto per camminatori e naturisti con guida (o senza, ma meglio segnalare i percorsi al centro turistico, perdersi nel deserto non è uno scherzo), ma questo tipo di turismo è composto da una esigua minoranza e bisogna avere a disposizione molto più tempo e buon allenamento per intraprendere tali trail, meno pubblicizzati. E non sono così remunerativi – per le tribù beduine – come il resto. Insomma, per tutto il popolo degli slow-travel, amanti dei cammini, allenati e piuttosto giovani, ci sono varie alternative “lontani dalla pazza folla”. Per turisti anziani o con disabilità, menomazioni, crisi di fisicità, fuggitivi di brevissimo termine, non saremo certo noi a scagliare la prima pietra contro l’utilizzo dei trasporti a motore. Si segnala solo l’impressionante numero. Così non può certo durare lungo. La sera, attorno ad un fuoco, ci si ritroverà a rimirare tutti il nero cielo stellato e godere del fresco del deserto.

Delle varie tribù, tre in realtà, che popolano questa parte di Giordania non abbiamo ancora parlato. Può verificarsi qualche “sconfinamento” sulle aree di competenza, con conseguenti discussioni e regolamenti di conti lontano dai villaggi per non turbare i turisti. Gli zalabia “coprono” la zona e il villaggio di Rum – riportano le guide – e i loro veicoli possono accedere all’area centrale Operator 1; gli zuwaydeh con le loro 4×4 accedono alla zona più periferica chiamata Operator 2; al nord-ovest (Shakriyyeh e il complesso turistico di Bait Ali) è zona degli swalhieen e dei loro cavalli, cammelli, fuoristrada attrezzati e perfino mongolfiere.

Dal 2011 l’Unesco ha dichiarato il deserto di Wadi Rum patrimonio dell’umanità. La maggioranza delle famiglie che vi abitano sono ormai legate al turismo, chi si dedica alla pastorizia è una esigua minoranza.