16 dicembre 2018 - 23:37

«Il giorno più difficile»
La tregua tra i vicepremier per il compromesso

Ma è gelo tra Giorgetti (assente) e il capo dei 5 Stelle

di Monica Guerzoni

«Il giorno più difficile» La tregua tra i vicepremier per il compromesso
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Per Luigi Di Maio il testo della «manovra del popolo» limato in notturna a Palazzo Chigi è la sconfitta dei «soliti noti» e la rivincita dei cittadini sulle élite economiche del Paese. Per Matteo Salvini è un grande risultato dell’Italia, che «sarà di esempio anche a tutti gli altri governi e popoli europei».

Tanta enfasi oratoria, sciorinata ora dopo ora nella nervosa ed estenuante giornata definita da entrambi come «decisiva», nasconde il tentativo di mascherare l’evidenza della sconfitta, incassata in tandem dai due azionisti di maggioranza del governo. I quali hanno ben chiaro come, sul piano interno, il primo effetto del braccio di ferro con l’Europa sarà ridisegnare equilibri e rapporti di forza alla guida del governo.

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La rivincita dei tecnici sui politici, a cominciare dal tanto bistrattato ministro Giovanni Tria, puntellerà inevitabilmente il ruolo di Giuseppe Conte. Volato più volte a Bruxelles per trattare e smussare e tranquillizzare, il premier non potrà non acquisire maggiore forza e indipendenza rispetto ai leader dei partiti. E la conferma dei nuovi assetti che si profilano è la moral suasion con cui Conte — nel prevertice con i suoi vice — ha chiesto loro di smetterla di litigare per siglare la tregua. «Incontro positivo, atmosfera cordiale», recita il bollettino di Palazzo Chigi. Ma il clima non è questo. Nel M5S l’agitazione è massima e non solo per quel titolo («Di Maio cede sul reddito») che ieri rimbalzava sul web e faceva saltare i nervi al «capo» del Movimento. Beppe Grillo è piombato a Roma con Davide Casaleggio e ad allarmare i parlamentari stellati sono anche i piani di rientro di Alessandro Di Battista. L’insofferenza è alta anche tra i leghisti. Si dice che Giancarlo Giorgetti (assente al vertice) non rivolga più la parola al ministro del Lavoro, il quale si comporta allo stesso modo col sottosegretario.

A porte chiuse si è discusso su tutto, con toni anche aspri. Sui soldi per rappezzare le buche di Roma. Sull’ecotassa che Salvini è riuscito ad azzoppare. Sul taglio alle pensioni d’oro, ridotto a specchietto per le allodole. Schermaglie che hanno fatto da paravento al grande scontro sulla manovra, sfida finale tra due squadre che si fronteggiano da settimane. Da una parte Di Maio e Salvini, determinati a resistere fino all’ultimo.

Dall’altra Conte, Tria e i tecnici del Tesoro, sostenuti dal Quirinale e dalla Bce e intenti a esercitare l’ultimo pressing per tagliare tre miliardi e mezzo senza abbattere i totem elettorali, reddito e pensioni a quota 100. Il 2,4% del rapporto deficit-Pil, sbandierato da Di Maio dal balcone di Palazzo Chigi, è ormai un ricordo da ritaglio di giornale. La battaglia della vita si è giocata sulla soglia psicologica del 2% e non sarà facile per Di Maio e Salvini convincere i rispettivi elettorati che il salto all’indietro al 2,04% è solo una questione di «zero virgola».

Anche per questo i due vicepremier avrebbero provato a stringere un patto di non belligeranza. Un accordo che consenta a entrambi di convincere gli italiani che «nessuno ha calato le braghe». Per far vedere che la coppia non scoppia, i due leader hanno cominciato a parlare uno per conto dell’altro. Se Salvini avverte anche a nome del M5S che «non ci sarà nessuna nuova tassa sulle auto», sulle pensioni d’oro Di Maio usa lo stesso schema: «Straconfermo anche a nome della Lega».

Formule che rivelano l’impegno a coprirsi le spalle a vicenda davanti a chi spera di lucrare sulla battuta di arresto degli avversari. «Di Maio e Salvini hanno fallito?», semina zizzania il dem Nicola Zingaretti. Eppure Salvini è convinto di averci messo «il massimo del buon senso», per tenersi in equilibrio tra le esigenze degli italiani e la salvaguardia dei conti dello Stato. E adesso, avverte, se la procedura di infrazione dovesse scattare lo stesso vorrà dire che qualcuno a Bruxelles si è messo in mente di abbattere il governo sovranista per scongiurare che diventi un modello per l’Europa intera.

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