5 maggio 2019 - 22:20

Il ritorno del linguaggio machista nelle parole della maggioranza

Esaurite le metafore, i governanti ricorrono al turpiloquio come extrema ratio

di Tommaso Labate

Il ritorno del linguaggio machista nelle parole della maggioranza
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«Sulla questione morale il Movimento non fa passi indietro e alla Lega chiediamo di non cambiare sempre discorso. Ma di tirare fuori le palle su Siri e di farlo dimettere». Stavolta, per quanto le righe in questione non abbiano una persona fisica per mittente né una persona fisica per destinatario, il messaggio è di quelli chiari che più chiari non si può. Arriva dall’house organ, quel «Blog delle Stelle» che da qualche tempo ha ereditato i crismi dell’ufficialità dal sito di Beppe Grillo. Ed è indirizzato, manco a dirlo, a Matteo Salvini, qualche riga più sotto incastrato dall’estensore del post con la più stravagante delle pistole fumanti — almeno se usata da un grillino — e cioè l’aver chiesto a suo tempo le dimissioni della sottosegretaria alfaniana (nel senso di Angelino) Simona Vicari, pari grado di Siri per dossier (Trasporti) e più o meno per indagine a carico (corruzione).

Al «tiri fuori le palle», a cui Salvini ha risposto con un «tappatevi la bocca», si arriva di solito quando il bouquet di sinonimi, metafore, eufemismi è stato consumato, e quindi al pronunciante non resta che il turpiloquio, elevato al rango di extrema ratio. E invece, anche a prescindere dal caso Siri, il presunto machismo retorico della maggioranza gialloverde scandisce ormai da mesi rime, metriche, tempi e ritmi della quotidianità. O quasi. «Al ministero dell’Economia stanno aspettando la risposta sull’Europa. Mi sono rotto le palle e oggi stesso lo dirò al ministro», scandiva qualche settimana fa Salvini, furibondo con Tria per l’ennesimo rinvio del testo sui rimborsi ai risparmiatori truffati. Leggera variazione sul tema — dal femminile al maschile, sempre plurale — per Alessandro Di Battista, che qualche giorno prima aveva indirizzato a Salvini un semplicissimo «la Tav è un’opera inutile e Salvini non rompa i coglioni». E il ministro dell’Interno, a stretto giro di posta, anticipando la tormenta delle settimane a seguire: «Se qualcuno continua a insultare e a darmi del rompicoglioni, le cose si faranno complicate».

E così, rottura dopo rottura, machismo dopo machismo, il bestiario del turpiloquio di governo — inaugurato dall’allora premier Silvio Berlusconi nel 2006, quando a tre giorni dal voto aveva bollato come «coglioni» i possibili elettori del centrosinistra — si arricchisce. A qualcuno potrà sembrare un segno dei tempi. Qualcun altro potrà cavarsela evocando la massima stroncatura della figura retorica dell’eufemismo messa a verbale qualche lustro fa da Gianfranco Funari in diretta tv insieme a Giovanni Benincasa. «Se mando affanculo uno, dimmi te la parola “stronzo” che sinonimo ha? Perché se uno è stronzo non je posso di’ stupidino, si crea delle illusioni». Certo, farci un governo insieme diventa un’impresa. Per usare un eufemismo.

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