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. LIGURES Rivista di Archeologia, Storia, Arte e Cultura Ligure Istituto Internazionale di Studi Liguri Bordighera 2010 8 . LIGURES, 8 (2010) Proposte di aggiornamento sulla produzione pittorica dei Biazaci e del giovane Pietro Guido da Ranzo: la “Vergine dell’uccellino” di Pietrabruna 1 STEFANO G. PIRERO Alla comunità di Pietra bruna , a lla mia terra 1. L’OPERA Racchiusa entro la cornice massiccia e archiacuta del lunotto che sormonta l’architrave del portale maggiore della chiesetta cimiteriale di San Gregorio Magno (XI-XII secolo circa), antica parrocchiale del paese di Pietrabruna, sopravvive in condizioni avvilenti una “sacra conversazione” ad affresco della fine del Quattrocento2. Il dipinto, ridotto a un vero lacerto pittorico a causa della prolungata esposizione cui venne obbligato dal dicembre del 1983, si risolve attualmente in alcune sinopie frammentarie appena ravvivate da rade tracce policrome (fig. 1). Se non fosse per una preziosa fotografia di Franco Ferrero, eseguita agli inizi del nuovo millennio forse in seguito a un eccezionale intervento di restauro della pellicola pittorica, sarebbe un’impresa ardua intraprendere un qualsiasi discorso identificativo e attributivo dell’opera. Nella fotografia – l’unica di una qualità rintracciata da chi scrive –, infatti, le figure altrimenti evanescenti dell’affresco assumono una maggiore definizione e pregnanza di colori (fig. 2). Sulla sinistra è il santo titolare abbigliato di tutto punto. Un pesante piviale rosso bruno dalle profilature ocra, assicurato al petto per mezzo di una fibbia ovale, gli ricopre le spalle per ricadere ai lati secondo un panneggio che s’intuisce elementare e stereotipato. Sotto al mantello, una tunica di colore bianco dalle tonalità spente e dalle pieghe fitte e sottili, stretta alla vita da un sobrio cordone, ne riveste il corpo solido avvolgendo il collo in morbidi sbuffi. Il volto di sa n Gregorio, ben ancorato alle spalle, appare rigidamente squadrato e i lineamenti incisi nell’epidermide, come intagliati nel supporto lapideo. Il mento, le guance e gli zigomi, il profilo del naso e delle arcate sopraccigliari, persino le rughe della fronte rivelano un tratto deciso e marcato, che riesce ancor più accentuato grazie all’utilizzo di un forte contrasto chiaroscurale. Infine, nella mano destra, adesa lungo la vita, il santo stringe un lembo del piviale a trattenere, forse, la sagoma di un oggetto (un libro?) irrimediabilmente svanito, mentre nella sinistra, di bianco inguantata come la gemella, impugna la lunga asta di un pastorale che, 1 Il presente saggio traduce alcune riflessioni inerenti un episodio, quello artisticamente più pregnante, connesso all’esistenza formale – artistica e architettonica –, oltre che culturale, della chiesetta medioevale di San Gregorio Magno a Pietrabruna. Sono pertanto molto grato alla dott.ssa Daniela Gandolfi, all’Istituto Internazionale di Studi Liguri e a tutto il comitato scientifico della rivista “Ligures” per l’opportunità concessami nel pubblicare una porzione significativa delle ricerche svolte in occasione della mia ultima tesi di laurea. 2 Circa la cronologia dell’antica parrocchiale di Pietrabruna, basti qui ricordare che a una prima “ca pella ” monoabsidata di epoca romanica (ultimi anni ca. dell’XI-primo quarto del XII secolo), si aggiunse, a Duecento inoltrato, un piccolo vano rettangolare che comportò la demolizione della facciata primitiva e un prolungamento in direzione ovest dei muri perimetrali, col fine di espandere lo spazio dell’oblungum e creare una nuova navata; nella seconda metà del Trecento o, al più tardi, entro il primo quarto del XV secolo, la facciata dugentesca venne ingentilita grazie all’innesto di un portale dalle forme gotiche. La decorazione pittorica del lunotto, intervenuta alla fine del Quattrocento (1481), precedette una serie di importanti rimaneggiamenti volti, tra Cinque e Seicento, a sopraelevare la quota della navata e dell’abside, a rinnovare secondo l’imperante gusto barocco la struttura dell’altare maggiore e del catino che lo contiene e, infine, ad addossare alla muratura eterogenea di facciata la campata rettangolare di un porticato il quale, purtroppo, è crollato nel dicembre del 1983 (per un sintetico inquadramento dell’edificio si rinvia, soprattutto, a LAMBOGLIA 1970, pp. 52-53; ID. 1986, pp. 116-117; e CERVINI 1994, p. 30). 135 STEFANO G. PIRERO Fig. 1 - PIETRABRUNA, Chiesa di San Gregorio. Ma donna col Ba mbino fra i sa nti Gregorio Ma gno e Ma tteo, condizioni attuali. al pari della tiara, lo qualifica come papa. Al centro si staglia il gruppo della Vergine in trono con il Ba mbino. La Madonna è il ritratto di una giovane madre dall’espressione dolce, composta e serafica, il cui sguardo appare velato da una nota di mestizia, quasi un triste presagio della sorte toccata al proprio Figliolo. L’ovale del volto è descritto da una linea sottile e affilata, che si addolcisce in corrispondenza del mento facendosi morbida e smussata. I tratti somatici, allo stesso modo, non possiedono più quella durezza e quella tensione che caratterizza il pontefice, ma riescono delicati anche per via di un uso più misurato dei rialzi cromatici. Il viso, cui le abrasioni del film pittorico conferiscono un pallore lunare, risulta inquadrato da una chioma fluente di capelli biondi che, trattenuti a stento dal cappuccio del manto, sfuggono in trecce di diversa lunghezza a sfiorare l’orecchio e ad accarezzare il collo esile e sottile. Al di sopra del lobo, evento inatteso, si riconosce una macchia di colore ben individuata, forse la figurina sbiadita di un picchio dal piumaggio scuro che pare aver fermato in questo punto il proprio volo. La Vergine “dell’uccellino” appare semplicemente fasciata da una tunica rossa, affatto priva di fronzoli o motivi decorativi, e da una veste color panna, ampia e aperta sul davanti, che le ammanta capo, spalle e braccia. Il senso di quiete profonda che pervade questa figura, a ben vedere, riverbera non soltanto dall’espressione mite e nostalgica del volto ma, anche e soprattutto, dal gesto calcolato della mano sinistra, le cui dita affusolate si distendono a scalare dolcemente nello spazio sino a racchiudere, tra pollice e indice, un oggetto di minuscole dimensioni (un seme, un fiore?). Cinto affettuosamente dalla mano destra della Madre e seduto sulle sue ginocchia, il Ba mbino, gravemente penalizzato dalle condizioni conservative dell’opera, presenta una definizione anatomica robusta ed ercolina, cui fa riscontro un disegno piuttosto rigido e rivelatore, a tutta prima, di una scarsa propensione per lo studio delle proporzioni umane. Le gambe sode, in questo senso, si distendono parallele verso destra a disporsi meccanicamente entro l’incavo prodotto dalle ginocchia divaricate della Vergine; mentre il torso muscoloso si trova bloccato tra due spalle troppo esili e compresso dalla artificiosa disposizione delle braccia, che conferiscono al corpo le movenze sincopate di una marionetta. Le mani dell’Infante, di non facile lettura, suggellano il sistema 136 PROPOSTE DI AGGIORNAMENTO SULLA PRODUZIONE PITTORICA DEI BIAZACI E DEL GIOVANE PIETRO GUIDO DA RANZO di relazioni interne alla composizione: la sinistra è descritta in atto benedicente mentre compie una rivoluzione totale verso san Matteo, che viene indicato richiamando alla memoria, per la precisa esecuzione dei movimenti, un’antica suggestione di valore apotropaico3; la destra stringe il pugno come a trattenere un oggetto sottile, forse una cordicella con la quale avvincere un secondo uccellino precocemente scomparso dal dipinto. Il volto, infine, ruotato in direzione di san Gregorio, si rivela piuttosto interessante non tanto sotto il profilo del disegno, che riprende punto la linea incisa e lievemente smussata degli altri personaggi, quanto perché sembra rivelare qualcosa del fondo neutro sopra il quale sono costruiti gli incarnati, le luci rosacee e le ombre verdastre. Conclude la rappresentazione, sulla destra, la figura orante di sa n Ma tteo, il cui volto ripropone le forme più delicate, il sistema chiaroscurale e la medesima profondità di sguardo della Vergine che, in questo caso, si tinge di estatica ammirazione. Della veste rosso bruno che ne ricopriva il corpo, ormai, non si coglie che qualche sparuto dettaglio, come l’orlatura o la linea delle maniche. Di tutto ciò che, più in generale, integrava la rappresentazione di questa come delle altre figure non rimane che la superficie a vista delle ardesie di cui è composta la trabeazione del portale maggiore e i coaguli granulosi di cemento e arriccio che ancora vi aderiscono. Il dipinto, come si vede, presenta una composizione semplice e arcaizzante, che rivela subito gli ascendenti e le suggestioni proprie di una corrente stilistica, la pittura tardogotica, che imperversò a lungo nell’Estremo Ponente Ligustico durante il corso del XV secolo e oltre. Un gusto, o meglio, una moda leziosa, colta e raffinata che, abbandonate le principali corti signorili europee e varcate le frontiere più defilate, di- venne ben presto una maniera decadente e internazionale nel cui alveo si formarono ma gistri e pictores di diverse na tiones. È agli interpreti itineranti di questa koinè – di estrazione soprattutto piemontese, lombarda e provenzale – che si rivolse una committenza vasta e perlopiù preiferica che, come quella della Pietrabruna tardo-quattrocentesca, era avvezza da tempo a misurare la propria devozione attraverso le cifre di un’arte storicamente nemica tanto delle cesure, quanto degli “scarti” o dei rinnovamenti traumatici4. È il Sa cro, e va go Gia rdinello a confermare l’identità delle figure dipinte e a informarci sulla data precisa di esecuzione dell’opera colmando, così, una lacuna altrimenti irreparabile se si tiene conto dell’estesa abrasione che caratterizza il supporto e, in modo particolare, l’architrave5. Sopra il portale, scri- 3 A rigore, il gesto dell’Infante riproduce fedelmente la posa della “mano parlante”: il gesto, iconograficamente fissato da una tradizione secolare, dell’oratore, del retore (sulle possibili sfumature simboliche della “mano parlante”, quali la “mano di giustizia” o la “mano di Dio”, si rinvia a FRUGONI 2010, pp. 67-86). Questi, cioè, istituisce con san Matteo un dialogo muto, consacratorio, oltre che benedicente. Di passaggio, si vuol qui segnalare anche una ulteriore, per quanto ipotetica, variante semantica di natura “magico-superstiziosa” legata alla “mano parlante”: il gesto, infatti, veniva eseguito in funzione anti-demoniaca – principalmente contro le iatture e il malocchio – già da antichissima data e figura, ad esempio, su una tavoletta romana del I sec. d. C., già nei depositi del Vaticano, o su una terracotta coeva del Louvre. Certo, non si può escludere l’eventualità che le dita tese orizzontalmente della mano fungessero da punto d’appoggio per un secondo uccellino, in ossequio a una tradizione iconografica piuttosto assodata che ritorna, ad esempio, nella cosiddetta Ma donna dei Greci di Santa Maria delle Vigne a Genova, opera “circa 1475” di Giovanni Mazone, nel Polittico Della Rovere, firmato da Vincenzo Foppa nel 1490 e completato da Ludovico Brea, o nella grande ancona canavesiana della Ma donna col Ba mbino e sa nti della Galleria Sabauda di Torino, datata 1491 (in merito alla prima opera si rinvia ad ALGERI 1991, pp. 287, 288 e 291; per la pala roveresca cfr. CASTELNOVI 1987, pp. 82 e 84; ALGERI 1991, pp. 361 e 364; e SISTA 2006, p. 94; mentre sul polittico canavesiano cfr. quanto esposto in NATALE 1996, pp. 40-45). Che a Pietrabruna si palesi il rigurgito tardo e tenace di una cultura pagana o, se si preferisce, apotropaica mai completamente sopita? Difficile sostenerlo. Di certo, come avviene per la “mano parlante”, anche “questo gesto che allontana il male – scrive P. Veyne a proposito dell’affresco “dei Misteri” di Pompei – diverrà la benedictio latina” (VEYNE 2000, p. 292 nota 196). 4 Per una sintetica ed esauriente contestualizzazione storicoartistica del Quattrocento nell’Estremo Ponente Ligure si rimanda, in particolare, a CALDERA 2005, pp. 18-22, cui peraltro si farà ancora richiamo nel corso della trattazione. 5 In realtà, al centro dell’architrave che sorregge la lunetta gotica sembra quasi possibile scorgere le lettere rosse di una iscrizione ridotta ormai al grado di semplice sigla: “lux” (“lusc”) o, forse, “bux” (“busc”; “buscha”?). Fig. 2 - Ma donna col Ba mbino fra i sa nti Gregorio Ma gno e Ma tteo (fotografia Franco Ferrero, 2000-2001). 