Bettini: «Vi spiego dove ha sbagliato il Pd. Ora opposizione con umiltà»

Goffredo Bettini è una delle voci più autorevoli nel Centrosinistra. Fu tra i protagonisti della svolta che ha portato il Pci a diventare Pds e poi Ds e Pd. A Roma fu lui ad inventare e realizzare la candidatura vincente di Francesco Rutelli a sindaco. E oggi dice al Pd "Non hai saputo parlare al tuo popolo. Riparti dallopposizione e con umiltà"

 Goffredo Bettini viene da lontano. Ed è andato lontano. Dalla segreteria dei giovani comunisti fino al coordinamento della segreteria nazionale Pd. Già parlamentare Ue, senatore, deputato, consigliere regionale. E’ stato lo stratega della candidatura di Francesco Rutelli a sindaco di Roma.  Ancora oggi la sua parola ha un peso profondo nel Partito e nel dibattito sulla sinistra.

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di Goffredo BETTINI
Dirigente Nazionale
Partito Democratico

 

 

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Abbiamo subito una sconfitta storica. Infatti, se ragioniamo su un arco temporale ampio, balza agli occhi il rovesciamento di una anomalia italiana. Negli anni ’70 l’anomalia consisteva nella forza elettorale di una sinistra comunista e socialista in grado di raggiungere quasi il 50% dei voti. In Europa nessun paese presentava una situazione simile. Oggi si è verificata una anomalia diversa e contraria. In Italia è quasi scomparsa la rappresentanza politica della sinistra. LeU ha ottenuto un risultato insignificante. Il Pd è sprofondato al 18%, raggiunto anche con un elettorato, democratico, ma non di sinistra.

Al di là delle considerazioni contingenti, comunque utili, si impone, per noi, un tema strategico. La ricostruzione di un campo largo e solido progressista: del tutto nuovo nella lettura della realtà, nella cornice dei suoi valori e negli strumenti di rapporto con gli iscritti e i cittadini.

Molti affermano che ciò è del tutto inutile; perché la sinistra è un ferro vecchio, un residuo ostacolante l’innovazione e l’apertura alla società. Ai tradizionali sostenitori di questa tesi si sono aggiunti, nell’ultimo periodo, anche i “macronisti” in salsa italiana.

Tale tesi è del tutto priva di fondamento. La sinistra attuale, in tutte le sue forme, ha dimostrato di essere al capolinea. Ma la sinistra, in quanto desiderio insopprimibile nell’animo umano di un riequilibrio tra i forti e i deboli, è in natura, nelle cose. Almeno, fin dalla rivolta di Spartacus, che non a caso ha dato il suo nome al movimento rivoluzionario più colto e coraggioso che l’Europa abbia mai avuto; quello tedesco: gli “spartachisti” di Rosa Luxembourg.

Se si perde questo sentimento che spinge in varie forme ad accorciare le distanze tra chi sta sotto e chi sta sopra, non esiste più la sinistra. Tale sentimento può essere declinato in modi diversi: il moto rivoluzionario che tenta di conquistare il potere con la forza; il riformismo gradualista; il compromesso socialdemocratico; la collaborazione per il bene del proprio paese anche con gli avversari. La questione, tuttavia, non riguarda la strada che si intende perseguire. Qualsiasi strada si scelga l’importanza è che essa sia vivamente alimentata da quella pressione interiore che non sopporta l’ingiustizia, l’offesa e la prevaricazione.

 

Mantenendo, sempre, uno sguardo storico, possiamo ben dire che negli ultimi 30 anni, nelle nostre file, questo sentimento si è drammaticamente affievolito. Ci sono ragioni oggettive, esterne, di carattere mondiale. Non c’è tempo per analizzarle qui, come si dovrebbe. Basta constatare, tuttavia, che l’89, e il crollo del comunismo, non hanno lasciato sul campo una inedita ricerca di un punto di vista critico sul mondo. Un tentativo di ricostruire le ragioni di una umanizzazione e democratizzazione dei processi di globalizzazione. Da quella data, che sancì la fine dei regimi autoritari, burocratici e poveri culturalmente, socialmente ed economicamente dell’est, la sinistra, in particolare quella italiana, ha messo al centro lo sblocco del sistema politico e la questione del governo e del potere. Abbiamo fatto meglio degli altri su questo terreno. Ma via via abbiamo assunto sempre di più uno sguardo illuministico; non di rado di riformismo astratto. Mentre la cultura, le passioni, le speranze e le sofferenze delle persone via via andavano da un’altra parte.

