1 luglio 2018 - 17:58

Patrick McGrath: «L’amore? Nella sua fase intensa non è altro che follia»

«Il fascino che subisco nei confronti del problema della pazzia all’interno del romanzo non si è mai interrotto, fino a oggi. I personaggi sono tutti miei figli: Constance Klein, Spider, Sir Hugo, Edward Haggard. Il prossimo libro? Sul fascismo di Franco»

di Maurizio Francesconi e Alessandro Martini

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Patrick McGrath è nato a Londra nel 1950 Patrick McGrath è nato a Londra nel 1950

TORINO - Domenica 1 luglio Patrick McGrath, star della letteratura nato a Londra nel 1950, salirà sul palco di Collisioni a Barolo, il festival di musica e letteratura giunto alla sua decima edizione. Da sempre indagatore della mente e della follia umana («Follia» è anche il suo più grande successo, pubblicato in Italia da Adelphi nel 1996), McGrath ha trascorso l’infanzia vicino al manicomio di Broadmoor, presso cui lavorava il padre. È questa contiguità alla malattia mentale, ha lui stesso raccontato, ad averlo segnato come uomo e forgiato come romanziere. È proprio la «pazzia» (in ogni sua possibile forma) la protagonista di tutti i suoi romanzi, talvolta violenta e talvolta più nascosta e indecifrabile. «Grottesco», «Il morbo di Haggard» (entrambi per Adelphi), «Trauma» e «L’estranea» (Bompiani) sono alcuni dei titoli che lo hanno reso un caso editoriale a livello globale, uno di quegli autori (pochi) amati contemporaneamente dalla critica e dal pubblico. La sua ultima opera è «La Guardarobiera» (La Nave di Teseo, 2017) e racconta un’ossessione, un sentimento diverso e più ambiguo rispetto alla pura follia di alcuni suoi romanzi precedenti. È un impulso sotterraneo, meno apertamente dichiarato e, come sempre accade nei suoi romanzi (e talvolta nella realtà), aumenta pagina dopo pagina. Il suo approccio nei confronti dell’argomento, così a lungo meditato ed elaborato anche in senso letterario, continua ad affascinare e rimane tuttora sorprendente.

Dove risiede il fascino della malattia mentale e perché la trova così interessante da essere la protagonista delle sue storie?
«Quando ero piccolo vivevo vicino a un manicomio. Ero cosciente della grande sofferenza che esisteva in quel luogo e degli atti di orrore e violenza che erano stati commessi da (e su) molti di quei pazienti. Non sono mai stato impaurito da questo e sono stato in grado di reprimere la paura e l’ansia che sarebbe la risposta naturale di un bambino. Questo accadde anche grazie all’amore dei miei genitori e alle loro rassicurazioni che mi davano grande conforto. Allo stesso tempo ho cominciato a leggere storie dell’orrore, devo dire con un certo entusiasmo. Quando avevo nove anni amavo moltissimo Edgar Allan Poe. In realtà mi piacevano tutti gli scrittori horror. Oggi credo che questo sia stato il modo in cui sono riuscito a controllare e contenere questo mondo inquietante nel quale sono cresciuto. Più tardi ho cominciato a creare io stesso delle storie dell’orrore e, in modo per nulla sorprendente, ero attratto dalla follia come vero e proprio tema letterario. Con il passare del tempo sono rimasto profondamente coinvolto dal dipingere il caos della follia all’interno dell’ordine della narrativa romanzesca. Il fascino che subisco nei confronti di questo problema non si è mai interrotto, fino a oggi».

Quale ruolo ha l’amore all’interno delle storie che lei racconta? E quali sono tipi di amore la interessano come scrittore?
«Amore e follia, questa è una domanda complessa e profonda. L’amore nella sua espressione più intensa è vicino alla follia, ed è un territorio davvero molto pericoloso. Mi ci sono inoltrato nel mio romanzo Follia ma sono certo che tornerò a parlarne».

Perché ora ha ambientato «La guardarobiera» a Londra, nell’immediato dopoguerra e nel mondo della cultura, dell’arte e del teatro?
«Il romanzo si svolge nel 1947, così da poter esplorare la condizione dell’Inghilterra subito dopo la seconda guerra mondiale, e ho ambientato la storia in un teatro per poter indagare le idee e le identità connesse con il mestiere dell’attore. Per caso ho scoperto che nel 1946 il fascismo era ancora molto vivo e attivo in Inghilterra e ne sono rimasto sorpreso. È lì che ho capito che dovevo trasferire questo fatto straordinario tra le rovine della guerra».

Nel romanzo c’è un’espediente narrativo molto originale: l’io narrante è un coro. Com’è nata l’idea?
«Mi sono semplicemente immaginato un gruppo di donne anziane del teatro (forse fantasmi?) parlare dei personaggi come se raccontassero la loro storia. E questo mi ha ricordato un coro greco».

Qual è il suo personaggio che ha più amato?
«Li ho amati tutti come se fossero miei figli. Sono i miei figli. Li ho creati e ho amato di più quelli che erano i più impossibili da amare: Constance Klein, Spider (interpretato da Ralph Fiennes nel film di David Cronenberg del 2002, ndr), Sir Hugo, Edward Haggard, Jack Rathbone».

Il suo prossimo romanzo sarà ambientato in Spagna e parlerà della Guerra civile spagnola e di Francisco Franco. La storia del Novecento è una fonte di ispirazione importante per lei. Perché?
«Continuo a essere affascinato dagli orrori del ventesimo secolo e, in particolare, del fascismo. La Spagna è il primo luogo in cui si è verificato un conflitto tra fascismo e democrazia. Era solo la prova generale che avrebbe portato alla seconda guerra mondiale. Hitler era coinvolto e così anche Mussolini. I fascisti vinsero e Franco tenne il potere per quasi quarant’anni. Sto cercando di trovare una storia da raccontare all’interno di questa storia più vasta, perché sono le singole storie che compongono la Storia».

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