137 STEFANO G. PIRERO veva il canonico Ambrogio Paneri, “dipinte si veggono le Ima ggini di N. Sig.ra s. Gregorio, e di s. Ma ttheo col 1481 die ultima februa rii”6. Manca, purtroppo, l’indicazione degli autori che eseguirono il dipinto. A quell’epoca, con ogni probabilità, l’epigrafe che si dispiegava lungo il margine inferiore dell’architrave doveva presentarsi già parzialmente mutila7. L’opera, si diceva, presenta uno schema compositivo piuttosto elementare e alquanto diffuso nel XV secolo. Si tratta di una “sacra conversazione” i cui i personaggi, rappresentati a figura intera, si dispongono a mutuo dialogo secondo una precisa trama di relazioni i cui significati restano affidati alla mimica e alla gestualità dei corpi. Se si prescinde dalla scelta degli autori, curiosa e alquanto insolita, di collocare un uccellino in corrispondenza del capo della Vergine – l’eventuale esistenza di questo suggestivo particolare, beninteso, rimane tutta da verificare –, l’affresco, sotto un profilo strettamente iconografico, segue una traccia altrettanto consolidata. Il motivo dell’uccellino tenuto prigione nel pugno del Bambino, o a questi legato per mezzo di una sottile cordicella, metafora ad un tempo dell’anima umana e di Cristo, compare già da diverso tempo in ambito ligure8. Lo si può già incontrare, ad esempio, in alcune opere di Taddeo di Bartolo ascrivibili all’ultimo scorcio del Trecento e, in maniera regolare, nella produzione artistica derivata, negli epigoni, nei pittori più conservatori, e in alcune felici interpretazioni di Niccolò da Voltri che, come il maestro senese e Barnaba da Modena prima di lui, divulgò ampiamente la propria maniera nell’Estremo Ponente9. Il tema, che a Pietrabruna s’intuisce a fatica, ritorna puntualmente in diversi artisti attivi intorno alla metà del XV secolo, che ripresero, talvolta variandolo, lo schema elaborato dal maestro voltrese nella tavola di N. S. di Finalpia10. Appare di maggior significato, alla luce degli sviluppi artistici che caratterizzano l’arco ligure occidentale, constatarne la presenza in un ciclo di affreschi conservato presso la chiesa della Montà a Molini di Triora e datato al 1435, opera autografa di Antonio da Monregale11. L’atmosfera preziosa e rarefatta che permea la composizione non a caso è la medesima che, fecondata da una migrazione ininterrotta di frescanti operosi lungo le rettrici che dalle Alpi Marittime portavano al mare, perdurerà a lungo nei centri dell’entroterra e costieri. Al pari del maestro monregalese, l’educazione artistica della bottega attiva a Pietrabruna va certamente ricondotta nel seno di quella temperie internazionale cui si è fatto cenno, e all’interno della quale si è venuto a precisare anche il senso, il significato – e le potenziali varianti semantiche – del gesto 6 Cfr. Sa cro, e va go Gia rdinello, ms. cart., ADA, f. 327 r. 7 Se la data di esecuzione dell’opera riportata dal cronista è esatta, come sembra – e non v’è ragione per pensare al contrario, poiché anche lo stile depone in suo favore –, vien da chiedersi come abbia fatto a resistere, a sopravvivere in condizioni dignitose per circa un secolo e mezzo e, soprattutto, di quali forme di manutenzione abbia goduto. La costruzione del porticato rettangolare che riparava l’affresco sino a pochi decenni fa, infatti, risale al principio del XVII secolo e dovette protrarsi per qualche tempo se lo stesso Giardinello non soltanto non ne fa alcun cenno, ma riferisce genericamente di come l’edificio fosse allora in corso di ristrutturazione (“ch’a l presente si fa brica ”, cfr. Sa cro, e va go Gia rdinello, op. cit., f. 327 r.). Sembra più logico dedurre che la pellicola pittorica, durante questo lasso temporale, sia stata oggetto di una qualche forma di protezione, pur elementare, quale poteva essere un telo processionale dipinto a mo di gonfalone, se non proprio di un metodico intervento di restauro. 8 Per uno sguardo sul ruolo simbolico ricoperto dai volatili, e specie dal cardellino, all’interno dell’iconografia cristiana si rinvia a SCHMIDT 1988, p. 30 e HALL 2003, p. 266. 9 Si veda la tavola firmata da Barnaba da Modena per la cattedrale di Ventimiglia, ascrivibile agli anni ottanta del XIV secolo, e il trittico dislocato preso il Museo di Sant’Agostino a Genova (cfr. CASTELNOVI 1947, pp. 3-4; ROSSETTI BREZZI 1986, pp. 37-39; PESENTI 1987, pp. 50 e 56; ALGERI 1991, pp. 22-23; ROSSETTI BREZZI 1996, pp. 16-21 e il recentissimo ALGERI 2011, pp. 205-231); su Taddeo di Bartolo, autore intorno al 1397 di un’ancona con il Ba ttesimo di Cristo per la Colleggiata di Triora e di altre tavole in cui ritorna il motivo dell’uccellino, e i suoi epigoni cfr. ROSSETTI BREZZI 1986, pp. 39-40; PESENTI 1987, pp. 57-60 e ALGERI 1991, pp. 34-55; EAD. 2011a, pp. 265-276. Il tema diviene quasi una costante con l’avvento di Niccolò da Voltri e dei suoi estimatori, comparendo stabilmente in una gran copia di opere sparse fra Nizza, Sanremo, Albenga e Savona (cfr. ROTONDI 1951, p. 32; ROSSETTI BREZZI 1986, p. 40; PESENTI 1987, pp. 60-67; ALGERI 1991, pp. 55-70; e ancora EAD. 2011a, pp. 276-280). 10 Per la tavola finalese, dove il Bambino sorregge con l’indice della mano sinistra un mite uccellino, si veda UGO 1950, pp. 18-19 e ALGERI 1991, pp. 63-68; in merito alla risonanza iconografica del tema nelle opere di produzione o di provenienza genovese – basti ricordare, su tutti, il trittico di devozione privata di Donato de’ Bardi ora al Metropolitan di New York, il polittico firmato da Giovanni di Pietro da Pisa nel 1423 ora all’Hearst Castle di San Simeon e lo scomparto erratico del Musée du Petit Palais di Avignone eseguito da Turino Vanni durante il soggiorno genovese – cfr. ROSSETTI BREZZI 1983, p. 8; CASTELNOVI 1987, pp. 73-79; NATALE 1987, pp. 15-25 e ALGERI 1991, pp. 69, 70, 80, 82, 87, 89, 130-138; per una rivisitazione critica della produzione di Donato de’ Bardi, si segnalano i più recenti contributi di Massimiliano Caldera in CALDERA 2005, pp. 8-12 e ID. 2006, pp. 83-120. 11 Per una bibliografia ragionata su Antonio “de Montis Rega lis”, già operante tra il 1426 e il 1428 nell’oratorio della Annunziata di Porto Maurizio, si veda DE NEGRI 1974, p. 324; ID. 1975, pp. 85-93; ROSSETTI BREZZI 1985, pp. 10-13; CASTELNOVI 1987, p. 79; NATALE 1987, pp. 15-16; ALGERI 1991, pp. 138-142; ROSSETTI BREZZI 1996, pp. 3035; GALASSI 1996, p. 209; SISTA 1999, pp. 62-64; CALDERA 2005, p. 19; e CASTELNUOVO 2006, p. 168 (scheda di Massimiliano Caldera). 2. RADICI ICONOGRAFICHE E MATRICE ICONOLOGICA DI UNA PITTURA DEVOZIONALE: IL GESTO DELLA “PROMISSIO” 138 PROPOSTE DI AGGIORNAMENTO SULLA PRODUZIONE PITTORICA DEI BIAZACI E DEL GIOVANE PIETRO GUIDO DA RANZO Fig. 3 - GENOVA-QUARTO, Santuario della Madonna della Castagna. Andrea de Aste, Ma donna col Ba mbino (da ALGERI, DE FLORIANI 1991). Fig. 4 - PORTOVENERE, Chiesa della Madonna delle Grazie. Andrea de Aste, Ma donna col Ba mbino (da ALGERI, DE FLORIANI 1991). simbolico che identifica la Vergine dell’uccellino. Un movimento, o meglio, una formula grafica suggestiva, e certo efficace nel rapire l’occhio di chi osserva e nel costruire dal di dentro lo spazio della rappresentazione, dettandone i ritmi lenti e compassati, e rivendicando alla mano il “primato” che le compete12. Il gesto, gentile e aggraziato con cui la Madonna di Pietrabruna congiunge indice e pollice della mano sinistra a trattenere un minuscolo oggetto, forse un chicco di grano con cui ammansire un uccellino, rappresenta, poi, uno stilema caro ai pittori alpini e “ultramontani”13. Lo si può già rintracciare, ad esempio, in una pregevole ancona del 1400 circa come la Ma donna delle ciliegie, opera del Maestro di Valmanera, in una coppia di tavole alquanto problematiche del connazionale (?) Andrea “de Aste”, databili intorno al 1424, o, ancora, nel pannello centrale di un polittico conservato presso la Galleria Sabauda di Torino che porta la firma dall’alessandrino Giovanni Pitterio14 (figg. 3-4). Il favore incontrato dal motivo in area pedemontana durante i primi decenni del Quattrocento contagia, pur con una lieve sfasatura temporale, anche i principali centri medioevali dell’Occidente Ligure. Lo 12 Si veda CHASTEL 2002, p. 30. 13 Sulla simbologia del Cristo come “pane della vita disceso dal cielo” (Gv. 6, 51) o come “chicco di grano che deve cadere in terra per produrre molto frutto” (Gv. 12, 24) cfr. SCHMIDT 1988, p. 254. 14 A rigore, la Madonna – così denominata per via del grosso cesto di ciliegie che figura a fianco del Bambino –, esegue il gesto con il pollice e il medio, fra i quali trattiene un ramoscello di ciliegie. Nella sua accezione di promissione e di vincolo nuziale, come 139 STEFANO G. PIRERO si può riconoscere in nuce, tra gli anni ’50 e ‘60 del secolo, nella Vergine col Ba mbino e sa nti che decora la nicchia d’altare dell’antica cappella del palazzo vescovile di Albenga (fig. 5), opera ascritta al Maestro di Lucéram (Giovanni Baleison?), o nel santuario del Ss. Salvatore di Baiardo, dove è custodito un polittico si- glato nel 1465 dal pavese Francesco da Verzate, attento conoscitore dei modelli in voga nell’Albenganese15. Giovanni Canavesio, al contrario, lo utilizza in una forma pienamente evoluta all’interno della cuspide centrale del polittico taggiasco “circa 1472” dedicato a Sa n Domenico e i Dottori della Chiesa , nel quale si dimostra memore, se non proprio debitore, degli spunti elaborati dal M. di Valmanera (fig. 6). Infine, in San Lorenzo a Murialdo, verso gli anni ’80 del Quattrocento, il Maestro di Roccaverano ne propone la variante più nota e familiare ai frescanti di Pietrabruna e, in generale, alla nutrita schiera di pittori monregalesi e saluzzesi che, almeno sino ai primordi del Cinquecento, partecipano alle imprese decorative avviate tra la Val Bormida e le Langhe16. I riferimenti e i precedenti iconografici disponibili su scala locale e regionale, come si vede, non mancavano di certo. Essi, tuttavia, convogliavano anche tutta una serie di significati simbolici che, pur cristallizzati in una formula canonica all’epoca della realizzazione del nostro affresco, facevano richiamo ai valori insiti nella promessa nuziale che i fidanzati del Basso Medioevo sancivano, e spesso identificavano, attraverso lo scambio dell’anello, della fede. La preminenza riservata al gesto della Vergine di Pietrabruna, in questo senso, non discende unicamente da una mera scelta di gusto, o dal favore accordato a un vezzo di gran moda. Dietro di essa si cela un simbolismo preciso, che sostanzia la dottrina cristiana di cui è imbevuto l’affresco e che consegna alla Madonna il ruolo di “Madre, Vergine e promessa si dirà oltre, il gesto poteva rispecchiare usi o modi differenti di calzare l’anello di fidanzamento, variabili da un contesto e da un’epoca all’altra, e quindi richiamare iconograficamente la mano sinistra o quella destra, il dito medio, il mignolo o l’anulare. Tuttavia, l’evidenza attribuita all’atto della Madonna rappresenta un sicuro termine di riferimento e un modello non solo per il soggetto del nostro affresco, ma per intere generazioni di artisti piemontesi (su quest’opera, conservata nella parrocchiale di Viatosto in provincia di Asti, si veda ROSSETTI BREZZI 1996, pp. 27-30; per i rimandi simbolici della ciliegia come frutto del Paradiso cfr. HALL 2003, p. 266). Anche la Vergine raffigurata sopra l’unica tavola firmata da Andrea “de Aste”, che si conserva presso il santuario di S. M. della Castagna a Genova-Quarto – al pari della Ma donna “delle Gra zie”, conservata presso l’omonima chiesa di Portovenere e attribuita felicemente a questo maestro –, riproduce il medesimo gesto simbolico della gemella di Pietrabruna (su questo pittore cfr. ROSSETTI BREZZI 1983, pp. 6-8; CASTELNOVI 1987, pp. 73-74; ALGERI 1991, pp. 116-123; ROSSETTI BREZZI 1996, pp. 26-27 e CALDERA 2005, p. 10); in merito al polittico frammentario della Galleria Sabauda di Torino cfr. ROMANO 1996, pp. 112-117. 15 Il profilo biografico del Maestro di Lucéram, così come l’attribuzione di un discreto corpus di opere – in cui spicca la decorazione parietale della cappella vescovile di Albenga, ascrivibile tra il 1459 e il 1466 – che, a partire dalle proposte formulate da Giuliana Algeri (cfr. ALGERI 1991, pp. 201-214), una parte della critica gli ha attribuito, restano tuttora molto dibattuti (si segnalano, qui, alcune analisi condotte in controtendenza da Alfonso Sista sulla Annunciazione di Andagna, opera assegnata ultimamente all’ambito di Tommaso Biazaci, e su alcuni affreschi sparsi tra Ponente, Basso Piemonte e Nizzardo, cfr. SISTA 2005, pp. 41-45; ID. 2007, pp. 97 e 98 e il più aggiornato ID. 2009, pp. 101-108). L’orientamento critico prevalente, tuttavia, rileva nelle opere dell’anonimo nizzardo la mano di un giovane Giovanni Baleison, pittore da Demonte (cfr. ROSSETTI BREZZI 1983, pp. 20, 27 e 28 nota 43; ID. 1985, pp. 24-25; CASTELNOVI 1987, p. 118; NATALE 1987, p. 25; CERVINI 2004, pp. 9296; CALDERA 2005, p. 21 e NATALE 2006, pp. 412 e 413 – scheda di Massimiliano Caldera). In merito al polittico della Madonna col Bambino e santi di Baiardo, in cui, occorre dirlo, il gesto rimane a uno stadio potenziale, cfr. NATALE 1987, p. 18 e ALGERI 1991, pp. 253-256. 16 La Vergine fiamminga che Giovanni Canavesio dipinse nel 1472 sulla cimasa del polittico commissionatogli da Edoardo Reghezza – opera destinata alla cappellania fondata in quell’anno nel convento domenicano di Taggia – porge un ramoscello di ciliegie al proprio Figlioletto mediante un gesto perfettamente sovrapponibile a quello proposto dal M. di Valmanera. Non solo, anche in questo caso compare in bella vista un cesto di duroni, e le citazioni sembrano tanto puntuali da far pensare a una conoscenza diretta della pala astigiana (su questo polittico cfr. CASTELNOVI 1987, pp. 119 e 121; ALGERI 1991, pp. 331 e 333 e NATALE 1996, pp. 40-44). Il Maestro di Roccaverano risulta operoso intorno al 1481 all’interno della chiesa di San Lorenzo a Murialdo, sita nell’entroterra savonese, il cui archivolto del portale reca un Fig. 5 - ALBENGA, Museo Diocesano. M. di Lucéram (G. Baleison?), Vergine col Ba mbino fra i Sa nti Giova nni Ba ttista e Michele Arca ngelo. 140 PROPOSTE DI AGGIORNAMENTO SULLA PRODUZIONE PITTORICA DEI BIAZACI E DEL GIOVANE PIETRO GUIDO DA RANZO Sposa” del Figlio che sorregge in grembo. A rigore, il motivo non rappresenta un attributo esclusivo della figura femminile. Nel corso del Medioevo il gesto “dell’anello” ha spesso qualificato personaggi e vicende narrative diverse rispetto alla versione, più schematica e collaudata, adottata a Pietrabruna. In una scena ad affresco della cappella della Maddalena a Sant’Antonio di Ranverso, decorata negli anni ’90 del XIV secolo con storie della santa attribuite “tentativamente” a Pietro da Milano, un cavaliere elegantemente abbigliato si rivolge all’indietro verso alcuni astanti dall’aria perplessa e stupita, accennando drammaticamente con la mano destra al gesto in esame17. L’atto, nello specifico, non rimanda certo alle virtù o ai momenti portanti del cerimoniale di nozze, ma supplisce efficacemente alla mancanza di un eventuale filatterio esplicativo, i cui svolazzi avrebbero potuto guastare la percezione e il godimento generale dell’evento narrato. Esso, insomma, “viene ad accompagnare, sottolineandoli, gli elementi della discussione”18. Come ribadito da Chiara Frugoni, questo gesto fa la sua comparsa almeno dalla metà del XIV secolo, e trae origine dalla più antica formula iconografica del computo digitale, ovvero dall’atto dell’enumerare, per giungere a simboleggiare l’atto della conversazione, della esposizione verbale, della “disputa tio”19. Verso lo scadere del secolo, tuttavia, il gesto amplia il proprio spettro semantico per effetto di una interferenza via via crescente, e certo in atto da tempo, che giunge dal rituale laico, privato e mondano del matrimonio medioevale, e in particolare dalla gestualità che ne accompagnava la stipula contrattuale. Infatti, il gesto con cui il fidanzato si apprestava a inanellare la mano della futura sposa e la posa elegante assunta dalle sue dita in quell’esatto frangente, sintesi sublime dell’oggetto, l’anello, che suggellava la promessa nuziale, rievocavano dappresso la formula della disputa tio 20. Ad ogni modo, il dato reale, l’esperienza condivisa dell’inanellamento, pur suscettibile di leggere variazioni nella forma, si sovrappose al motivo iconografico della disputa soltanto dopo un attento e cosciente processo di assimilazione. Un corso evolu- affresco con la Vergine e il Bambino fra due angioletti reggicortina, che riprende punto il gesto della Madonna di Pietrabruna (cfr. BRUNO 1982, pp. 126-145; soprattutto ALGERI 1991, pp. 268-269 e MAMMOLA 2005, pp. 210-211). La medesima iconografia, infine, ritorna in alcuni affreschi della chiesa di S. M. Extra Muros a Millesimo, dove opera il Maestro di Cosseria, nell’oratorio di Sant’Agostino a Saliceto, riconducibile alla stessa mano, o, ancora, nella cappella di San Sebastiano a Cerisola presso Garessio, in cui è attivo il Maestro di San Pantaleo; tutte pitture ascrivibili tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo (cfr. SISTA 2007, pp. 79-98). 