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«Così gli immigrati integrati rischiano di tornare in strada»

Un gruppo di avvocati trevigiani denuncia gli effetti del decreto sulla sicurezza A farne le spese i migranti con casa e lavoro in attesa della Protezione

Elena Grassi
2 minuti di lettura



Matar lavora come guida in uno dei musei più prestigiosi della città, Ousman si sveglia ogni mattina all’alba per raccogliere il radicchio trevigiano, Tamsir è operatore di cucina in un noto ristorante e Ebrima si occupa di logistica in una ditta che fa scale. Sono quattro esempi, tra i tanti, di integrazione virtuosa di quattro profughi che dal Gambia sono arrivati a Treviso, scappando dalle persecuzioni di una dittatura, hanno imparato l’italiano e hanno trovato un lavoro regolare e dignitoso. A parte Matar, che ha appena ottenuto il permesso di soggiorno umanitario, proprio per il suo impiego alle “Gallerie delle Prigioni” di Benetton, tutti gli altri sono in fase di ricorso, perché dopo il rigetto della Commissione territoriale per lo status di rifugiato, in virtù della loro integrazione, potrebbero anch’essi avere la protezione umanitaria. Protezione umanitaria che però il decreto sicurezza ha cancellato, lasciando un “vuoto giuridico” dalle conseguenze controverse. «Il decreto, in vigore dal 5 ottobre scorso», spiega l’avvocato Michela Nieri, «non ha valore retroattivo, quindi i richiedenti asilo che hanno già intrapreso un ricorso possono ancora beneficiarne, ma la riforma acuisce la già grande difficoltà che sempre più spesso, ultimamente, riscontro nell’ottenere da parte dei richiedenti questo tipo di protezione». Nieri assiste infatti diversi immigrati, tra cui Ousman, che lavora nelle piantagioni di radicchio. «La protezione umanitaria», continua l’avvocato, «è sostituita nel decreto da un “permesso speciale” per vari motivi, tra cui cataclismi, cure mediche o atti di eroismo, mentre il lavoro e l’integrazione non vengono riconosciuti. Ousman è in Appello, e se gli venisse negata la richiesta, avrebbe due possibilità, o la cassazione con costi esorbitanti, o la strada, perché senza accordi con il Paese d’origine i profughi non possono essere rimpatriati e restano qui senza documenti».

Ai gambiani fuggiti dal regime autoritario di Yaya Jammeh, oggi viene spesso negato lo status di rifugiato in quanto dal gennaio 2017 è cambiato il presidente e quindi, pur nell’instabilità politica del Paese, non sussistono più le stesse condizioni della partenza. Da qui la richiesta della protezione umanitaria che tiene conto, in molte sentenze, dell’integrazione nella comunità. «Chi sa l’italiano e ha un lavoro», conclude Nieri, «dovrebbe poter restare, perché è una risorsa del territorio: ho depositato in tribunale molte lettere di datori di lavoro che si impegnano ad assumere a tempo indeterminato il richiedente asilo se ottenesse il permesso».

Tamsir e Ebrima, 30 anni, in Italia dal 2016, hanno conseguito la licenza media, fatto volontariato e lavorato in molti settori, approdando il primo in un frequentato ristorante sopra un cinema multisala alle porte di Treviso, e il secondo in una fabbrica a Casier dov’è stimato da titolare e colleghi. Entrambi attendono l’esito del ricorso. «Il permesso per motivi umanitari», spiega il loro legale Isabella Arena, «tutelava la persona come tale, permettendo alla Commissione e al Tribunale, di adeguare la rigidità della norma sugli ingressi al singolo caso, valutando anche i riflessi di una decisione di rigetto sulla vita attuale del richiedente asilo. A seguito dell’abrogazione, dovremo fronteggiare una situazione in cui molte persone, pur essendo, in virtù dei valori fondanti la nostra società, meritevoli di un permesso, si troveranno in un limbo senza fine, degli eterni richiedenti». —

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