Partiamo dalla fine. Claudio Marchisio non è più un giocatore della Juventus. Il "principino" ha rescisso il contratto che scadeva nel 2020, affidando ai social il suo ultimo e nostalgico messaggio al popolo bianconero. Sì, perché per chi tifa Juve, Marchisio non è un giocatore come gli altri.
Nato a Torino nel 1986, ha indossato il primo completino a strisce bianche e nere a 7 anni, nel 1993, quando è entrato a far parte del vivaio. E non l’ha più tolto, se non per una brevissima parentesi in terra toscana. Ha fatto la trafila, completa, delle giovanili dove si è abituato ad alzare trofei da leader e, spesso, da capitano. C’era già, allora, chi lo chiamava “Tardellino” facendo paragoni che, col senno di poi, sono stati assai premonitori.
Quelli furono anni di assestamenti tattici, con il passaggio da attaccante centrale a centrocampista e mezz’ala. Forse per le sue caratteristiche fisiche, forse per la sua indole, di grande visione e sacrificio, messa in campo fin dall’esordio con la prima squadra, nel 2006, in Serie B, con Deschamps in panchina, nel momento più buio della storia della Juventus tra scandali e processi. Una squadra che, per risalire la china dopo Calciopoli, decise di affidarsi anche ai suoi giovani più promettenti. Come Giovinco e come Marchisio. E come Balzaretti che amava chiamarlo, per la sua eleganza, fuori e dentro il campo, “Piccolo Lord”.
In quella stagione, del resto, c’era un’eredità importante da raccogliere in mezzo al campo: quella di un campione come Patrick Vieira che aveva preferito trasferirsi ai rivali interisti piuttosto che seguire la squadra nel baratro della serie cadetta. Per Marchisio venticinque presenze, neanche un gol, ma già tanta classe e la consapevolezza, per la società, di avere tra le mani uno dei centrocampisti più talentuosi e giovani del panorama italiano. E non è un caso se, poco tempo dopo, nel 2009, Marchisio viene inserito nella lista dei 50 giocatori internazionali più promettenti del Times, in decima posizione.
I numeri di un campione
Sono in pochi a ricordarlo, ma nel 2007 Marchisio venne mandato a Empoli, con Giovinco, per farsi le ossa. A Torino era chiuso da giocatori come Tiago e Cristiano Zanetti che, negli anni successivi, in quanto a fama e giocate, supererà facilmente. In un’intervista del 2013, rilasciata a Rivista Studio, è lo stesso giocatore a ricordare quell’esperienza lontana dalla Mole, e dall’allora stadio Delle Alpi, con un pizzico di nostalgia:
Il mio obiettivo è cercar di fare tutta la mia carriera alla Juve. Si parla di bandiere che non ci sono più, di calcio globale che cambia, di valori che si sarebbero persi. Io ho solo in mente di fare il numero più alto di presenze con questa maglia. Sarebbe il massimo per me: diventare una bandiera della Juve. Vorrei poter non andare più via. Del resto ho fatto solo un anno fuori, ad Empoli; non lo rimpiango perché mi ha fatto crescere tantissimo come uomo, ma se non ci fosse stato sarebbe stato perfetto.
Parole che lette oggi fanno uno strano effetto. Per Marchisio rimanere alla Juve, per sempre, sarebbe stata la gioia più grande, l’obiettivo più importante, un sogno vero. Non è strano se si pensa che siamo davanti a uno che ha indossato la fascia di capitano ad appena 24 anni, nel 2010, in Europa League contro il Fulham. Oggi, invece, dopo questa seoparazione, quello che resta è raccontato dai numeri: 14 stagioni da professionista, 318 presenze di cui 288 da titolare (26 con la maglia dell’Empoli) e 33 gol; e dai trofei vinti: 1 Campionato, 1 Supercoppa, 1 torneo di Viareggio con la Primavera; 7 scudetti, 3 Supercoppe italiane, 4 Coppe Italia con la prima squadra
La nazionale (e la mancata vittoria)
Nel 2007 Marchisio esordisce con l’Under 21 allenata da Casiraghi. Nel 2008 viene presentato come uno dei pilastri nella missione olimpica a Pechino ma s’infortuna durante la seconda partita ed è costretto ad abbandonare la spedizione in terra cinese. Non è fortunato neanche durante gli Europei di categoria, l’anno seguente. L’Italia perde in semifinale con la Germania. Marchisio non c’è, per squalifica, e la sua assenza per molti è decisiva.