17 Il particolare, per inciso, è tratto da un episodio frammentario raffigurante la “disputa” di Lazzaro dinanzi alle mura della città di Marsiglia (sul ciclo di affreschi in Sant’Antonio di Ranverso, si rimanda a CASTELNUOVO 1961, pp. 105-107; ID. 1979, pp. 34-51 e ROMANO 1996, pp. 112-117). 18 CASTELNUOVO 1961, p. 106. 19 Sul valore del gesto “ad anello” inteso nell’accezione primaria di “disputa tio” cfr. FRUGONI 2010, pp. 98-103 (nel saggio, la studiosa porta esempi molto interessanti del gesto scalabili tra il 1350-1360 ca. e il 1478). 20 In realtà, il circolo risultante dalla congiunzione di pollice e indice intendeva richiamare anche l’idea della morbida congiunzione coniugale, quella del bacio e dell’amplesso (la fonte più remota è Beda il Venerabile che, nel De loquela per gestum digitorum et temporum ratione, affermava: “Triginta referuntur ad nuptias; nam et ipsa digitorum conjunctio, quasi molli osculo se complectens et foederans, maritum pingit et conjugem”, p. 690, e “cum dicis triginta, ungues indicis et pollicis blando conjunges amplexu”, p. 691). Un significato che, come accaduto ad altri gesti digitali (il numero 60 è fra questi), subì fraintendimenti, prestiti e contaminazioni derivanti, di volta in volta, dal particolare metro interpretativo applicato dalla cultura in cui il gesto tornava a circolare (cfr. QUACQUARELLI 1984, pp. 2446-2448). Fig. 6 - TAGGIA, Convento di San Domenico. Giovanni Canavesio, Vergine col Ba mbino, part. del polittico di San Domenico. 141 STEFANO G. PIRERO tivo le cui coordinate storiche andrebbero rintracciate in quel fecondo dialogo internazionale che s’instaura fra le corti di Milano e Borgogna verso la fine del Trecento. È soprattutto nell’orbita di questa cultura policentrica che il gesto viene selezionato e rielaborato in modo da esprimere la natura casta della figura femminile che lo esegue, dote essenziale per una fanciulla in attesa di prime nozze, e la promessa stessa, il patto consensuale che la legava al futuro sposo. Una celebre miniatura relativa al mese di aprile (1415 ca.) contenuta nelle Tres Riches Heures del duca Jean de Berry, codice miniato a più riprese dai fratelli Limbourg e da altri maestri nordici lungo il corso del Quattrocento, elegge il gesto a formula portante del rituale di fidanzamento21. Un tema quanto mai appropriato alla stagione primaverile, che viene descritta attraverso una coppia di giovani aristocratici intenti a scambiarsi gli anelli e una promessa che la futura sposa, al pari delle dame che l’accompagnano cogliendo fiori a passo di danza, suggella mediante il gesto della disputa22. Analogamente, l’ignoto maestro bruggese che nel 1499 eseguì il Trittico di sa nt’Andrea per il genovese Andrea della Costa identifica la sposa delle Nozze di Ca na , isolata in primo piano entro il pannello sinistro, nuovamente attraverso l’atto canonico della disputa tio 23 (fig. 7). A differenza della scena che accoglie il cavaliere di Sant’Antonio di Ranverso, il contesto narrativo, qui, appare radicalmente mutato: la nobildonna non si impegna più a sostenere una conversazione quanto, piuttosto, a chiarire il ruolo che la identifica, quello di sposa silente dell’uomo che, ritto lungo il bordo della tavola, è intento a servire le commensali24. Dalla posizione capovolta elaborata dai fratelli Limbourg a quella ormai evoluta in schema dell’anonimo pittore di Bruges, la mano femminile “che disputa” alluderà spesso, durante il corso del Quattrocento, ai valori portanti della promessa nuziale. Né mancano esempi di più schietta matrice italiana, specialmente di area settentrionale. A tal proposito, conviene accennare a un dettaglio iconografico che, generalmente trascurato per via della posizione defilata, compare nel Trionfo di Venere (1470 ca.) che Francesco del Cossa dipinse nel Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara. All’interno della scena, sistemate in luogo appartato sotto al gruppo delle tre Gra zie, si notano le sagome di due giovani cortigiani intenti ad amoreggiare che, 21 Per una lettura riassuntiva e aggiornata della miniatura relativa al mese di aprile delle Très Riches Heures si rinvia a CRESPI 1988, pp. 26-29; ROELOFS 2005, pp. 254-255 e STIRNEMANN 2005, pp. 113119. 22 Per una panoramica sulla miniatura fiamminga in Liguria, e a Genova in particolare, cfr. DE FLORIANI 2003, pp. 41-46; sul codice illustrato per il duca Jean di Berry e sulle strette relazioni che lo legano all’ouvra ige de Lomba rdie si rinvia all’ancor fondamentale TOESCA 1966, pp. 172-181; CAZELLES 1988, pp. 195-229 e SCHMIDT 2005a, pp. 179-190; per una lettura del ciclo astrologico e calendariale della miniatura cfr. BOBER 1948, pp. 1-34; BELLOSI 1975, pp. 23-34; BAKKER 2005, pp. 206-207. 23 Circa il Trittico di sa nt’Andrea in San Lorenzo della Costa e per una ricognizione della pittura fiamminga in Liguria e dintorni cfr. CASTELNOVI 1987, pp. 124-128; ALGERI 1997, pp. 39-57; DE FLORIANI 1997, pp. 15-37; TRAVERSO 2003, pp. 19-31 e 113-118. 24 Sulla identità di questa figura non vi possono essere dubbi: la posizione isolata e quasi avulsa rispetto al contesto scenico, oltre a negarle ogni forma di comunicazione verbale con i personaggi vicini, le garantisce una preminenza pari, se non superiore, a quella riservata alla descrizione del miracolo operato da Cristo (la trasmutazione dell’acqua in vino); sotto allo sgabello ligneo sopra il quale è assisa, inoltre, compare una coppia di cani, simbolo per eccellenza della fedeltà coniugale; e, infine, il colore verde smaltato che ne campisce le lunghe vesti non è forse un tratto distintivo dei membri – servitori e familiari – appartenenti alla dimora dello sposo? Fig. 7 - SAN LORENZO DELLA COSTA (Santa Margherita Ligure), Chiesa parrocchiale. Anonimo bruggese, Nozze di Ca na , part. del trittico. 142 PROPOSTE DI AGGIORNAMENTO SULLA PRODUZIONE PITTORICA DEI BIAZACI E DEL GIOVANE PIETRO GUIDO DA RANZO per la comparsa indicativa del gesto, si potrebbero definire novelli fidanzati, o promessi sposi. Certo, si potrà obiettare che il movimento viene eseguito dalla mano dell’uomo e non già dalla dama, la quale è impegnata con atto pudico a porre un freno alle a va nces insistite di cui è fatta oggetto. Lo stesso motivo, tuttavia, ritorna in un ritratto che Rogier van der Weyden eseguì verso i primi anni ’60 del XV secolo per Francesco (“fra ncisque”) d’Este, una delle ultime opere del maestro. Anche qui, la mano destra del “marchese” richiama il gesto che sarà proprio del cortigiano dipinto dal Cossa, a eccezione di un singolo, emblematico supplemento: fra le punta delle dita compare un anello sormontato da un grande rubino. Un dono prezioso, che Francesco potrebbe aver conquistato giostrando in occasione del Pa s del l’Arbre d’Or tenuto nel 1468 ma che, data la posizione simbolica, potrebbe anche rinviare a un contesto nuziale diverso rispetto a quello in cui si svolse la grande lizza di Bruges25. Nell’affresco ferrarese, in mancanza dell’attributo più qualificante, le dita dell’amante scivolano lungo la spalla della fanciulla aderendo all seno come una spilla, come un decoro applicato che le riconsegna virtualmente il primato di un gesto, una formula, che l’artista ha modellato secondo i canoni vigenti alla corte estense senza modificarne la sostanza simbolica26. Il gesto della “promissio”, insomma, chiarisce come tutto, fra la dama e l’innamorato senza volto, si stia svolgendo entro i limiti leciti di un gioco cortese. Del resto, alla luce del modello proposto dai fratelli Limbourg all’inizio del secolo, il motivo non poteva che comparire all’interno di una scena ideata per illustrare il trionfo di una divinità, Venere, che presiedeva al mese di aprile e alla stagione degli amori. Il rituale medioevale dello sposalizio, in Italia come Oltralpe, risultava scandito da una serie di passaggi simbolici. Gradi che, a partire dal Due – Trecento e sino all’epoca della Controriforma, si riassumevano generalmente nella stipula del “consensus”, attraverso la giunzione delle mani destre degli sposi novelli (“dextera rum iunctio”), nello scambio dell’anello (“ina nella tio”), nella solenne celebrazione liturgica del patto e, quindi, nel definitivo trasferimento di residenza della sposa, dalla casa paterna a quella del futuro marito27. Durante questo lasso temporale, il rito raramente veniva scandito dal tempo consacrato della Chiesa. Esso, al contrario, tendeva a sottrarsi al controllo delle autorità ecclesiastiche, che all’unisono con gli statuti comunali si facevano latori di proteste e divieti contro una pratica ormai dilagante, per decidersi giuridicamente soprattutto in ambito privato (“extra ia nua ecclesia e”) 28. Sintomatico, in tal senso, il caso del mercante toscano Gregorio Dati il quale, tra il 1388 e il 1421, convolò a nozze per ben quattro volte seguendo procedure e tempistiche alquanto variabili29. Il gesto della giunzione delle mani e, in misura via via prevalente a partire dal Quattrocento, della consegna dell’anello divennero nell’uso comune l’atto essenziale e costitutivo della cerimonia di nozze30. Ciò era dovuto alla concezione dell’anello 25 Per una lettura approfondita della superba e problematica tavola del Metropolitan Museum di New York resta ancora valido il richiamo a KANTOROWICZ 1940, pp. 166-176; cfr. anche BAUMAN 1986, pp. 38, 39, 41-42 (cui si rimanda anche per la lettura di un altro straordinario “ritratto-modello”, il Ja n de Leeuw dipinto nel 1436 da Jan van Eyck, pp. 35-36); CAMPBELL 2002, p. 696. 26 Per una lettura iconologica del celebre ciclo di affreschi a Palazzo Schifanoia si rinvia alla fondamentale relazione tenuta da Aby Warburg nel 1912 (cfr. WARBURG 2006, pp. 9-46); lo storico, tuttavia, non si è soffermato ad analizzare il particolare cui si è fatto cenno, né chi scrive è riuscito a reperirne alcuna traccia presso la critica posteriore (per una prospettiva aggiornata sul ciclo ferrarese cfr. SETTIS, CUPPERI 2007, pp. 260-269). Basti qui ricordare che, secondo Warburg, il giardino di Venere rappresentava il luogo degli “scolî illustrativi, astrologicamente utili, delle qualità mitiche della Venere cosmica”. In tempi più recenti, Deanna Shemek ha precisato come all’interno della cultura umanistica che permea il ciclo ferrarese rifluisca quella concezione dualistica delle virtù proprie del sesso femminile, che si riassume nei poli contrapposti di castità-verginità e sensualità carnale. Accezioni, queste, virtualmente incarnate dai gruppi di figure che fiancheggiano il carro di Venere: in tal senso, sulla sinistra avrebbe luogo la rappresentazione dell’amore sacro celeste e intelligibile, a destra la sua versione più profana e concupiscibile (cfr. SHEMEK 1995, pp. 30, 31 e 34). In realtà, le due sfere amorose appaiono meno nettamente distinte di quel che si potrebbe supporre. È vero, nelle figure che affollano la riva destra predomina un’aria licenziosa e al limite dell’osceno; questa, tuttavia, non risparmia nemmeno la coppia che staziona in primo piano sulla riva opposta, intenta com’è a scambiarsi effusioni d’amore – baci appassionati e abbracci vigorosi – piuttosto esplicite. L’intera scena, anzi, sembra poggiare sopra un sistema bilanciato di relazioni simboliche, che compenetra a livelli diversi i due gruppi di figure legandoli in una sorta di chiasmo, il quale più che diversificare, accomuna. Su entrambe le sponde, infatti, sbucano i conigli e abbondano i melograni, fioriscono i garofani e si fa ampio sfoggio di un repertorio assortito di strumenti musicali dalle proprietà simboliche (fertilità e fecondità). 27 Esiste una vasta bibliografia circa il rituale del matrimonio medioevale in Occidente, per brevità, qui si rinvia soltanto ad alcuni testi più attinenti: cfr. BESTA 1962, pp. 67, 87 e 126-129; WITTHOFT 1982, pp. 43-59; ARIÈS, DUBY 1988, pp. 103-111 e 237-244; BERTELLI, CENTANNI 1995, pp. 229-231 (cui si rimanda anche per ulteriori riferimenti bibliografici); sul rituale in Francia cfr. anche il fondamentale MOLIN, MUTEMBE 1974. 28 Oltre agli autori richiamati alla nota precedente si veda anche quanto illustrato in GOODY 1991, pp. 171-176. 29 Si veda GARGIOLLI 1869, pp. 15, 21, 24, 32, 35, 36, 58, 60, 61, 91-94, 97, 99 e 100. 30 Cfr. la casistica contemplata in WITTHOFT 1982, pp. 44-45, dove il termine “sposare” viene collegato alla cerimonia della consegna dell’anello; cerimonia a cui la società fiorentina del XV secolo, peraltro, giungeva a consacrare un’intera giornata di banchetti (era il cosiddetto “giorno dell’anello”) e BERTELLI, CENTANNI 1995, pp. 229-230. 