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Mafia nigeriana, venti arresti. A Treviso c’era un “capocosca”

Droga, torture e prostituzione: blitz contro una pericolosa organizzazione. Ricercato dagli agenti della Mobile anche un boss a Treviso

Marco Filippi
1 minuto di lettura

TREVISO. Stroncata un’organizzazione di nigeriani che gestiva la tratta delle prostitute e il traffico di cocaina ed eroina in Sardegna e in tutta Italia. Venti i nigeriani, appartenenti alla “Supreme Eiye confraternity”, una nota organizzazione mafiosa internazionale, che a Treviso poteva contare su un cosiddetto «world Ibakà», una sorta di “capocosca”, una figura apicale della confraternita mafiosa che ha messo radici in tutta Italia. Gli uomini della squadra mobile di Treviso, all’alba di ieri, in collaborazione con i colleghi di Cagliari, si sono attivati per individuare e arrestare l’esponente della mafia nigeriana. Si tratta di uno dei sei personaggi ricercati dalla polizia, mentre altri venti sono stati arrestati.

Durante le indagini sono stati sequestrati quasi otto chili di eroina e coca destinata a Cagliari, per i quali cinque nigeriani si trovano già in carcere, e fermate due donne, accusate di tratta di connazionali reclutate in Nigeria con l’inganno e la falsa promessa di un lavoro stabile. La polizia della questura di Cagliari ha ricostruito il percorso all’inferno della prostituzione di due giovani nigeriane arrivate dalla Libia e sbarcate a Palermo e Reggio Calabria. Nei due porti italiani le ragazze sono state avvicinate da membri dell’organizzazione e avviate alla prostituzione anche nell’abitazione di una delle “maman” in Sardegna.Stessa sorte, si immagina, hanno fatto molte altre ragazze, sbarcate tra i disperati nei barconi salpati dalle coste della Libia e del Nord Africa e destinate alla prostituzione di strada.

Dalle intercettazioni ambientali, faticosamente tradotte dai vari dialetti parlati dagli indagati, emerge che nella cellula sarda i rapporti fra gli affiliati erano tutt’altro che rose e fiori. I litigi interni erano talmente preoccupanti da indurre il «grand ibakà» a venire in Sardegna da Padova per calmare gli animi.

Motivo di nervosismo nella “Calypso Nest” era stato anche un episodio avvenuto non lontano dalla questura di Cagliari, dove una donna nigeriana che chiedeva l’elemosina era stata aggredita da un membro del clan mafioso. L’iniziativa del singolo, che probabilmente voleva marcare il territorio in materia di accattonaggio, non era piaciuta al resto della cellula sarda, preoccupata che potesse attirare l’attenzione della polizia, come, infatti, è avvenuto. Ogni affiliato era obbligato a versare periodicamente somme di denaro prestabilite, non solo per gli scopi della cellula sarda, ma anche per finanziare la “casa madre” nigeriana. I soldi - hanno riferito gli inquirenti della questura cagliaritana che hanno coordinato l’indagine - servivano anche per garantire immediata assistenza legale in caso di fermi o arresti e sono stati puntualmente utilizzati anche in occasione dei provvedimenti eseguiti oggi, a beneficio di uno dei capi.

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