 

Gli anni che ci stanno alle spalle, rimarranno, infatti, segnati dallo sfondamento di Berlusconi sul piano del costume, del modo di pensare, della qualità dei rapporti tra le persone, della mancanza di ogni senso di comunità e istituzionale. La Repubblica è così cambiata in peggio alla radice. Il senso comune è degradato.

 

Ci siamo salvati, noi, da questa tempesta? Penso di no. Al di là del fatto che per molto tempo siamo rimasti diversi e, secondo me, migliori rispetto all’andazzo corrente, progressivamente anche noi abbiamo subito una mutazione antropologica. L’ansia per il mantenimento della propria posizione elettiva, la scomparsa diffusa di un impegno disinteressato nei gruppi dirigenti, lo stile di vita che essi prediligono, la volgarità di un certo nostro dibattito interno, persino il modo di vestire o di vivere la quotidianità, hanno perduto la sobrietà, la dedizione, la predisposizione ad accettare un sacrificio personale, tipici di una classe dirigente che vorrebbe e dovrebbe cambiare il mondo.

 

Così, rispetto agli “ultimi”, a chi sta male, a chi, in modo anche transitorio, vive una difficoltà, a chi sperimenta la solitudine e la fragilità nell’affrontare la nostra modernità, noi siamo apparsi estranei. Vale a dire, anche quando abbiamo professato programmi volti al miglioramento delle condizioni della parte più debole della società, è come se avessimo agito dall’esterno: senza vera empatia e condivisione; senza conquistare, dall’interno e sinceramente, lo sguardo di chi sta alla base della piramide. Tant’è che progressivamente nel nostro elettorato si sono drasticamente ridotti i consensi nelle borgate e tra gli operai, mentre si è consolidato quello dei ceti medi e dei garantiti.

 

Si è consolidata una lontananza. Una incomunicabilità nelle pratiche sociali e nel linguaggio. E tale lontananza si è aggiunta a quella lontananza tra gli esseri umani, di cui parlava già Heidegger, quando affermava che la velocità del progresso tecnico, (allora dei treni) pur accorciando le distanze fisiche non creava più vicinanza. Anzi gettava le persone, nel caos della vita, nello spaesamento e nella solitudine. Oggi dove tutto è velocissimo e le persone possono nello stesso tempo sapere tutto ed essere ovunque, tale lontananza disperdente si è fatta drammatica e se ad essa si aggiunge l’afasia della politica, il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi. Una rabbia distruttiva e autodistruttiva di una parte amplissima di cittadini italiani.

 

In questa condizione noi abbiamo svolto una campagna elettorale basata su un racconto positivo e ottimistico delle condizioni del paese. Ci sono, è vero, punte di avanzata, di ripresa, di eccellenza. Vanno valorizzate. Ma contrapporre in modo radicale la rabbia alla speranza, è stato un errore di sostanza. La speranza per essere credibile, deve saper includere la rabbia; che c’è. La rabbia, come è nella tradizione della sinistra, rappresenta il carburante del cambiamento. Il tema è come saperla interpretare, volgere al positivo, trasformare in politica. La sinistra italiana, durante il fascismo numericamente piccola cosa, è diventata grande innalzando i ceti popolari dal plebeismo alla strategia politica, alla consapevolezza civile, all’azione concreta di inveramento della costituzione in una Repubblica in continuo rinnovamento e in rapporto con l’azione delle masse.

 

Il massimo della lontananza si è raggiunto durante il lungo “termidoro” dei governi tecnici. Inevitabilmente, in quanto tecnici, concentrati nel rispetto delle compatibilità piuttosto che nell’affrontare l’effetto che la crisi del 2008 aveva avuto sui ceti deboli e del ceto medio italiani. Con la beffa, per altro, del dover assistere alla moltiplicazione dei profitti dei ricchi e al peggioramento costante dei redditi del lavoro dipendente e operaio. Così la crisi ha messo insieme disagio materiale, mancanza di rappresentanza e solitudine esistenziale e sociale. E’ il terreno, questo, più propizio per la demagogia, il pensiero violento, i rigurgiti xenofobi, razzisti e fascistoidi e per la crisi democratica.