143 STEFANO G. PIRERO di fidanzamento che il Basso Medioevo aveva ereditato dalla tradizione romana e, quindi, maturato alla luce delle riflessioni condotte dai Padri della Chiesa e dai glossatori altomedioevali. Se il diritto romano lo concepiva come un “pignus a moris” (Giovenale), una sorta di caparra assicurativa della “volunta s sponsilicia ”, la religione cristiana ne fece il simbolo per eccellenza della retta fede e della fedeltà coniugale, definendolo variamente “pignum pieta tis et cha rita tis” (Tertulliano), “signa culum fidei” (sant’Isidoro di Siviglia; ordo III del rituale di Évraux), “de essentia sa cra menti” (rituale di Tours) 31. La libertà che caratterizzava l’espressione laica del rituale di fidanzamento s’incontrava anche nella scelta della mano, o delle dita destinate a calzare la fede. Le fonti letterarie al pari dei documenti figurativi, infatti, attestano l’uso di entrambe le mani per il rito dell’ina nella tio. Un dito soltanto, tuttavia, prevalse nell’intento di vestire l’anello, l’anulare (“digitum minimo proximum”) 32. La ragione principale di questa affermazione, elaborata specialmente sulla ripresa di Macrobio e Isidoro di Siviglia, risiedeva nella convinzione che nell’anulare della mano sinistra convergesse una arteria sottile che traeva origine direttamente dal cuore (“vena cordis” o “vena cordia lis”)33. Insomma, il gesto della promissio, o della ina nella tio, rappresentava l’atto costitutivo, simbolico e giuridicamente convalidante, del rito nuziale praticato nelle società e nelle corti medioevali di quelle macrona tiones occidentali, di lingua francofona l’una e italofona l’altra, cui si è fatto cenno. Astratto, tuttavia, dalla sfera laica, mondana e talora clandestina che più gli appartiene, e ricondotto entro il recinto sacro della Chiesa romana, il gesto si adattava perfettamente a descrivere il modello di sposa casta e fervente da proporre alle fedeli in età da marito34. Le nozze mistiche della Madonna, Vergine per definizione, e la fortuna incontrata dal tema nuziale nella biografia di altre figure di sante, come santa Caterina, fornirono un pretesto ulteriore per accogliere la pratica dell’ina nella tio nel rito di consacrazione delle vergini35. E la prassi non fece che incoraggiare la fortuna iconografica del gesto nelle opere di soggetto religioso che, documentabili sin dalla prima metà del Trecento, crescono numerose allo scadere del secolo per moltiplicarsi lungo tutto il corso del Quattrocento. È, questo, il caso precoce di una tavola attribuita alla cerchia di Barna da Siena (1360 ca.) che si conserva presso il Museum of Fine Arts di Boston, vero manifesto della “a rs sponsilicia ” coeva36, e, in misura meno sicura, di una miniatura raffigurante sa nt’Orsola e le compa gne contenuta all’interno di un Libro d’Ore conservato presso la Bibliothèque Nationale di Parigi (ms. lat. 757), prodotto di una officina lombarda del penultimo decennio del XIV secolo37. Nella scena, la santa vessillifera viene affiancata, sulla sinistra, da una seconda vergine che si distingue per il gesto esemplare della mano sinistra col quale richiama il movimento canonico della disputa tio 38. Secondo i modi proposti a pochi anni di distanza dal cavaliere parlante di Ranverso, anche la vergine orsolina vuol sottolineare lo svolgersi di una discussione allargata, a più voci, cui prendono parte attiva le compagne aristocratiche che stazionano in primo piano39. Se sia già 31 Si rinvia a B ESTA 1962, pp. 126-127; MOLIN, MUTEMBE 1974, pp. 135-149 e 166-176; BERTELLI, CENTANNI 1995, pp. 229-230; e il più aggiornato RAPISARDA 2006, p. 176 nota 4. 32 Macrobius, nell’VII° libro dei Sa turna lia , cita la mano sinistra (XIII.8), al pari di sant’Isidoro (Etymologia rum sive Originum, l. XIX, XXXII.1), mentre, ancor più addietro, Plinio il Vecchio (Historia Na tura lis, XXXIII, VI.24-25), fa menzione dell’uso del mignolo, ricordando una pratica che continuerà ancora nel corso dell’Alto Medioevo (cfr. sempre BERTELLI, CENTANNI 1995, p. 229 e RAPISARDA 2006, pp. 177 e segg.). In Francia, fra XIII e XVI secolo, si afferma via via la formula del triplice inanellamento dell’indice, medio e anulare della mano sinistra a modello e ispirazione della Trinità (cfr. MOLIN, MUTEMBE 1974, pp. 159-171). 33 Secondo Macrobio, “nervum quenda m de corde na tum priorsum pergere usque a d digitum ma nus sinistra e minimo proximum” (Sa turna lia , op. cit.), secondo Isidoro, “a nulos homines primum gesta re coeperunt qua rto a pollice digito, quod eo vena qua eda m a d cor usque pertinga t, qua m nota nda m orna nda mque a liquo insigni veteres puta verunt” (Etymologia rum sive Originum, op. cit., XXXII.2), per ogni riferimento cfr. sempre RAPISARDA 2006, p. 177. 34 Interessanti, in proposito, le considerazioni dedicate al tema da GOODY 1991, pp. 249-259. 35 I pontificali di Mans, Metz e Saint-Amand (XIII secolo), al pari di quello lievemente più tardo del vescovo Durand de Mende, contengono nota di un cerimoniale di consacrazione delle vergini in cui era il presule a donare l’anello, ovvero a inanellare secondo la consueta formula trinitaria (“desponso te Jesu Christo, Filio Dei vivi, qui te illesa m custodia t et a d vita m eterna m perduca t. Amen”), cfr. sempre MOLIN, MUTEMBE 1974, p. 163. 36 Per la tavola del Museum of Fine Arts di Boston, datata intorno al 1460-1470, e per altri interessanti esemplari dell’epoca, anche precedenti, si rinvia a MEISS 1953, pp. 53-54; e, soprattutto, a ID. 1982, pp. 167-173 (dove l’autore delinea magistralmente la nascita, la formazione e l’evolversi della iconografia nuziale nella figura di Caterina da Siena e della omonima santa di Alessandria). 37 Una buona illustrazione della miniatura si trova pubblicata in CASTELFRANCHI VEGAS 1966, p. 79 tavola 19. 38 Per una proposta di lettura iconologica del gesto eseguito dalle compagne di sant’Orsola cfr. PASQUINELLI 2005, p. 26; sulla contestualizzazione storico-artistica della miniatura cfr. ancora TOESCA 1966, pp. 131-162. 39 Senza voler contraddire la Pasquinelli circa la sfera di significati attribuiti al “numero degli sposi”, peraltro leciti e validissimi, occorre osservare che le brevi argomentazioni prodotte a sostegno della teoria non convincono del tutto e si prestano a interpretazioni. Nella miniatura relativa alle compagne di sant’Orsola – esempio addotto nella forma sviante del ritaglio –, la dama in rosa che si rivolge alla santa non vuol comunicarle granché della propria natura casta, 144 PROPOSTE DI AGGIORNAMENTO SULLA PRODUZIONE PITTORICA DEI presente un significato di promissione coniugale in questo gesto di proferimento è cosa difficile da stabilire. Di certo, a quella altezza cronologica, l’impressione che la triade di vergini interessate dall’esecuzione del gesto potesse anche alludere al rito nuziale che le aveva unite a Cristo, evocato in nuce dalla loro stessa disposizione nello spazio, era concreta40. Dalle associazioni fortuite dell’ultimo quarto del Trecento alle forme lievemente camuffate che s’incontrano ancora verso i primissimi anni del secolo successivo, il gesto della promissio si avvia a conquistare l’iconografia delle nozze mistiche a scapito della più arcaica formula della dextera rum iunctio. Nel trittico della Pinacoteca di San Severino dedicato allo sposa lizio mistico di sa nta Ca terina , dipinto da Lorenzo Salimbeni intorno al 1400, la Madonna, che siede “umile” sopra un morbido tappeto fiorito, sostiene un lembo della veste purpurea del Bambino pizzicandolo con gesto analogo a quello della compagna orante di sant’Orsola41. Il movimento, qui, viene travestito sotto spoglie più funzionali, nondimeno è il medesimo che il Bambino, con aria compiaciuta, esegue per inanellare la propria sposa. Non si tratta di un artificio iconografico, ma di una formula simbolica giunta al suo ultimo stadio di elaborazione che ben si attaglia a descrivere la poesia cortese di questo a va nt-goût della maniera internazionale. Convince, in tal senso, il raffronto con la lastra a bassorilievo marmoreo che adorna l’ultima campata della navata destra del duomo di Milano, opera di un Gia como d’Anton(io) verso il 1396 in cui ritorna il motivo del trittico marchigiano42 (fig. 8). Anche in questo caso, la Vergine, assisa in trono e quasi isolata dal resto dei personaggi, assiste alle nozze mistiche del proprio Figlioletto accennando con la mano destra (descritta in una posa semirovesciata che ricorda molto quella ideata dai Limbourg) al gesto di promissione. La citazione è chiara, precisa e sfrondata da quegli orpelli e orpelli che compaiono in Salimbeni a mascherarne il valore simbolico. Il pronunciato verticalismo dell’opera, poi, enfatizza ulteriormente il ruolo e la posizione calcolata BIAZACI E DEL GIOVANE PIETRO GUIDO DA RANZO Fig. 8 - MILANO, Duomo. Giacomo d’Antonio, Sposa lizio mistico di Sa nta Ca terina . della mano della Vergine, distesa benevola sopra il capo dello Sposo-Infante a sottolineare il vincolo coniugale che li apparenta. Sotto questa luce, anche la formula bizantina che il Maestro di Valmanera rispolvera nella pala della Ma donna delle ciliegie assomi- amorosa o coniugale. Essa, più semplicemente, sta intrecciando le fila di un discorso che coinvolge anche le figure diafane, esili e riccamente abbigliate che la circondano: la vergine dal castigato abito rosso che, in posizione lievemente arretrata, interrompe la lettura di un libello – le cui pagine vengono pizzicate, nota interessante, nuovamente mediante il gesto della disputa tio – alzando l’indice sinistro come a domandar la parola; e, sulla sinistra, una coppia di vergini che procede a braccetto ragionando amabilmente del partito in questione. Si tratta, insomma, di una sacra conversazione, ovvero di una scena narrativa, più che di una composizione fondata sulla fusione di temi iconografici differenti. 40 A ben vedere, la composizione stessa della triade formata dalle vergini e da sant’Orsola appare costruita, se non del tutto mediata, sulla struttura base della iconografia nuziale, con i due “sposi” affrontati in primo piano e il “sacerdote” (o il notaio) lievemente discosto in posizione più arretrata. 41 Il motivo, in Salimbeni, compare anche in un vetro graffito del Museo Civico di Torino (su questo artista, sulle sue opere e per una panoramica della produzione tardo-gotica marchigiana si rinvia a BOSKOVITS 1994, pp. 233-307). 42 Per un primo inquadramento della lastra d’altare e sulla cultura cortese che l’apparenta all’attività svolta, in quel giro d’anni, nel cantiere del Duomo da Giovannino de’ Grassi cfr. ROSSI 1995, pp. 21-30, 83-111 e 141-146. 145 STEFANO G. PIRERO glia di più a una suggestiva variante, arcaica e ambivalente, che non a una reale alternativa iconografica. Il rituale privato dello scambio degli anelli che aveva luogo presso la corte sofisticata e lussuosa di Jean de Berry, reso immortale dall’opera dei Limbourg, ebbe un ruolo assolutamente decisivo nell’influenzare il campo della produzione artistica di settore. Pare che la miniatura relativa al mese di aprile delle Très Riches Heures ritragga il fidanzamento stretto il 18 aprile 1410 tra Bona d’Armagnac, nipote di Jean de Berry, e il duca Carlo d’Orleans o, meno probabilmente, la promessa stipulata nel 1400 tra Maria de Berry e Jean de Clermont43. Quale che sia l’identità dei personaggi ritratti, l’opera divenne un modello universalmente riconosciuto per stile e iconografia. Fissato il prototipo, le riprese si fecero subito numerose. È il caso, su tutti, della tavola dedicata, ancora una volta, allo sposa lizio mistisco di sa nta Ca terina conservata presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna, opera del Maestro di Heiligenkreuz, dove freschissimo è il ricordo della lezione impartita dai fratelli Limbourg44. Anche in Italia, tra primo e secondo quarto del XV secolo, gli interpreti più felici che si abbeveravano, direttamente o per via di mediazione, a quella cultura aristocratica non esitarono a cimentarvisi. Risalgono alla prima metà degli anni Venti le tavole ascritte ad Andrea “de Aste” e le prime prove note di Michelino da Besozzo, Gentile da Fabriano e Jacobello del Fiore; mentre sono posteriori di circa un decennio la Ma donna di Lionello d’Este, dipinta da Jacopo Bellini, e la Ma donna con Ba mbino di Settignano, opera magistrale di Domenico Veneziano, che si propongono come altrettanti modelli per il nostro affresco45. È, questa, l’epoca dei Visconti, di Giovannino de’ Grassi, dei Ta cuina Sa nita tis e del cantiere poliglotta del duomo milanese, ultimo straordinario ricettacolo dell’arte tardo-gotica46. Questa, l’età del duca e pontefice Amedeo VIII di Savoia, di Giacomo Jaquerio e Antoine de Lonhy, degli artisti e delle opere provenienti dalle Fiandre, di Pisanello e delle numerose generazioni di pittori che, a partire dalla metà del secolo, diffusero a più riprese il linguaggio cortese presso quei centri maggiormente defilati dell’Italia settentrionale47. La Vergine col Ba mbino in gloria (o “Ma donna in Sole”) del Musée Granet di Aix-en-Provence che il Maestro di Flémalle (il Maestro della Trinità di Louvain? Robert Campin?) dipinge intorno agli anni Trenta del XV secolo, in tal senso, rappresenta il manifesto estremo delle sfumature simboliche assimilabili al gesto della ina nella tio 48. Una corona di sole raggiante, come la corolla di un ostensorio, inquadra la gloria della Madonna e del Bambino che, seduti sopra uno scranno largo e riccamente addobbato, restano sospesi a mezz’aria, separati dai personaggi sottostanti. Non vi è alcun dialogo fra il primo e il secondo gruppo di personaggi – specialmente nei confronti dei santi incaricati di mediare la visione mistica, Pietro e Agostino –, se non per via di contemplazione. La teofania che 43 Si veda quanto esposto in CRESPI 1988, p. 26. 44 Nella tavola del Kunsthistorisches Museum, databile agli anni ’15-’20 del Quattrocento, il motivo iconografico della promissio viene ripetutto per ben tre volte: da santa Caterina che se ne avvale per trattenere una ruota dentata in miniatura, quasi fosse l’anello nuziale da donare al Bambino; e dalle sante Barbara e Dorotea che, sistemate in secondo piano, al di là di un parapetto, ne riproducono una versione lievemente camuffata (si veda quanto esposto in SCHMIDT 2005, pp. 379-388). 