2 marzo 2019 - 11:29

Il pensionato che recupera le bandiere del vecchio Pci. «Sono la nostra memoria, vanno conservate»

Con la fine del partito comunista italiano si sono perse le tracce dei drappi simbolo delle sezioni torinesi. Pierluigi Teofilo, 70 anni, ha deciso di cercarle e custodirle

di Paolo Coccorese

Il pensionato che recupera le bandiere del vecchio Pci. «Sono la nostra memoria, vanno conservate»
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In Regio Parco rimane solo il ricordo delle tante «cellule» del Pci. Sono sparite con la crisi di una sinistra che aveva una presenza capillare nel quartiere. Addio alla sezione 23esima «sorelle Arduino» e ai presìdi politici nelle case popolari o nelle fabbriche. L’«Olga Naviganti», il «De Carli», il «Francesco Valentino», il «Nicola Grosa» e quello della Manifattura Tabacchi. Sezioni cancellate dalla storia come la scritta sulla facciata di via Cravero, «La classe operaia deve dirigere tutto», che spiegava chiaramente cosa si votava in questa periferia.

«Una Torino scomparsa che non si può dimenticare», racconta Pierluigi Teofilo, 70 anni, ex operaio della Ilte. Per evitarlo ha deciso di salvare le bandiere delle ex sezioni comuniste. «Sono un patrimonio storico che vale ancora oggi — ammette —. Molte portano il nome di un partigiano». La storia della città (e non solo) è custodita al Circolo Banfo di via Cervino. Nel suo deposito non ci sono solo libri, ma drappi di lana ricamati a mano. Come per esempio, la bandiera della cellula Pci «Manifattura Tabacchi». A sventolarla dal 1949 le «sigaraie», un mestiere che non esiste più, come è stato scritto sul vessillo con l’immancabile falce e martello.

«Negli ultimi anni, con Francesco Vercillo, abbiamo organizzato mostre che raccontavano la storia di Barriera di Milano. Abbiamo approfondito il ruolo delle donne della Resistenza e la Grandi Motori, ma non ci siamo fermati perché volevamo tramandare qualcosa a noi molto caro come le bandiere delle sezioni. Anche loro sono pezzi di storia del quartiere», spiega Teofilo, responsabile dell’Anpi di zona, che nel tempo ha raccolto una trentina di vessilli. Sono quelli che sventolavano davanti le fabbriche e nelle tradizionali sfilate del primo maggio. Simboli dell’orgoglio di esser comunisti anche in quegli stabilimenti dove non era sempre facile esserlo. Alcuni di questi sono stati chiusi e demoliti e, per ironia della sorte, sono proprio i drappi del Pci a ricordarne i nomi. Come nel caso della Ceat Gomme, Ceat Cavi di Settimo o della Filatura Bona. «Le loro bandiere sono impregnate del sudore degli operai», commenta il cercatore di drappi Pci. Con la crisi del partito molti hanno fatto una brutta fine. «Quando si è sfasciato, ognuno è andato via con le pile nel sacco — aggiunge —. Tante bandiere sono sparite: alcune sono diventate zerbini o coperte per i cani».

Per fortuna non tutte. Come quella del ‘52 con la scritta «No al riarmo tedesco». O quella azzurra, ricamata da 68 operaie nel ‘48, con una colomba e un augurio: «Desideriamo ardentemente la pace perciò via gli americani dall’Italia». O quella dei dipendenti comunali della sezione «Elvira Pajetta» del ‘64. «Abbiamo organizzato anche una mostra in Circoscrizione. Essendo molto rossa, per evitare censure politiche, decidemmo di aggiungere anche quelle delle parrocchie e degli altri partiti», racconta Guido Bertotti, 82 anni, anima del «Banfo». Per merito suo molte bandiere sono ritornate a casa. Con il passaparola è riuscito a ritrovare quelle che si pensava perse per sempre. Finite negli armadi degli eredi dei compagni di un tempo che in alcuni casi non hanno voluto separarsene. «Facciamo un appello — dicono dal «Banfo» —. Chiunque abbia una bandiera, non solo del Pci, la doni. Sono patrimonio di tutti». Che a volte tornano a sventolare come in «Good Bye, Lenin!». «Ai funerali dei vecchi partigiani — spiega Teofilo —. Molti, prima di morire, esprimono il desiderio di essere ricordati facendo sventolare per l’ultima volta la bandiera rossa della sezione».

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