18 marzo 2019 - 09:55

I finti universitari parlavano in dialetto e sognavano il martirio

Associazione con finalità di terrorismo, sotto la lente 66 conversazioni in tunisino

di Giovanni Falconieri

I finti universitari parlavano in dialetto e sognavano il martirio
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Non basterà tradurre in italiano. Sarà necessario indicare anche il tipo di dialetto eventualmente utilizzato e l’area geografica in cui è diffuso. Perché Nafaa Afli, Bilel Mejri, Marwen Ben Saad e Bilel Tebini si scambiavano informazioni in dèrja, che non è l’arabo standard dei giornali, dei film e delle televisioni e neppure quello classico del Corano e della tradizione letteraria. I quattro finti studenti universitari, che oggi rispondono di associazione con finalità di terrorismo davanti ai giudici della Corte d’Assise, non disdegnavano il dialetto. E forse ne utilizzavano più di uno. Per questo all’interprete che dovrà tradurre nella nostra lingua le loro conversazioni è stato chiesto di indicare anche il tipo di idioma usato e la regione di provenienza. Il perito avrà a disposizione sessanta giorni di tempo per rendere in italiano 66 intercettazioni ambientali e telefoniche catturate dai carabinieri del Ros durante l’inchiesta «Taliban».

Altre conversazioni erano già state tradotte in fase di indagine, consentendo di scoprire che i quattro giovani nordafricani fingevano di studiare materie umanistiche a Palazzo Nuovo e sognavano in realtà di morire per l’Isis. Conversazioni come quella intercettata dai carabinieri il 7 marzo 2016 in un modesto appartamento alla periferia di Torino. «Se andassimo a farci martiri in Siria sarebbe meglio», aveva commentato Ben Saad rivolgendosi ad Afli e a Mejri. «Tu ti saresti ucciso?», aveva domandato riferendosi ai «martiri morti» qualche settimana prima nelle città tunisine di Kesserine e Ben Guardane. L’uomo aveva insistito: «Se tu andassi a combattere sarebbe meglio, tanto a cosa servi in questa vita? Non servi a niente». Poi il pensiero era volato a chi invece ce l’aveva fatta, a Wael Labidi e a Khaled Zeddini, giustiziati mentre combattevano in Siria: «Loro sono nel posto della verità e noi in quello del peccato, loro hanno venduto la vita e comprato il giudizio». Anche Labidi e Zeddini erano tunisini. E pure loro erano arrivati a Torino fingendosi studenti. Ma poi avevano lasciato il nostro Paese per il Medio Oriente ed erano morti combattendo il Jihad. I loro quattro connazionali erano rimasti invece in Piemonte e oggi sono a processo con l’accusa di essere fiancheggiatori dell’Isis e dello Stato islamico.

Afli, Mejri, Ben Saad e Tebini erano sbarcati in Italia dopo aver chiesto «un permesso di soggiorno per motivi di studio». Ma come sottolineò il Riesame nell’ottobre del 2017, «tutti avevano fornito false attestazioni sul superamento degli esami per garantirsi l’iscrizione all’Università, necessaria all’ottenimento e al rinnovo del permesso di soggiorno». Parlando al telefono con un’amica, il 25 gennaio 2016, «Nafaa Afli riconosceva» in effetti «di essersi iscritto» a Palazzo Nuovo «presentando documenti falsi senza che nessuno se ne fosse mai accorto». Nel febbraio 2018 Ben Saad, Afli e Mejri erano stati quindi arrestati. E centoventi giorni più tardi era finito in manette anche Tebini, catturato in Austria: era fuggito dal nostro Paese dopo aver dichiarato di essere «pronto a compiere un’azione terroristica» e aveva trovato riparo in Belgio, da lì si era infine trasferito a Vienna. Per l’accusa, i quattro tunisini (ora tutti in carcere in Sardegna) avrebbero aderito alla «ideologia del Jihad estremista e violento», diffuso sul web «video e fotografie sull’adesione all’Isis», partecipato a «comizi con militanti combattenti», fornito «assistenza legale ed economica ai sodali arrestati» e persino «l’omaggio rituale ai martiri in seguito al loro decesso».

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