45 In merito alle opere ascritte ad Andrea “de Aste” si rimanda alla nota 14; all’ambito di Michelino vanno ricondotti alcune opere dei primi anni ’20 come la Ma donna dell’Idea , dipinta per il Duomo di Milano e la pala veronese della Ma donna del roseto, dove il gesto risulta perfettamente sovrapponibile a quello espresso nella lastra marmorea del Duomo (per una rapida rassegna del panorama pittorico lombardo, e specialmente milanese, tra la seconda metà del Trecento e gli esordi del secolo successivo si rinvia al solito TOESCA 1966, pp. 100-127 e 182-236; BARBERA 1997, pp. 60-76, 160, 169, 235, 236, 240-241). In merito alle opere di Gentile, cantore per eccellenza del gotico internazionale, quali la Ma donna col Ba mbino della Galleria Nazionale di Perugia o la Ma està del Duomo di Orvieto, e sulle suggestioni decisive esercitate sui pittori attivi tra Pavia, Venezia, Brescia e Fabriano cfr. DE MARCHI 1992, pp. 11-37, 47-86, 111-128, 193-209 e 217-219 (è il caso, su tutti, di una Ma donna dell’Umiltà dipinta da Jacobello del Fiore verso il 1420, già in collezione Brocklebank a Londra; di alcune tavole di analogo soggetto realizzate da Pietro di Domenico da Montepulciano e dal perugino Pellegrino di Giovanni sul terzo decennio del secolo; e della Ma donna di Lionello d’Este del Louvre realizzata da Jacopo Bellini nella seconda metà degli anni ‘30). 46 Questa fugace rassegna circa la fortuna incontrata dal gesto nel panorama lombardo di primo Quattrocento potrebbe proseguire, ma conviene non dilungarsi oltre (basti rimandare alle fonti citate alla nota precedente). 47 Sulla figura di principe e grande mecenate del duca Amedeo VIII, sui vincoli di parentela che lo legarono alla casa dei Valois si rinvia a CASTELNUOVO 2006, pp. 145-152; in merito ai rapporti tra Fiandre e Ducato sabaudo, e alla viva impressione suscitata in area locale da un’opera quale il Trittico del Ca lva rio di Rogier van der Weyden, si rinvia a ROSSETTI BREZZI 2006, pp. 289-291. Per Jaquerio si rinvia a CASTELNUOVO 1979, pp. 30-57 e ROMANO 1996, pp. 117-128; su Antoine de Lonhy si veda, sempre, Ibidem, pp. 190-209 e CALDERA 2006a, pp. 333-336, 345 e 352-354 (scheda di François Avril). In merito a Pisanello e alla fortuna del motivo iconografico in terra veneta si veda ALIBERTI GAUDIOSO 1996, pp. 54-56 (scheda di Franca Pellegrini), 262-265 (scheda di Giuliana Ericani), e 292 (scheda di Ettore Merkel). 48 Per quel che concerne l’attribuzione dell’opera di Aix si veda THÜRLEMANN 2002, pp. 196-202, 316, 323-325 (che propende per il M. della Trinità di Louvain); e KEMPERDICK, SANDER 2009, pp. 234237 (scheda di Jochen Sander, che propende per il M. di Flémalle); per un profilo critico del suo anonimo autore e circa la querelle Robert Campin-M. di Flémalle-Rogier van der Weyden si rimanda a KEMPERDICK 2007, pp. 2-14 e KEMPERDICK, SANDER 2009, pp. 149-159. 146 PROPOSTE DI AGGIORNAMENTO SULLA PRODUZIONE PITTORICA DEI BIAZACI E DEL GIOVANE PIETRO GUIDO DA RANZO si rivela sopra le teste degli astanti ha per oggetto la natura mistica, ad un tempo affettiva e carnale, del legame che unisce la Madre al proprio Figliolo. Un vincolo ineffabile che l’artista fiammingo esprime mediante il movimento simultaneo delle mani destre, serenamente affrontate, ricorrendo a un paradigma grafico suggestivo, pregnante e di validità consolidata e condivisa. Le opere che si accumulano nella seconda metà del secolo, da Crivelli a Bergognone, sino ai frescanti attivi a Pietrabruna nel 1481, ripercorrono una tradizione iconografica già esplorata e normalizzata dal punto di vista del contenuto alla ricerca di nuove soluzioni, fondate sull’indagine patetica e drammatica dei sentimani umani. Non è un caso se il motivo, in questo torno di tempo, ritorna con più insistenza nelle opere che privilegiano la rappresentazione del soggetto iconografico primario, ovvero il gruppo della Vergine con il Ba mbino 49. È a questi modelli che guarda Martin Schongauer quando, nella serie di incisioni dedicate entro il 1483 alla parabola delle Dieci Vergini, utilizza il gesto di promissione per enfatizzare la natura pura, immacolata e la condizione di sposa della prima vergine stolta. La postura molle e aggraziata, le vesti ampie e ben panneggiate, l’acconciatura elegante, l’opera di Budapest è una riflessione, un tributo estremo che il maestro tedesco dedica al tipo di dama cortese creato dai fratelli Limbourg. E, forse, è anche per via di quel retaggio aristocratico e mondano che grava sul suo percorso di formazione, che il gesto “degli sposi” diviene qui attributo di una particolare categoria di vergini, quelle che non seppero attendere diligentemente la venuta dello Sposo. È, insomma, anche a questi modelli che guarda la Vergine “dell’uccellino” di Pietrabruna nel presentarsi in qualità di “Ma ter et Virgo”, di consorte mistica e madre virginea, “tota pulchra et sine ma cula ”, dello Sposo che cinge dolcemente in grembo50. Tra le pieghe dell’affresco si nasconde, infine, un ultimo livello di significato che potrebbe rivelare informazioni importanti circa il paesaggio monumentale coevo del paese di Pietrabruna. Esiste la possibilità, cioè, che il sistema di relazioni che unisce la triade s. Gregorio – Bambino – s. Matteo possa ricordare il momento in cui venne fondato un nuovo edificio di culto, più facilmente accessibile rispetto all’antica parrocchiale e amplio a sufficienza per contenere una popolazione notevolmente accresciuta in epoca basso-medioevale, all’interno del borgo che si era sviluppato più a monte. Riconosciuta alla Madonna una posizione di sostanziale neutralità, la figura del santo pontefice si presenta come la personificazione ideale dell’edificio che conserva l’affresco, mentre l’Evangelista, in quanto compatrono, come l’inevitabile incarnazione della nuova parrocchiale sorta in posizione sopraelevata. Attualmente, della chiesa tardo-gotica di San Matteo non resta che qualche colonna, lastre erratiche di ardesia, alcuni capitelli e il pesante architrave d’ingresso, tutti ricomposti sul piazzale del sagrato. Il Gia rdinello, ancora una volta, ricorda come sul frontespizio del portale “in a ntichissime note è scritto MCCCCCxxxviiii die xx decem.”51. La data del 1539, verificabile anche attraverso una lettura ravvicinata dell’architrave, è di grande interesse poiché testimonia il termine conclusivo di un cantiere di 49 Per citare soltanto alcuni esempi: Carlo Crivelli utilizza il motivo in numerose opere, dalle maestà, a mezza o a figura intera, alle sacre conversazioni, scalabili tra gli anni ’50 e ’90 del XV secolo (sulla figura di questo artista e sulle opere appena ricordate si rinvia a ZAMPETTI 1986, pp. 11-46, 251, 273, 287-289, 299-300; DAFFRA 2009, pp. 58-105, con i contributi di Tosato, Mazzalupi e Gardner von Teuffel, 168-173, scheda di C. Schmidt Arcangeli, e 230-235); mentre Ambrogio Bergognone se ne serve almeno in due splendide tavole a Brera e nella Ma donna del ta ppeto alla Certosa di Pavia, opere ascrivibili tra la fine degli anni ’80 e i primissimi del Cinquecento (in merito al pittore lombardo si rimanda a SCIOLLA 1998, pp. 57-86, 123-152, 173-192, 255-268, 301-330, 371-380, e 399426, contributi di diversi autori, e le schede di Nadia Righi, pp. 198200, Marco Albertario, pp. 276-278, e Barbara Casavecchia, pp. 362-363). Si segnala, in ultimo, che la Schmidt Arcangeli, a proposito della Consegna delle chia vi a sa n Pietro, opera berlinese del Crivelli, ha attribuito al gesto della Vergine che, accompagnata dal piccolo Gesù, pizzica una delle chiavi del Paradiso, quella dorata, il valore di fedeltà (“è il minuto Bambino Gesù – scrive la studiosa a proposito del soggetto – a consegnarle, assistito dal gesto elegante della Vergine Maria: un atto da interpretare come simbolo della fedeltà di questo convento verso la Chiesa”). Ciò non contrasta affatto con la tesi che si è voluto fin qui sostenere. L’anulare della Madonna, infatti, presenta la fede nuziale a ribadire visivamente come il gesto discenda originariamente da un prototipo iconografico ben preciso, qui recuperato con diverse finalità. Del resto, è la stessa studiosa a ricordare come il soggetto dell’opera presenti “un evidente riferimento a composizioni raffiguranti lo Sposa lizio di sa nta Ca terina ”; inoltre, per concludere, la fedeltà non è forse un attributo, una virtù propria del vincolo coniugale? (DAFFRA 2009, pp. 171-172). 50 Maria è già definita “Sposa di Cristo” da sant’Ambrogio. Una dottrina che avrà grande successo in epoca medioevale soprattutto grazie all’interesse suscitato per la figura femminile dal Cantico dei Cantici, prezioso ricettacolo di attributi e varianti iconografiche, e alle teorie di cui godrà la Vergine in epoca successiva (come quella di Onorio di Autun, che nel XII secolo la descrive come “Vergine, sposa e madre dello Sposo”), cfr. SCHMIDT 1988, pp. 192-193 e 234242. Circa la produzione incisoria di Martin Schongauer si rinvia a KORENY 1996, pp. 123-147. 51 Cfr. “Sa cro, e va go Gia rdinello”, op. cit., f. 327 r. Delle “antichissime note” dell’iscrizione, attualmente, risultano pienamente leggibili l’indicazione del secolo, “MCCCCC”, e del giorno, “DIE XX DEC”; qualche perplessità desta la decifrazione dell’anno che, nonostante alcune lacune, dovrebbe comunque corrispondere al “XXVIIII”. 147 STEFANO G. PIRERO La data tradotta dal Paneri rappresenta un dato fondamentale per impostare un’analisi logica e ragionevole dell’opera. Essa, quantomeno, consente di restringere la rosa dei possibili candidati alla sua esecuzione in modo da depennare quei maestri che, vuoi per una personale inclinazione di stile o per la concomitanza di impegni professionali accertati, vuoi per una discrepanza cronologica o semplicemente anagrafica, non poterono prendervi parte. È il caso di Giovanni Baleison da Demonte che, proprio nel 1481, portava a termine la decorazione parietale della cappella di San Sebastiano a SaintEtienne di Venanson54. Un ciclo pittorico quanto mai distante dall’affresco di Pietrabruna per via di una gamma cromatica più ricca, per la presenza di un vasto campionario di indumenti alla moda, per il costante ricorso ad elementi di impaginazione prospettica, per l’utilizzo di un tratto disegnativo inciso, tagliente e spigoloso nel profilo dei volti come delle masse – basti pensare alle diverse riprese del corpo martoriato del santo titolare o, ancora, a quello del Gesù crocefisso che compare nella scena della “buona preghiera” – e, ancora, per la posture alquanto leziose o tese ed esasperate, come in una danza canavesiana, che caratterizzano l’incedere delle figure. Discorso analogo per il “mediola nensis” Carlo Braccesco che, dopo aver eseguito il celebre polittico di Montegrazie nel 1478, risulta impegnato a Genova, dove, dal principio degli anni ‘80 del Quattrocento, gli vengono affidati incarichi di grande spessore come la decorazione della facciata di Palazzo San Giorgio55. Del resto, a Pietrabruna non vi è nulla di quella plastica diafana e delle velature leggere che animano i personaggi riccamente abbigliati della pala di Montegrazie, né si rivede quella linea sottilmente incisa, agile e calligrafica, che struttura volti ed espressioni vivaci o, tantomeno, quella profusione di punzoni, puntinature, dorature e oreficerie crepitanti che ben si addicono alla mano di un maestro lomabardo. Il sacerdote Giovanni Canavesio, è vero, soggiornò ad Albenga tra il 1472 e il 1477 prendendo parte alla decorazione di alcuni graduali della biblioteca capitolare e attendendo, talvolta anche con la necessità di fugaci spostamenti, a una gran copia di commissioni provenienti da tutto l’Estremo Occidente Ligure e non solo, come dimostrano i polittici inviati a Nizza, Taggia e persino a Oristano56. I primi anni Ottanta rappresentarono un periodo ugualmente intenso e fortunato sotto il profilo lavorativo, di cui rimangono numerose testimonianze. Nel 1481, in particolare, il pittore condusse a termine un ciclo di affreschi nella chiesa di San Bartolomeo a Sambuco, in alta Valle Stura. L’anno successivo, riprendeva l’impegnativa decorazione murale della cappella di San Bernardino a Pigna, rimasta incompiuta da qualche tempo, e, nel frattempo, eseguiva un polittico per la Confraternita 52 Della chiesa cinquecentesca di San Matteo rimane almeno una buona descrizione del monsignor Niccolò Mascardi, stilata durante il soggiorno del 23 gennaio 1586 (cfr. “Le Visite Apostoliche a lla Diocesi di Albenga ”, ms. cart., ADA, f. 510 v. e r.). 53 I tempi molto lunghi di costruzione della nuova chiesa (oltre mezzo secolo), non devono stupire più di tanto. Essi, ad esempio, aiuterebbero a spiegare la ragione dell’adozione del capitello a cesto cubico che, in loco, viene impiegato già a partire dal TreQuattrocento: basti pensare alle colonne che sostengono la chiesa di Sant’Antonio Abate e dell’oratorio poco lontano di San Sebastiano a Costarainera o, ancora, al pregevole monolite “seriale” recante l’arma dei Lengueglia che compare reimpiegato sul sagrato della chiesa di San Bernardo a Boscomare. 54 Per un profilo critico del pittore Giovanni Baleison si rinvia a ROSSETTI BREZZI 1983, pp. 14 e 20; EAD. 1985, pp. 24-25 e 72-79; CASTELNOVI 1987, pp. 121, 152-153; ALGERI 1991, pp. 327-329; CALDERA 2005, p. 21; SISTA 2005, pp. 45-51 e, in particolare, ID. 2009, pp. 101-108; si veda, in generale, quanto esposto alla nota 15. 55 Sull’attività nota del pavese Carlo Braccesco si rimanda a ROSSETTI B REZZI 1983, p. 20; CASTELNOVI 1987, pp. 97-105 e 145-146; NATALE 1987, pp. 22 e 24; ALGERI 1991, pp. 300-313; CALDERA 2005, p. 18; MULAZZANI 2006, pp. 63-70. 