9 maggio 2019 - 20:49

Pedofilia e Chiesa: «Obbligo di denuncia ai giudici? Ci pensi lo Stato»

L’arcivescovo Scicluna e il Motu proprio del Papa sugli abusi: «Non possiamo imporre un obbligo non previsto dalle leggi civili, sarebbe un’ingerenza»

di Gian Guido Vecchi

L’arcivescovo Charles Scicluna, segretario della Congregazione per la Dottrina della fede L’arcivescovo Charles Scicluna, segretario della Congregazione per la Dottrina della fede
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CITTÀ DEL VATICANO «In passato abbiamo avuto casi tristissimi di gente che diceva: noi vogliamo proteggere la Chiesa, non parliamo. Questo è un atteggiamento che non è accettabile. Il bene della Chiesa richiede la denuncia. E anche che uno rispetti la legge civile». L’arcivescovo di Malta Charles Scilcuna, segretario aggiunto della Congregazione per la dottrina della fede e uomo di punta della Chiesa nella lotta contro la pedofilia, ha appena presentato in Vaticano il Motu proprio del Papa Vos estis lux mundi, «Voi siete la luce del mondo».

Eccellenza, nel testo c’è l’obbligo di denuncia alle autorità ecclesiastiche ma non quello alle autorità civili: si rimanda alle leggi dei singoli Stati, secondo che lo prevedano o no. Perché? Cosa impedisce alla Chiesa di definire una sua norma che impone a preti, religiosi e religiose di denunciare i crimini pedofili alla magistratura o alle forze di polizia anche se nelle leggi del Paese l’obbligo non è previsto?

«La Santa Sede, facendo una legge universale, deve ricordarsi della diversità delle culture e delle scelte che fanno le autorità civili. Dare un tipo di normativa universale che impone un obbligo non previsto dalle leggi dello Stato sarebbe un’ingerenza. Lo Stato ha l’obbligo di dire ai cittadini qual è la legge domestica. Quello che deve dire la Chiesa è che nessun impegno ecclesiale, nessun tipo di lealtà alla Chiesa deve impedire al cittadino di obbedire al proprio Stato. Questo è un principio che la Chiesa ha il dovere di affermare».

Quindi, se ci sono lacune, se l’obbligo non è previsto - come in Italia - dovrebbero essere gli Stati a colmarle?

«Sì. Io non oserei mai dire a uno Stato cosa deve fare, lo Stato lo sa. Il mio dovere è dire ai cattolici che abbiamo il dovere di obbedire alla legge del Stato, che non sarà mai ingiusta».

Come vede la situazione italiana?

«So che ci sono sviluppi, una maturazione di consapevolezza e di sensibilità della Cei, secondo me molto positiva. Del resto non solo in Italia, ma in tutti i Paesi bisogna che ci sia la determinazione a lavorare insieme, tra autorità della Chiesa e autorità civili, per debellare questo fenomeno tristissimo che in tutte le civiltà è un crimine statale e anche un peccato e un crimine canonico».

Cosa direbbe ai fedeli?

«Come arcivescovo, dico loro che, se amano la Chiesa, devono denunciare i delitti. Il Santo Padre dà un segnale forte in questo senso. Chi denuncia è protetto e la vittima dei crimini deve essere ascoltata, ci devono essere in ogni diocesi punti di ascolto. Come pastore parlo al mio gregge e dico: se faccio qualcosa di male, avete non solo il diritto ma il dovere di denunciarmi. Andate dal nunzio o magari dal vescovo ausiliare a denunciare il vostro pastore perché io sono al vostro servizio, non sono al di sopra di voi né della legge. Il Papa ci dà una procedura per l’investigazione della leadership nella Chiesa e anche un segnale forte: in questi processi possono avere parte anche i laici qualificati».

Il testo dispone una maggiore responsabilità dei vescovi e delle chiese locali. L’impressione è che in passato i vescovi si facessero scudo della Santa Sede, come se il Papa potesse controllare cinquemila vescovi in tutto il mondo…E così?

«Il successore di Pietro è al servizio dell’unità della Chiesa e ha giurisdizione universale in questo ministero. Ma nella Chiesa è una realtà importante anche la responsabilità del collegio episcopale, della collegialità. Il Motu proprio è una espressione della giurisdizione del Santo Padre ma anche una chiamata alla corresponsabilità dei vescovi e alla collegialità effettiva».

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