Oggi è Gino, ma vent'anni fa era Valerio
Il Gino-gate non è una notizia nel senso tradizionale del termine, quanto piuttosto uno stupido flash-mob virtuale che in un paio di giorni si è inesorabilmente trasformato in un aggregatore di domande di natura deontologica, etica e persino sociologica. Ma facciamo un passo indietro riassumendo la vicenda per chi si fosse perso i passaggi principali di questo ennesimo corto-circuito mediatico all'italiana.
Tutto ha inizio il pomeriggio del 31 dicembre scorso, quando le foto postate su Instagram da alcune celebrity del web vengono commentate da migliaia di utenti con la parola “Gino”. Un giochino che in poche ore è diventato virale, al punto che la gente in rete ha iniziato a chiedersi chi diavolo fosse questo Gino il cui nome stava comparendo senza soluzione di continuità sotto le fotografie di Chiara Ferragni, Gwyneth Paltrow, Mario Balotelli, Cristiano Ronaldo, Emma Marrone e infiniti altri. Arcano presto risolto: Gino non è altro che la “sagace provocazione” di uno Youtuber italiano, tale Blur, il cui canale Youtube conta circa 500mila iscritti ma che difficilmente avrete sentito nominare se avete più di 14 anni o se non avete un'insana passione per il talento di chi ha fatto del bestemmiare durante il gaming un'arte. Ebbene la performance di questo artista 2.0 è stata quella di una “chiamata alle armi” dei propri follower con una precisa istruzione: andate e spammate la parola “Gino” sotto la bacheca di tutti i personaggi famosi su Instagram. Roba da far impallidire Marina Abramovich.
Ma la cosa inquietante è che gli adepti di questo aspirante guru lo hanno preso alla lettera, andando a inondare con “Gino” i profili Instagram di chiunque. Un'ideona che il gregge del web ha accolto e rilanciato in grande stile, causando due principali effetti. Il primo: rovinare l'umore di Belen infastidita dai commenti che “sporcavano” le proprie storie e le proprie foto di Capodanno; ma di questo cercheremo di farci una ragione. Il secondo: scatenare i principali organi di informazione italiani nel racconto di questa bravata social.
E qua prende forma la prima delle domande che ci stavamo ponendo a inizio articolo. È giusto che i media inseguano e diano la dignità di notizia a boutade del genere? Il fatto di essere qua a parlarne, del resto, rischia di ingenerare un paradosso meta-comunicativo, per cui criticando chi ne ha parlato ne stiamo parlando a nostra volta. Vero; ma correremo il rischio. D'altronde il corto-circuito mediatico che ne è scaturito è qualcosa di troppo inquietante per fare finta di niente. Già, perché se da un lato tutta la community delle celebrità nostrane ha passato 24 ore di social-subbuglio per questa specie di flash-mob che si è presto rivelato un troll-mob, dall'altro c'è da farsi qualche domanda su come sia possibile che migliaia di utenti si divertano o si sentano gratificati nell'andare a scrivere “Gino” sotto le foto di un vip. Un gesto che sprigiona la stessa portata provocatoria e di ribellione dell'andare a suonare ai citofoni per poi scappare. E che ci racconta ancora una volta qualcosa non tanto dell'era in cui viviamo, quanto della capacità dei social network di amplificare tutto, idiozie in primis.
Insomma, se qualcuno volesse vedere nel capronismo da tastiera un segno dei tempi sarebbe decisamente fuori strada. In questo senso ci viene in soccorso una notizia di 20 anni fa, datata agosto 1998, sulla quale si arrovellarono opinionisti e sociologi. Nel corso di quell'estate a Rimini e a Riccione scoppiò un inspiegabile fenomeno di massa, con migliaia di ragazzi che andavano in giro per tutta la notte gridando “Valerio” per le vie delle città e sotto condomini e abitazioni. Partito da Riccione l'andazzo contagiò presto anche Rimini creando immaginabili problemi alla quiete pubblica e innescando risse fra villeggianti in cerca di riposo e “amici di Valerio”.
Una “moda” che fu bollata come “pura follia” dall'allora coordinatore dell'Associazione per la difesa del consumatore, Telefono Blu, Piero Orsoni: “È un urlo liberatorio privo di significato che viene lanciato così, tanto per fare qualcosa. Può sembrare uno scherzo ma non è così. Questi giovani, amici di questo fantomatico Valerio, probabilmente alienati o angosciati, ripetono il nome ad alta voce per tutta la notte. Qualcuno deve fare qualcosa...non è più tollerabile tutto ciò”.
Riassunto: gli anni passano, ma le cretinate restano. Con qualche differenza. Per esempio nel 1998, né l'allora segretario della Lega, Umberto Bossi, né il leader dell'Ulivo, Romano Prodi, pensarono di mandare un messaggio pubblico di auguri a Valerio. Cosa che invece, con Gino, hanno puntualmente fatto sia Matteo Salvini che Matteo Renzi, attraverso i propri profili Instagram. In questo i social hanno segnato la vera rivoluzione. Perché 20 anni fa se stavi nella tua cameretta a bestemmiare con un Nintendo fra le mani non avevi fan pronti a rilanciare il tuo “verbo”, mentre oggi i gradi di separazione fra uno youtuber e un aspirante premier sono di fatto evaporati. Il che qualche volta (non in questo caso), può persino essere un bene.
Ultimissima considerazione: con i social tutto è più trasparente. Così se l'identità del molestatore che lanciò per primo il grido “Valerio” rimase per sempre ignota, adesso, dopo neanche 24 ore, già conoscevamo nome, nickname e volto del provetto provocatore. Non solo: lo youtuber in questione si è pure preso la briga di postare un video per rivendicare la paternità dell'ingegnosa trovata e per difendere, da novello Bravehart, i suoi adepti dall'accusa di essere dei pecoroni senza personalità. Un mirabolante speech in cui il nuovo idolo del web tiene - nell'ordine - a farci sapere che “Gino” è un “trend-setter” (sic!) partito da lui, che non è una molestia ma un “progetto sciallo”, che se sei un influencer non puoi lamentarti di un altro influencer che ha “fatto partire una moda” e che in fondo c'è poco da stupirsi perché non si tratta neppure di un'idea così originale in quanto lui, Blur, agli albori della sua carriera da youtuber già si era inventato una simile performance chiedendo ai suoi folloui di postare su Twitter, Facebook e Youtube il neologismo #ZEJIMBRASDAY. Con un solo rammarico: “non andò mai virale perché avevo pochi numeri”.
Fra averli e darli i numeri, forse, a volte, è meglio la seconda. Quasi quasi adesso apro la finestra e per disperazione inizio a gridare “Valerio”.