56 Sul Canavesio cfr. ROSSETTI BREZZI 1983, p. 20; EAD. 1985, p. 23; CASTELNOVI 1987, pp. 118-121; NATALE 1987, p. 25; ALGERI 1991, pp. 324-335; NATALE 1996, pp. 40-52; CALDERA 2005, p. 20; NATALE 2006, pp. 399-400 e 415-416 (scheda di Massimiliano Caldera). discrete dimensioni – la nuova parrocchiale, infatti, possedeva una pianta espansa, probabilmente rettangolare, che si suddivideva in tre navi sostenute da un doppio ordine di due colonne lapidee – che potrebbe aver preso avvio in tempi precoci o, comunque, non troppo distanti dal 148152. A questa conclusione, del resto, pare additare il Bambino con la sua postura forzata e i gesti calcolati. Egli, pur rivolgendo il volto e lo sguardo verso san Gregorio, indica benedicente il santo Evangelista con cenno di assenso consacratorio53. In tal senso, l’aspetto di giovane imberbe che distingue la figura di san Matteo, una variante iconografica non così frequente, potrebbe spiegarsi anche in ragione del ridotto grado di avanzamento che qualificava il novello edificio di culto. Ad ogni modo, questo simbolico passaggio di testimone non giustificò mai l’abbandono definitivo della chiesetta romanica di San Gregorio Magno che, anzi, conservò intatta almeno sino ai primordi del XVII secolo il ruolo di parrocchiale. 3. UNA BOTTEGA DI PITTORI ITINERANTI A PIETRABRUNA: “MAGISTER” TOMMASO BIAZACI DA BUSCA “ET EIUS FRATER” MATTEO 148 PROPOSTE DI AGGIORNAMENTO SULLA PRODUZIONE PITTORICA DEI di Santa Croce a Diano Castello e almeno altri due affreschi per il convento domenicano di Taggia. L’apertura simultanea di diversi cantieri decorativi disseminati su un’area geografica estesa e, di conseguenza, la frenesia che caratterizzò l’attività del maestro di Pinerolo in questo lasso temporale costituiscono delle ragioni sufficienti per escluderne ogni coinvolgimento nella realizzazione dell’affresco di Pietrabruna. La declinazione stilistica maturata dall’autore in quella stagione della propria carriera, poi, ne è una dimostrazione. Quella di Canavesio è una ricerca costante della prospettiva come strumento di misurazione e impaginazione spaziale, nel quale si dispiega una materia cromatica luminosa, distesa, animata da chiaroscuri vivaci, e da una nuova vena patetico-pedagogica che lo porta a esasperare il dramma di una composizione sino a scadere, talvolta, nella caricatura e nel motto triviale57. A questi grandi interpreti della maniera tardo-gotica in Liguria si deve aggiungere il nome di un giovane di gran talento come il nizzardo Ludovico Brea. La pala dell’Ascensione, eseguita durante il primo soggiorno genovese del 1483, presenta una costruzione plastica e monumentale dei volumi, incisi da una luce modulata e colmati da intensi chiaroscuri, e un disegno composto di masse in equilibrio e abilmente scorciate che ha poco da condividere con la mano dei nostri58. Il cerchio dei papabili, dunque, deve necessariamente restringersi intorno a una nuova proposta espressa dal panorama artistico locale degli anni Settanta – Ottanta, la bottega dei fratelli Biazaci da Busca. Sicuramente, la cultura artistica cui guardarono gli autori del nostro affresco prende le mosse da quella apparsa entro il 1467 sulle pareti dell’antica cappella vescovile di Albenga, e in altre opere raccolte sotto il nome del Maestro di Lucéram o, se si preferisce, del giovane Baleison59. Esiste, infatti, una generica affinità tra la linea che disegna i volti gentili di alcuni personaggi creati dall’anonimo artista nizzardo – come il san Giovanni Evangelista di Nôtre-Dame-desFontaines a La Brigue e il gemello della cappella di Saint-Grat a Lucéram o, ancora, l’arcangelo Gabriele di Diano Castello e il san Michele del trittico albenganese già citato – e quella adottata a Pietrabruna. In entrambi, l’ovale del volto è profilato da un segno netto e affilato che si fa più dolce e smussato nel descrivere la gorge, la caratteristica piegatura che il collo BIAZACI E DEL GIOVANE PIETRO GUIDO DA RANZO Fig. 9 - ALBENGA, Museo Diocesano. M. di Lucéram (Giovanni Baleison?), Vergine col Ba mbino. produce nella torsione del capo. Le “arie di testa”, pacate e riverenti, lo scarto del viso studiato in modo da scoprire il lobo dell’orecchio, il principio di costruzione degli incarnati, la distribuzione dei rossori che percorrono l’epidermide individuando le zone di massima concentrazione di luce, persino le acconciature di stampo cortese rappresentano altrettanti elementi di contatto (figg. 9 e 10). Il sa n Ma tteo orante di Pietrabruna, ad esempio, sfoggia una pettinatura riccioluta che si allinea alla moda decadente esibita dagli arcangeli di Albenga e Diano Castello, o dal san Giovanni Evangelista di Lucéram e dal suo gemello di Al- 57 In merito al dibattutissimo ciclo affrescato in San Bernardino a Pigna, oltre agli autori citati alla nota precedente, si rimanda anche a BARTOLETTI 1998, pp. 11-14 e SISTA 2006a, pp. 57-61. 58 Per una breve rassegna critica della produzione pittorica di Ludovico Brea si rimanda a ROSSETTI BREZZI 1983, pp. 11 e 20; CA1987, pp. 105-109; ALGERI 1991, pp. 314-319; CALDERA 2005, pp. 21-22; SISTA 2006, pp. 91-94. 59 Si veda la nota 15; si segnala, anche, LECLERC 2006, pp. 53-58. STELNOVI 149 STEFANO G. PIRERO benga. Allo stesso modo, il volto di san Gregorio, ritratto di uomo canuto segnato dal tempo, presenta più di una affinità con l’omonimo pontefice benedicente e il san Girolamo che campeggiano al di sotto dello stemma di Napoleone Fieschi, entro le vele della volta della cappella vescovile albenganese. Tangenze che sembrano ancor più strette se si osserva il paramento dei due papi: entrambi ammantati da un pesante piviale, stretto all’altezza del petto da una grossa fibbia dorata che lascia intravedere gli sbuffi della veste sottostante (figg. 11 e 12). Al di là delle analogie iconografiche, compositive e della predilezione per un’atmosfera dalle inflessioni ancora cortesi, la gamma cromatica luminosa e smaltata nella descrizione delle vesti preziose come delle verzure, la sicurezza del tratto, aguzzo e allungato alla maniera del contemporaneo Durandi o di un incisore transalpino, e le possibili sfumature assunte dalla gamma pittorica non appartengono al bagaglio artistico proposto dai pittori attivi in San Gregorio. Ciò non toglie che gli affreschi della cappella del Palazzo Vescovile abbiano rappresentato, sia per il prestigio della committenza sia per la vicinanza cronologica della realizzazione, un modello di stile dichiarato per tutte quelle generazioni di maestri che, in quegli stessi anni, muovevano alla volta di Albenga in cerca di opportunità di lavoro, fama e fortune economiche. Fra questi, vi era la bottega itinerante dei fratelli Tommaso e Matteo Biazaci da Busca. Tommaso, certo il pittore più noto fra i due, il capobottega, aveva già svolto la propria formazione nella terra natìa studiando, in particolare, le opere lasciate a Busca dal Maestro di San Brizio (fine anni ‘50 del Quattrocento), e da altri esponenti della generazione cresciuta sulle orme di Jaquerio, come Pietro da Saluzzo60. Prima di approdare in Riviera, infatti, i fratelli avevano preso parte alla decorazione della cappella dell’Assunta a Chiot-Martin nella parrocchiale di Sampeyre, nel Cuneese (fine anni ‘60), e, nel 1467, Tommaso Biazaci, residente a Savigliano da circa due anni per impegni professionali, poteva definirsi un maestro affermato a capo di una fiorente bottega (“ma gistro cum sociis suis”). Ai primordi del decennio successivo, i pittori avevano già imboccato la via delle Alpi Marittime seguendo le rotte tracciate da altri conterranei in direzione di Albenga, al tempo uno dei maggiori ricettacoli delle tendenze artistiche convergenti sul Ponente Ligure. Un centro di attrazione e di incontro, oltre che un mercato ambito, a cui guardava un vasto entroterra e, al contempo, quanti desideravano aggiornarsi o conoscere le formule stilistico-iconografiche più in voga. Nel 1474, quindi, Tommaso risultava attivo nella chiesa di San Bernardino, eretta otto anni prima in seguito al rimarchevole passaggio del frate predicatore, dove eseguì una pala per l’altare maggiore e un primo ciclo di affreschi terminato alle ca lenda e di maggio, irrimediabilmente perduti. La scomparsa di queste opere nega, purtroppo, la possibilità di saggiare la qualità, il livello raggiunto dalla bottega al momento dell’esordio ligure. Tuttavia, sopravvivono delle testimonianze piuttosto significative 60 Per un inquadramento critico dell’attività dei pittori da Busca si rinvia a ROTONDI 1956, pp. 24-26; ID. 1956a, pp. 56-63; ID. 1956b, pp. 110-121; MAZZINO, CASTELNOVI 1968, pp. 27-37; ROSSETTI B REZZI 1983, p. 20; EAD. 1985, pp. 23-26; CASTELNOVI 1987, pp. 121-124 e 153; ALGERI 1991, pp. 260-267; NATALE 1996, pp. 52-54; CERVINI 2004, pp. 84-106; CALDERA 2005, pp. 20 e 21; NATALE 2006, pp. 397, 398, e 412-414 (schede di Massimiliano Caldera). Fig. 10 - PIETRABRUNA, Chiesa di San Gregorio Magno. Vergine dell’uccellino (fotografia Franco Ferrero). 150 PROPOSTE DI AGGIORNAMENTO SULLA PRODUZIONE PITTORICA DEI BIAZACI E DEL GIOVANE PIETRO GUIDO DA RANZO Fig. 11 - ALBENGA, Museo Diocesano. M. di Lucéram (Giovanni Baleison?), Sa n Gregorio Ma gno, part. della volta. Fig. 12 - PIETRABRUNA, Chiesa di San Gregorio Magno. Sa n Gregorio Ma gno (fotografia Franco Ferrero). della loro attività circa 1478, che risarciscono parte delle attuali lacune. È il caso di una Vergine col Ba mbino, scomparto centrale di un polittico disperso e destinato alla chiesa di Santa Maria in Fontibus, e, in via dubitativa, di una serie di affreschi eseguiti nella chiesa della Annunziata, nell’oratorio di Santa Croce e San Bernardino a Diano Castello, e in San Giorgio di Campochiesa61. È ampio lo spettro stilistico a cui si rivolge Tommaso. Nel polittico del Museo di Sant’Agostino a Genova (fig. 13), egli rifinisce con cura minuziosa i dettagli degli oggetti, delle vesti preziose e arabescate, riversandovi le proprie doti di miniatore, rileva i corpi dal fondo oro mediante un sapiente tra va il pointillé e un modellato più solido e compatto rispetto alle prime opere piemontesi, senza rinunciare del tutto a quel gusto nordico di prolungare le mem- bra anatomiche che si ammira a Sampeyre. Nell’oratorio di Diano Castello, Tommaso ripropone nuovamente il modello della tavola genovese – le affinità sembrano tanto strette da far sospettare l’utilizzo di un cartone – sottolineando il capo ammantato della Vergine con il consueto poinçonna ge, e stagliando i volumi contro lo sfondo piatto e monocromo di un panno di raso scarlatto. Nella sua svolta “mediterranea”, la pittura del maestro non fu segnata esclusivamente dalla ricerca di un modellato disteso, compatto, luminoso e da una costante semplificazione dei volumi. Anche Canavesio ebbe la sua parte. La Madonna che siede in trono a Diano Castello, per esempio, veste gli stessi indumenti della gemella che figura sulla cimasa del polittico taggiasco dedicato a san Domenico, firmato dal sacerdote di Pinerolo nel 1472, e, 61 Oltre ai contributi già menzionati alla nota precedente si segnalano, per maggior completezza, i più datati MAZZINO, CASTELNOVI 1968, p. 46; B OGGERO 1986, pp. 44-50; ROSSETTI B REZZI 1990, pp. 13-15. 151 STEFANO G. PIRERO dettaglio da non disdegnare, torna alle prese con un cesto ricolmo di ciliegie62. Stante la difficoltà di lettura dei santi raffigurati su alcuni pilastri della chiesa di San Giorgio in Campochiesa, è il caso di considerare un’altra opera autografa di Tommaso e Matteo Biazaci, il polittico di sa n Seba stia no di collezione privata, che è stata assegnata alla “fase piemontese” della bottega e che, al contrario, potrebbe risalire al soggiorno albenganese e rivelare una frequentazione puntuale dei modelli canavesiani63. L’opera, sotto molti profili, pare quasi una esercitazione, una meditazione critica sulla produzione del maestro pinerolese degli anni ’70 del Quattrocento. San Giovanni Battista, nella formella in alto a sinistra, indica il libro e l’Agnello secondo uno schema già utilizzato da Canavesio nel polittico taggiasco, mentre la Vergine, nella cuspide centrale, sembra la gemella di quella che si apprezza nel polittico più volte citato del Museo di Sant’Agostino. Il viso, la mandorla degli occhi, le sopracciglia e la bocca si direbbero quasi sovrapponibili, medesima è la costruzione del modellato e l’incidenza dei lumi, simile il manto monocromo, lo sviluppo dei panneggi e il disegno delle mani, specie quella di sinistra, che risultano invariabilmente affusolate. Il Bambino, disegnato da un profilo ricurvo, protende l’arto sinistro verso il seno della Madre sfiorandole l’orlo della veste con atto del tutto paragonabile a quello del gemello taggiasco. Quel che diversifica, in negativo, la formella dei Biazaci è piuttosto il limite manifesto di non potersi confrontare a fondo con le composizioni e gli scorci prospettici di Canavesio, come si evince dalla rigidità schematica con cui sono realizzate le bende che avvolgono le gambe del Bambino. Ogni generico accenno alla produzione del maestro pinerolese, tuttavia, diviene più sensibile nel pannello centrale, dove è raffigurato san Sebastiano. Le gambe lievemente divaricate, il torso, asciutto ed emaciato, sulla cui epidermide premono le ossa dello scheletro, e le braccia secche, nervose, tese all’indietro e costrette al tronco di un albero, rivelano un gusto per l’articolazione delle membra e per le pose spezzate memore delle soluzioni elaborate dalla coppia Canavesio-Baleison, a nte 1472, nel ciclo di pitture della cappella di Saint-Sébastien a Saint-Etienne-de-Tinée. Insomma, forse l’accento piemontese che prevale nell’opera andrebbe riconsiderato alla luce dei contatti stretti con Canavesio all’epoca del soggiorno albenganese (primi anni ‘70 del XV secolo), e, parallelamente, delle conquiste che contrassegnarono il percorso professionale degli stessi Biazaci. La partenza intorno al 1477 del maestro di Pinerolo, in tal senso, dovette lasciare un grande vuoto nel panorama artistico locale e i fratelli da Busca, che ne avevano frequentato opere e a telier, ne approfittarono per affermare il loro nome lungo il versante ligure dell Alpi Marittime. Non fu, tuttavia, l’adesione precoce al verbo dell’ultimo Canavesio a determinare la svolta 62 Questa volta, tuttavia, il Bambino – del tutto vicino al gemello di Sant’Agostino, seppur meno riccamente abbigliato – non esprime disinteresse verso le ciligie, anzi, si sporge leggermente alla sinistra della Madre additandole, e citando in controparte lo schema già elaborato dal Maestro di Valmanera. 