Nello stesso anno fa il salto. Viene convocato da Lippi che lo porta con sé anche ai Mondiali, sfortunati per gli azzurri, del 2010 in Sudafrica. Agli europei di Polonia e Ucraina, nel 2012, viene confermato da Prandelli. Gioca titolare tutte le partite. Ormai è insostituibile. E quella finale resta forse la delusione più amara della sua carriera (insieme alle finali di Champions): “Dopo la partita persa 4-0 con la Spagna ci sentivamo cani bastonati. Nessuno parlava, nessuno ha dormito. Delusione difficile da smaltire. Ero mortificato per come non fossimo riusciti a entrare in partita. Ci stava perdere, ma non in quel modo”. Nel 2014, ai mondiali in Brasile, segna il gol del vantaggio italiano nella partita d’esordio contro l’Inghilterra. Il più importante, tra i cinque, realizzati con la maglia azzurra.
Il rinnovo e le parole di Agnelli
Alla fine del 2015, Marchisio incarna al meglio lo spirito e l’anima della Juventus. Per la prima volta, Del Piero sembra avere un erede ben riconoscibile, accettato da tutti. Pirlo è appena partito per New York e c’è timore per il trauma che la sua assenza potrebbe generare nello spogliatoio. Così, negli stessi giorni, arrivano due rinnovi: quello di Allegri e quello di Marchisio. Lo stesso contratto, con scadenza 2020, che oggi, si è scoperto non verrà onorato “fino alla fine”, per restare all’interno di un linguaggio molto bianconero. Ed è ancora più strano pensarci rileggendo le dichiarazioni, di grande affetto, pronunciate allora dal Presidente Agnelli:
Claudio è già una leggenda […] oggi è il punto di contatto tra la Juve di ieri, di oggi e quella di domani. Poteva già essere considerato un senatore, ma ora, con questo rinnovo di cinque anni, lo è a tutti gli effetti. Questo è un onore, ma anche una responsabilità, perché toccherà a lui e ad altri suoi compagni che hanno anzianità di spogliatoio, spiegare cos'è la Juventus ai nuovi giocatori
L’infortunio, la panchina e il futuro
Il 2016 è l’anno peggiore della sua carriera. Il 17 aprile si rompe il legamento crociato anteriore nella sfida contro il Palermo e chiude la prima stagione della carriera in Serie A senza segnare neanche un gol (succederà ancora nel 2017-2018). Ed è forse al suo rientro che si accorge come il suo ruolo alla Juventus non è più saldo come in passato. Gioca meno e spesso finisce in panchina. Soprattutto nelle gare che contano.
L’ultima stagione, dal punto di vista personale, è opaca nonostante la Juve trionfi in campionato nella volata con il Napoli e arrivi a giocarsi la finale di Champions con il Real Madrid. Il suo ruolo è quello della comparsa, dell’uomo che esce dalla panchina, della soluzione alternativa ai titolari. Si inizia a parlare più della sua importanza nello spogliatoio che in campo. Quest’anno, con grande probabilità, lo spazio sarebbe stato ancora minore. Meglio, allora, dire basta.
Così, nell’anno di Cristiano Ronaldo, ma anche della partenza di Buffon, la Juve perde la sua bandiera, quella che ultimamente aveva forse trascurato di più. Quella che pochi, pochissimi, si aspettavano di vedere già ammainata già quest’estate. E oggi fa specie rileggere la descrizione di Marchisio, chiara e senza fronzoli, che Buffon nel 2015, fece per il sito della Uefa:
Insieme a Leonardo Bonucci, penso che sia il ragazzo che quest'anno abbia fatto l'anno della consacrazione dal punto di vista caratteriale. Un ragazzo che adesso ha piena consapevolezza del proprio valore, un ragazzo intelligentissimo tatticamente e tecnicamente molto valido. In più ricopre tanti ruoli a centrocampo svolgendo sempre bene il suo lavoro, per cui è un polivalente.
Uno affidabile e duttile. Un metronomo. Un gran lavoratore. Uno juventino duro e puro. Marchisio lascia a testa alta, avendo dato tutto per una maglia che continuerà a sentire sua anche in altri lidi, in altri campi e in altri spogliatoi. Una carriera, la sua, che per fortuna sarà per sempre conservata e onorata all’interno della Hall Of Fame dello Juventus Stadium, un riconoscimento che spetta solo ai più grandi.
L’addio alla Juve, a meno di grandi sorprese, non sarà anche l’addio al calcio. Il principino, anche se lui si sentiva “per metà principe e per metà fabbro”, continuerà a giocare. Probabilmente indossando quel numero, l’otto, che lo ha accompagnato durante i suoi anni migliori. Un numero pieno di simbolismi che racconta chi era Claudio Marchisio più di qualunque ricordo, fotografia o vittoria. Perché l’otto, d’altronde, “non è altro che un infinito che ha alzato lo sguardo”. Senza abbassarlo, mai.