63 Il polittico raffigurante sa n Seba stia no e i sa nti Ca terina d’Alessa ndria , Fa bia no, Nicola e Lucia è stato pubblicato da Vittorio Natale (cfr. NATALE 1996, pp. 50 e 54), e da questi ascritto alla “fase piemontese” di Tommaso Biazaci – per via delle figure ancora allungate, simili a quelle affrescate a Sampeyre, e di una carpenteria lignea lavorata secondo un gusto alieno a quello rivierasco dell’epoca –, pur ammettendo la presenza di caratteri tipici della produzione ligure. Fig. 13 - GENOVA, Museo di Sant’Agostino. Tommaso Biazaci, pala della Vergine col Ba mbino. 152 PROPOSTE DI AGGIORNAMENTO SULLA PRODUZIONE PITTORICA DEI BIAZACI E DEL GIOVANE PIETRO GUIDO DA RANZO stilistica di Tommaso Biazaci e a decretarne il successo. Il mestiere dell’arte, prescriveva Cennini, imponeva ad ogni allievo di copiare e studiare “le miglior cose” che si potevano osservare “per ma no fa tte di gra ndi ma estri”, e, tra questi, “di piglia r sempre il migliore e quello che ha ma ggior fa ma ”64. E Tommaso, pur essendo un maestro riconosciuto, trascorse certo buona parte dei primi soggiorni ad Albenga girovagando, taccuino alla mano, in cerca delle migliori espressioni artistiche in grado di poter stimolare e aggiornare il proprio linguaggio stilistico. La mole e l’importanza delle committenze affrontate a partire dal 1478 – diversi polittici e, almeno, due estesi cicli di affreschi a Diano Marina e a Diano Castello – testimoniano che il periodo di acculturazione era evidentemente terminato e che, a quell’altezza, la sua maniera aveva riscosso un largo consenso. Le composizioni, in questa fase, assumono un ritmo solitamente composto, disteso, pacato, lineare, e risultano impostate per piani successivi di profondità, mentre le figure acquistano un respiro più monumentale, maggiore solidità e rilievo grazie a un panneggio ampio, un modellato luminoso e dolcemente chiaroscurato. Si assiste, insomma, a una maturazione decisiva nel percorso artistico del capobottega, il quale si dimostra ormai avviato all’approfondimento di valori disegnativi e cromatici di stampo mediterraneo. Eppure, l’ascendente esercitato dall’anonimo pittore attivo nella cappella vescovile di Albenga non si spense mai del tutto. Esso, del resto, rieccheggiava quella vena tardogotica che impregnava la formazione piemontese di Tommaso al punto da costituire, anche nella tarda attività, un sostrato, una eredità culturale mai completamente sopita. L’afflato cortese che percorre l’affresco di Pietrabruna, e che riverbera nel gesto aggraziato della Vergine, ne è una dimostrazione lampante. L’opera, tuttavia, non si propone più, solamente, come un frutto tardivo della cultura internazionale di inizio secolo. Ogni potenziale riferimento, qui, viene circoscritto alla sola cifra iconografica che domina i ritmi lenti e affettati della composizione. La traduzione pittorica, al contrario, resta affidata alle recenti conquiste espressive del capobottega: le figure sono delineate con pochi tratti essenziali, l’ovale del volto e il bozzolo compatto del corpo, i lineamenti del viso si presentano dolci e smussati a vantaggio di una maggiore caratterizzazione fisiognomica, gli incarnati riescono luminosi e dolcemente chiaroscurati, mentre le vesti, in origine ben panneggiate, abbandonano ogni residuo decorativo conservando ancora qualche traccia delle felici combinazioni cromatiche – le tonalità giallo-ocra, i verdi intensi del fondo, i rossi vivaci o le sfumature rosate delle carni – adottate anche dall’anonimo nizzardo attivo per il vescovo Fieschi. Ciò detto, le opere dei fratelli Biazaci che più si avvicinano in ordine di tempo al nostro affresco corrispondono agli estesi cicli di pitture murali realizzati, entro il 1483, nel santuario mariano di Montegrazie a Imperia e nuovamente in San Bernardino ad Albenga. Le relazioni e i nessi, stilistici e iconografici, che corrono fra questa serie di opere risultano piuttosto numerosi e calzanti. E, ancor più, conforta constatare come i due grandi cicli pittorici abbiano richiesto una 64 “Affaticati e dilèttati di ritrar sempre le miglior cose che trovar puoi per mano fatte di grandi maestri. E se se’ in luogo dove molti buon maestri sieno stati, tanto meglio per te. Ma per consiglio io ti do: guarda di pigliar sempre il migliore e quello che ha maggior fama; e, seguitando di dì in dì, contra natura sarà che a te non venga preso di suo’ maniera e di suo’ aria” (BRUNELLO 2001, p. 27). Fig. 14 - MONTEGRAZIE, Santuario di N. S. delle Grazie. Tommaso Biazaci, Lussuria . 153 STEFANO G. PIRERO Fig. 16 - PIETRABRUNA, Cappella di San Salvatore. Tommaso Biazaci (?), Vergine ora nte. attività di cantiere prolungata e intercalata, certamente almeno nel 1482, da frequenti interruzioni. Per convincersi di tali affinità, basti osservare come il prototipo fisiognomico utilizzato per definire la Vergine e il san Matteo di Pietrabruna ritorni puntualmente in alcuni episodi meno stereotipati e qualitativamente più riusciti del capobottega. Se ne possono individuare ottimi esempi tra le schiere dei beati dislocati ai lati dell’amigdala in cui è inserito il Cristo del Giudizio Finale ad Albenga e, soprattutto, in numerose figure di N.S. delle Grazie a Montegrazie. È il caso della “lusuria ”, nella quale si concretizza l’utilizzo di una linea ancora volutamente affilata e un incarnato spento nei toni, che conferiscono al personaggio un aspetto smunto ed emaciato (fig. 14), e delle figure femminili che espongono la teoria delle Virtù: la “cha rita s”, che ripropone in forme meno fiacche e ingenue le fattezze della Vergine affrescata nell’oratorio dianese di Santa Croce, la “sobrieta s”, la “umilita s”, la “fortitudo” e la “pa ciencia ”, la quale, in particolare, rivela affinità stringenti con una Madonna orante affrescata all’interno della sfortunata cappella-oratorio di San Salvatore a Pietrabruna (figg. 15 e 16). Non solo personaggi femminili. Anche l’angelo che compare nell’episodio dell’ultima ora , al pari del gemello che piange sul letto della ca ttiva morte o di quelli che fiancheggiano, nella volta dell’absidiola sinistra, il Cristo fra le acque del Giordano risultano costruiti a partire dal medesimo prototipo. Altrettanto convincente appare la costruzione de modellato luminoso e privo di violenti contrasti chiaroscurali che struttura le loro carni, il campionario teatrale di pose leziose a cui attinge anche il gesto della Vergine di Pietrabruna e, infine, la gamma cromatica impiegata per campirne le silhouettes 65. A Pietrabruna, insomma, i Biazaci manifestano un linguaggio artistico che caratterizzerà anche la produzione immediatamente successiva. Una declinazione di stile cui i pittori giunsero attraverso la conoscenza attenta del predicato canavesiano della metà degli 65 “Nelle Storie del Ba ttista – scriveva Pasquale Rotondi circa gli affreschi dell’absidiola sinistra – la modulazione delle tinte è finissima e l’impianto cromatico ha acquistato una grande ricchezza di toni delicati. I giallo-arancione, i rosa-pervinca, i verdi smeraldo si alternano con leggerezza trasparente sulle pareti, rendendo gentilissime le forme dei corpi e distruggendo quanto di deteriore la popolaresca tipologia delle immagini poteva avere» (ROTONDI 1956b, p. 112). Fig. 15 - MONTEGRAZIE, Santuario di N. S. delle Grazie. Tommaso Biazaci, Pa zienza . 154 PROPOSTE DI AGGIORNAMENTO SULLA PRODUZIONE PITTORICA DEI BIAZACI E DEL GIOVANE PIETRO GUIDO DA RANZO Nel volto di san Gregorio, a ben vedere, emerge una intrpretazione più radicale del chiaroscuro. A differenza dei delicati rossori che velano l’epidermide della Vergine e di san Matteo, i contrasti, qui, riescono marcati, accesi e squillano violenti all’interno della tavolozza dei fratelli Biazaci. Difficile, a nostro avviso, attribuire l’esecuzione di questa figura al capobottega, cui spetta la paternità della Madonna e del santo Evangelista, o al fratello Matteo, la cui personalità rimane avvolta nell’ombra ingombrante di Tommaso e al quale, per convenzione, si tende ad assegnare quanto di scadente e ripetitivo rifluisce nel linguaggio biasaccesco. Dietro alla definizione della figura del pontefice si avverte, in realtà, una maniera di percepire il colore e le ombre che enfatizza la carica drammatica del personaggio ritratto. È la mano di un “socio”, ovvero di un collaboratore che, all’epoca della realizzazione dell’affresco, doveva presentarsi come un garzone vo- lenteroso, portato per il mestiere del pennello, riguardoso verso gli insegnamenti del capobottega e, in un certo senso, già dotato di un proprio temperamento, Pietro Guido (o Guidi) da Ranzo. La questione che, qui, si intende rapidamente affrontare investe un periodo finora poco noto del pittore di Ranzo, quello relativo alla formazione professionale. Occorre riconoscere come la critica, sulla scia degli spunti aperti anni addietro da T. O. De Negri, abbia prospettato in maniera sempre più convinta la possibilità che il pittore ranzasco sia andato a bottega da Tommaso Biazaci68. La tesi si fonda soprattutto sulla attribuzione di un polittico raffigurante la Vergine col Ba mbino tra i sa nti Giova nni Eva ngelista e Stefa no, datato al 1490 e già in Palazzo Bianco a Genova, cui avrebbe apposto la firma un giovane Pietro Guido, ma la cui esecuzione sarebbe frutto di una più ampia collaborazione con il più anziano capo-scuola69. L’opera, infatti, è stata posta convincentemente in relazione con gli affreschi realizzati da Tommaso nell’antica abside destra della chiesa di S. M. Assunta ai Piani di Porto Maurizio – affinità molto strette corrono tra il san Giovanni Evangelista e la teoria di santi dipinta in quella parte dell’edificio o, ancora, tra il santo protomartire e l’episodio del martirio di san Lorenzo –, datati proprio al 1490, e ritenuta un episodio decisivo per stabilire la natura delle relazioni intrecciate dal maestro di Busca con il pittore arrosciano70. In tal senso, rimane difficile sostenere l’eventualità che Pietro abbia potuto apprendere i rudimenti del mestiere dell’arte in famiglia, ossia sotto le direttive di un terzo, sfuggente “manovale del pennello”, Giorgio Guido “il Vecchio”71. Ad ogni modo, nel 1499 Pietro Guido da Ranzo risultava iscritto alla Ma tricula a rtis pictoria e et scuturia e di Genova; egli poteva, dunque, definirsi pictor e, come si evince da un atto notarile registrato in quegli anni, esercitare la professione all’interno delle mura 66 ALGERI 1991, p. 350. 67 Sul ritorno a Savigliano di Tommaso Biazaci si veda CASTELNOVI 1987, p. 153. 68 Per un quadro critico sulla figura di Pietro Guido da Ranzo cfr. DE NEGRI 1975, pp. 93-102; CASTELNOVI 1987, p. 160; NATALE 1996, pp. 52-54; CALZAMIGLIA 1999, pp. 63-122; TRACHELIO 2003, pp. 40-45; SISTA 2003, pp. 78-88; B ARTOLETTI 2004, pp. 113-121; CERVINI 2004, p. 84. 69 Il polittico è pubblicato in NATALE 1996, p. 53 (cui si rinvia anche per la questione attributiva, successivamente ripresa da altri studiosi); mentre l’’iscrizione che corre lungo il basamento del trono sul quale è assisa la Vergine viene riportata in CALZAMIGLIA 1999, pp. 63-64 (il quale rende noto come la firma di Pietro Guido sia stata tradotta dall’Alizeri su suggerimento di un vecchio possessore del dipinto). Su quest’opera e, in generale, sulla figura del nostro artista si veda soprattutto SISTA 2003, pp. 78-80. 70 Sul ciclo di affreschi in Santa Maria Assunta dei Piani di Imperia si rinvia a CALZAMIGLIA 1990, pp. 78-98; sulle analogie tra le due opere si veda NATALE 1996, pp. 52-54 e SISTA 2003, pp. 79-80. 71 Giorgio Guido, quali che fossero le relazioni col più celebre pittore di Ranzo, non poteva essere il padre del giovane Pietro, il quale, in un documento del 1500, si firmava “Petrus de Guido de Plebe pictor filius Joha nnis” (sulla figura di Giorgio Guido “il Vecchio” e sul documento, relativo al soggiorno genovese del 1499-1503, si veda CALZAMIGLIA 1999, pp. 54-63 e 64-70). L’ipotesi formulata da Calzamiglia, ciò detto, non andrebbe rigettata del tutto: è noto, infatti, come all’interno delle genealogie famigliari i nomi degli avi tendessero a ripresentarsi con una costanza piuttosto regolare, anche a distanza di una sola generazione; del resto, per una sorta di coincidenza, il figlio di Pietro Guido prese il nome di Giorgio. anni Settanta, ma che, a priori, procedeva dalle riflessioni condotte su quella cultura preziosa e fiorita che permeava le opere del Maestro di Lucéram (o Giovanni Baleison), “dal quale i pittori di Busca trassero il gusto per forme ampie, spesso costruite attraverso la giustapposizione di piani luminosi e mediante un modellato lieve, appena chiaroscurato”66. Prima di intraprendere la via di ritorno per Savigliano, nel 1482, i fratelli Tommaso e Matteo Biazaci avviarono certamente la decorazione pittorica del nuovo santuario di Montegrazie, innalzato nel 1450, e, nel frattempo, assieme ai propri collaboratori, fecero tappa a Pietrabruna, chiamati ad affrescare la lunetta goticheggiante del portale maggiore della chiesa parrocchiale67. 4. LA MANIERA DRAMMATICA DI UN GIOVANE GARZONE DI PIETRO GUIDO DA RANZO BOTTEGA, L’ESORDIO PITTORICO DI 155 STEFANO G. PIRERO urbane72. E in urbe, nel XV secolo, le offerte di lavoro per un ma gister forestiero non mancavano di certo. I verbali noti delle riunioni tenute dall’Arte mostrano, anzi, quanto fosse alta la richiesta di artisti provenienti da altre na tiones e come, sin dalle riforme promulgate nel 1415, 1443 e 1481, i membri della corporazione intendessero maggiormente l’idioma pisano e, in un secondo tempo, quello lombardo e pavese73. Insomma Genova, al pari del Ponente Ligure, restava una città in cui erano “pochissimi i pittori locali ed ancora insufficienti i forestieri già qui stabiliti ed operanti”74. Sulla scia di questo clima favorevole e di un certo ottimismo, in quel medesimo 1499, Pietro Guido prendeva in affitto per quattro anni alcuni locali situati in contrada Squarciafico, stabilendovi bottega75. Non è chiaro, in proposito, se l’atto di subappalto firmato “eius certa scientia ” dal pittore a distanza di soli sei mesi, il 10 febbraio del 1500, in favore di Francesco “de Pa pia ” e Giovanni “de Vegiis” – colleghi definiti di pari dignità (pictoribus) – debba interpretarsi come un indizio precoce di cattivi affari, di bassi profitti e di scarso successo o non, piuttosto, come un accordo di mutua collaborazione, una forma di associazionismo. Alla scadenza dei termini contrattuali, nel 1503, Pietro fece ritorno assai presto in patria, dove il divario tra maestri e mestieranti dell’arte non era così sensibile e le richieste della committenza meno sofisticate e raffinate. Persino i tempi erano maturi. Della bottega che lo aveva allevato se ne erano perse le tracce e, anche a voler prolungare l’arco produttivo dei fratelli Biazaci sin oltre la soglia del Cinquecento, la fama rapidamente acquisita dal ma gister arrosciano, una volta rientrato nella terra natale, indurrebbe a ipotizzare un declino già consumato della vecchia scuola, a una diaspora. Inoltre, dal 1476, fattore altrettanto determinante, sulla cattedra vescovile di Albenga sedeva Leonardo Marchese, uomo colto, aggiornato ed universalmente noto sia per la missione apostolica che lo animava sia per la promozione artistica di cui si fece carico sino al 1513, termine ultimo del suo episcopato76. Se si considera, in breve, l’intero arco della pro- duzione di Pietro Guido ci si può avvedere della straordinaria longevità di un pittore che, ereditati i pennelli dai Biazaci, lavorò nelle principali vallate dell’entroterra imperiese fin quasi alla metà del Cinquecento. Forse, ancor prima di eseguire il grande ciclo della Pa ssione nel santuario di Rezzo, datato al 1515, egli intevenne nella chiesa di San Pantaleo a Ranzo, manifesto stratificato delle correnti pittoriche che valicavano a più riprese le Alpi in direzione della costa, affrescandovi un tema analogo tra il 1507 e il 1512, nella cappella dell’Ospedale di Rezzo e, quindi, nella chiesa di Santa Margherita del Borghetto a Mendatica, dove presumibilmente avviò la decorazione della controfacciata dipingendovi una Ora zione nell’orto 77. Coevi o di poco posteriori al ciclo realizzato nel santuario di Rezzo sono il polittico di Sa n Berna rdino, destinato a quell’edificio, e l’ancona di collezione privata raffigurante la Ma donna col Ba mbino tra i sa nti Giova nni Ba ttista e Gia como Ma ggiore. Quest’ultima opera è di particolare interesse sia per le soluzioni compositive – che ripropongono le formule elaborate nell’affresco di Pietrabruna e, nelle cuspidi laterali, quelle messe a punto dal Foppa all’epoca del polittico Della Rovere –, sia per l’iscrizione che si dispiega lungo la predella del trono su cui siede la Vergine, “ma gi(s)t(r)o Petrus Guidus pinxit”, che certifica indiscutibilmente la dignita s raggiunta da Pietro alla fine del soggiorno genovese78. Il maestro di Ranzo, tuttavia, non era che all’inizio della propria carriera, e il vasto ciclo di affreschi realizzato sulla parete della navata destra del santuario di Rezzo rappresentò qualcosa di molto simile a un atto consacratorio. L’essere un creato dei Biazaci, poi, non poteva che favorirlo ulteriormente presso una committenza ampia, quella dell’Estremo Ponente Ligure, e cresciuta nei valori della fede stringendosi in adorazione dinanzi ai polittici, o ai cicli escatologici e salvazionisti dipinti dai fratelli piemontesi. Non fu un caso se il parlamento generale di Porto Maurizio, cessata l’epidemia pestilenziale che nel 1524 aveva flagellato Montegrosso (antica Montegrazie), decise di affidare a lui l’opera di restauro e rifacimento della pa- 72 Sulla iscrizione di Pietro Guido all’albo corporativo della Ma tricula genovese si veda, ancora, CALZAMIGLIA 1999, p. 64. Per un quadro riassuntivo delle vicende legate alla “Ma tricula a rtis pictoria e et scuturia e” cfr. CASTELNOVI 1987, pp. 73, 78-79; ALGERI 1991, pp. 68-69 e CALDERA 2005, pp. 71-74. 73 Oltre agli autori citati alla nota precedente si veda, infine, quanto esposto in MIGLIORINI 2007, pp. 392-396, dove è stilato un quadro schematico della composizione sociale degli iscritti alla corporazione dal XIV secolo al 1415. 74 CASTELNOVI 1987, p. 73. 75 Per quel che concerne l’atto di locazione si rimanda a CALZAMIGLIA 1999, pp. 65-70. 76 Sul ruolo di mecenate ricoperto dal vescovo Leonardo Marchese, e sulla sua politica preferenziale nei confronti dei pittori piemontesi, si rimanda a CALZAMIGLIA 1986, specie pp. 13-18; e GAGLIANO CANDELA 1988, pp. 453-464. 77 Si veda SISTA 2003, pp. 82-88. 78 Il polittico di collezione privata è pubblicato in NATALE 1996, p. 51 (lo studioso, pur non soffermandosi sulla iscrizione che compare lungo il margine inferiore dello scomparto centrale, ascrive l’opera tra la fine del Quattrocento e i primissimi anni del Cinquecento); in merito al polittico di Sa n Berna rdino cfr. CALZAMIGLIA 1999, p. 83. 156 PROPOSTE DI AGGIORNAMENTO SULLA PRODUZIONE PITTORICA DEI BIAZACI E DEL GIOVANE PIETRO GUIDO DA RANZO rete della “navata destra” del santuario79. Un incarico prestigioso e, al contempo, un confronto gravoso con i propri maestri che, al di là degli esiti qualitativi e dell’entità degli interventi operati, servì ad affermare definitivamente la propria maniera in loco. Pietro, infatti, ebbe modo di lavorare intensamente almeno fino al 1542, anno in cui firmò assieme al figlio Giorgio il trittico della Ma donna col Ba mbino tra i sa nti Seba stia no e Rocco affrescato nella chiesa di San Marco a Coasco. Un’opera, questa, che può essere considerata l’atto conclusivo della lunghissima carriera del maestro arrosciano e, allo stesso tempo, il passaggio di testimone al figlio, il quale ereditò la bottega dal padre e, con essa, i cartoni che vi facevano parte, come si evince dal polittico conservato nell’oratorio della Madonna delle Vigne a Ranzo, eseguito a distanza di soli due anni80. Non è il caso di soffermarsi oltre sulle opere della maturità di Pietro Guido. Quel che interessa, qui, è rilevare come il motivo iconografico dominante nella Vergine dell’uccellino – ovvero il gesto di promissione, il “numero degli sposi” –, certo tradotto in forme più appiattite, trite e prosaiche, tenda a riproporsi quasi meccanicamente in una nutrita serie di dipinti attribuiti al maestro. È il caso della tavola in collezione privata cui si è fatto cenno, di un trittico affrescato nella chiesa di Santa Margherita di Mendatica; e, in misura più fedele, della lunetta affrescata nel protiro della chiesa parrocchiale di Bacelega, del polittico di Sa nto Stefa no tra i sa nti Rocco e Seba stia no, conservato nella parrocchiale di Pogli e datato al 1537, e, infine, di uno dei massimi vertici mai raggiunti dal pittore durante i primi anni Trenta del XVI secolo, il polittico della Vergine col Ba mbino e sa nti nella parrocchiale di San Lazzaro Reale81 (fig. 17). Non sono soltanto le straordinarie affinità iconografiche – che, di per sé, consentirebbero già di ipotizzare, come nel caso di Giorgio Guido “il Giovane”, l’utilizzo di eventuali cartoni apprestati all’epoca dell’alunnato svolto presso i Biazaci se non, addirittura, ereditati allo scioglimento di quella bottega – ad accomunare l’affresco di Pietrabruna con le opere del ma gister di Ranzo. La maniera affilata di intagliare i volti delle figure e di conferire loro sostanza cromatica attraverso un modellato generalmente luminoso e rilevato per gradi diversi di chiaroscuro, le pose aggraziate e composte, i gesti affettati, e quell’aria fredda e Fig. 17 - SAN LAZZARO REALE, Chiesa parrocchiale. Pietro Guido, Vergine col Ba mbino e sa nti, part. del polittico. 79 Sulla querelle relativa alla parete palinsesto del santuario di Montegrazie ridipinta dalla bottega di Pietro Guido cfr. CALZAMIGLIA 1999, pp. 84-95 e BARTOLETTI 2004, pp. 113-121. 80 Circa l’affresco di Coasco e il polittico di Ranzo cfr. CALZAMIGLIA 1999, pp. 121-127 e SISTA 2003, pp. 87-88. 81 Per una rassegna delle opere repertoriate, seppur dubitativamente, come autografe di Pietro Guido da Ranzo si rinvia a DE NEGRI 1974, p. 344; CASTELNOVI 1987, p. 160 e a CALZAMIGLIA 1999, pp. 63-122. 157 STEFANO G. PIRERO Fig. 18 - REZZO, Cappella dell’Ospedale. Pietro Guido, Pietà (da M.T. VERDA SCAJOLA 1993, p. 128). la cifra migliore per descrivere la gioventù e, in generale, i personaggi positivi del dramma sacro. Al contrario, le linee spezzate e aguzze, i colori accesi e i contrasti marcati definiscono preferibilmente la senilità, o intervengono a caricare espressivamente i personaggi negativi, come gli sgherri famelici, gli avidi ebrei e gli innumerevoli aguzzini che popolano le scene dei grandi cicli di Rezzo e Montegrazie. In quest’ottica, il volto del sa n Ma tteo di Pietrabruna – che Tommaso Biazaci descrive come un giovane estasiato – funge da modello per le turbe di angioletti musicanti che affiancano sistematicamente lo scranno sopra cui posa il gruppo della Madonna col Bambino, o che svolazzano attorno al corpo sanguinante del Crocefisso. Basti per tutti il confronto con lo scomparto centrale del polittico di San Lazzaro Reale, con le figure degli Apostoli più giovani che si stringono attorno al tavolo dell’Ultima Cena , nel Cristo flagellato di Montegrazie o, infine, nel sa n Seba stia no del polittico di Pogli. Analogamente, il volto dai tratti marcati del sa n Gregorio di Pietrabruna diviene il prototipo preferibile per descrivere un personaggio dall’età avanzata e, in modo particolare, per esprimere la con- trasognata che domina le espressioni rappresentano elementi altrettanto decisivi. Il disegno del volto della Madonna di Pietrabruna, il suo sguardo, la mimica, la gestualità, persino il principio di costruzione delle carni ritorna, per esempio, in diverse figure femminili del più celebre ciclo pittorico di Rezzo: nella Vergine che assiste alla Resurrezione di La zza ro; nel gruppo di pie donne che si stringono intorno alla Madre dolente, in basso a sinistra, nella grande scena della Crocefissione; nella figura che affianca la Madonna nella Sa lita a l Ca lva rio; e, in maniera ancor più puntuale, nella Madre che, attorniata dalla Maddalena e san Giovanni, piange sul corpo del Figlio esanime ai piedi della Croce, o in alcuni dei personaggi che la circondano nella scena del Sepolcro. Esiste, si diceva in apertura, una sorta di psicologia rude ed elementare che governa la stesura del colore e la costruzione dei chiaroscuri di questa come di altre opere del maestro di Ranzo e che, in nuce, si manifesta già nel sa n Gregorio di Pietrabruna. In Pietro Guido, a ben vedere, i lineamenti sottili e smussati che disegnano i volti, al pari dei morbidi passaggi chiaroscurali che ne rilevano le carni, rappresentano 158 PROPOSTE DI AGGIORNAMENTO SULLA PRODUZIONE PITTORICA DEI dizione esistenziale della Madonna dolente. Illumina, ancora una volta, il raffronto con la Vergine che figura negli episodi del Compia nto e del Sepolcro nel santuario mariano di Rezzo. Del tutto identica, infine, appare la caratterizzazione somatica della Madre addolarata nella Pietà della cappella dell’Ospedale di Rezzo, dove Pietro Guido si direbbe aver ri-spolverato il medesimo cartone utilizzato a Pietrabruna (fig. 18). Per concludere, vorremmo riprendere rapidamente le fila di un ragionamento già impostato da Alfonso Sista circa l’età anagrafica del pittore, in modo da avvallarne ulteriormente la bontà delle conclusioni. Il soggiorno genovese, durato verosimilmente dal 1499 al 1503, servì a Pietro Guido soprattutto per conseguire il titolo di ma gister ed esercitare liberamente la professione dentro le mura di Genova. Da una modifica apportata nel 1415 agli statuti corporativi dell’Arte si evince come i maestri forestieri, per potervisi iscrivere a pieno titolo, dovessero risiedere in città per circa dieci anni. Periodo di tempo necessario per acquisire la cittadinanza e acclimatarsi ai gusti e alle esigenze della committenza locale 82. Non si conosce l’esatta situazione della Ma tricula alla fine del Quattrocento. Tuttavia, considerando la natura storicamente conservatrice dei suoi statuti, si deve concludere che le cose non fossero cambiate poi molto all’epoca dell’approdo del giovane Pietro Guido. Egli, lo si evince dall’atto di sub-affitto del 1500, giunse in città con il titolo di “pictor”. Una qualifica che lo contraddistinse durante gli anni Novanta, quando si era ormai affrancato dalla bottega dei Bia- BIAZACI E DEL GIOVANE PIETRO GUIDO DA RANZO zaci e dimorava stabilmente a Genova – e le citazioni foppesche che si rintracciano in alcune opere illuminano sui trascorsi genovesi del pittore – in attesa di concludere il proprio percorso di formazione e raggiungere, così, il titolo necessario per poter lavorare in proprio. In tal senso, il polittico della Ma donna col Ba mbino già a Palazzo Bianco, datato al 1490 e realizzato in collaborazione con Tommaso Biazaci, potrebbe anche valutarsi come un’opera di presentazione e promozione presso la corporazione degli artisti già residenti a Genova, in cui erano rifuse le cifre artistiche tipiche della bottega di provenienza e del candidato. Se si assume, dunque, che Pietro Guido abbia dimorato stabilmente a Genova durante gli anni Novanta e se si considera, ancora, che un giovane allievo entrava a bottega all’età di circa tredici anni e che il proprio apprendistato poteva durare anche un decennio, allora si deve concludere che il pittore di Ranzo doveva esser nato nella decade ‘60-’70 del Quattrocento83. L’affresco della Vergine dell’uccellino, insomma, rappresenta un documento storico-artistico di fondamentale importanza. Esso permette, da un lato, di confermare le supposizioni avanzate dalla critica circa i tempi di esecuzione del grande ciclo di affreschi a Montegrazie, i quali evidentemente debbono scalarsi lungo un arco cronologico dilatato e ricco di cesure, e, dall’altro lato, di dirimere positivamente alcune delle questioni pendenti circa i contatti stabiliti all’interno della bottega dei fratelli Biazaci da un giovane garzone di nome Pietro Guido da Ranzo. 82 Si rimanda, ancora una volta, a quanto riportato in CASTELNOVI 1987, p. 73 e ALGERI 1991, p. 68. 83 Si veda quanto esposto in SISTA 2003, pp. 87-88. Fonti archivistiche Sa c ro , e va go Gia rd in e llo , e su c c in to Re pilo go d e lle Ra ggio n i d elle Ch iese, e Dio c esi d ’Alb en ga , c o m in c ia to d a Pie r Fra n c e sc o Co sta Ve sc o vo d ’Alb e n ga d ell’a n n o 1624, ms. cart., ADA, Tomo III, f. 327 r. e v. 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