 

Sarebbe ingiusto non ricordare i tentativi di accorciare la forbice di questa lontananza tra la sinistra e il popolo, la cultura e gli intellettuali. L’Ulivo fu un tentativo. Ma sappiamo come è andato a finire. La prima fase del Pd, che suscitò partecipazione ed entusiasmo non tanto sui programmi quanto sul coraggioso tentativo di costruire una nuova forma politica; ma anche questo tentativo sappiamo come precocemente è stato strozzato, per le debolezze del gruppo dirigente, compreso il sottoscritto, e il ritorno ad una idea di partito burocratica, apparatizia e rituale. Un altro tentativo (è assurdo non riconoscerlo), è stato messo in campo da Renzi. Il Renzi dei primi mesi, quando sembrò avere l’ambizione di cambiare la Repubblica e il rapporto tra le istituzione e i cittadini. La rottamazione per un certo periodo ha avuto questa coloritura: rottamare le vecchie classi dirigenti italiane, aprirsi alle forze vive della società, superare consuetudini, anche a sinistra, burocratiche, autoreferenziali, e disboscare le rendite ovunque esse avevano messo radici.

 

Ben presto, però, questa visione ampia e nazionale del rottamatore, si è sempre più, dopo i successi iniziali, trasformata in una contesa interna contro i dirigenti, molti anche di valore, che avevano tenuto precedentemente le redini del partito e della sinistra. La rottamazione abbandonando l’ambizione di un generale rinnovamento repubblicano, è via via diventata un fatto domestico. Nel Pd: via i vecchi che li sostituisco io! Questa sensazione di resa dei conti interna, di fronte alle inevitabili prime difficoltà nel rapporto col paese dopo lo straordinario risultato delle europee, ha portato Renzi ad un solipsismo autoritario. Ad una sordità rispetto ai conflitti e ai problemi reali. Lo ha imprigionato in una corazza difensiva, impermeabile ad ogni confronto, dubbio, suggerimento. E’ venuto fuori, così, un modo sciatto e sbrigativo di gestire il potere e di rapportarsi con gli altri. Erroneamente il segretario ha pensato che fosse un’opposizione troppo pregiudiziale ad indebolire il Pd. C’è stato anche questo. Ma il dato fondamentale è che la sua stessa leadership andava via via assumendo un carattere scostante, malamente scanzonato, protetto da fedelissimi non di rado volgari e opportunisti. La vicenda così grave e allo stesso tempo capricciosa, della formazione delle liste per molti è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Come è stato evidente nella posizione critica e giusta assunta su questo tema da Andrea Orlando.

 

La soluzione è genericamente andare più a sinistra? In che senso andare più a sinistra? Programmi più di “classe”? Più radicali? Con un ritorno alle antiche parole di un tempo? Se bastasse questo LeU non avrebbe preso solo il 3,5%. Ho la sensazione che invocare un conflitto più duro sia persino controproducente quando non si sa bene dove sia il vero conflitto contemporaneo tra i deboli e i forti, dove sia la sofferenza delle persone.

 

Dobbiamo accettare il giudizio dell’elettorato. L’elettorato che non ci piace perché non ci vota non possiamo abrogarlo. Dobbiamo saperlo riconquistare. La strada è lunga. E per me si fonda su un processo complesso che intreccia nuovi luoghi della politica, con una pratica sociale che ci aiuti a capire le contraddizioni in mezzo al popolo, con forme della politica pazientemente reimmerse nella vita reale delle persone. Crollate le ideologie, esauriti i partiti di massa, annebbiati i valori di fondo la risposta non può essere l’ansiosa e solitaria ricerca di ognuno di salvare il suo fazzoletto di potere. Che Pd hanno visto i nostri elettori? Tanti militanti disinteressati e per bene. Purtroppo sempre di meno. Ma principalmente hanno visto feudatari senza controllo nei territori, correnti in lotta tra di loro, cordate prive di politica e segnate dal trasformismo e da un certo cinismo nel mettersi agli ordini di quelli che considerano i capi del momento. Ecco perché ritengo fondamentale per rilegittimare il nostro pulpito poco credibile lavorare non solo sui contenuti ma sulle forme della politica. Sono essenziali, più degli stessi contenuti. Perché se le parole anche più forti non arrivano più per la nostra lontananza, occorre ricostruire la vicinanza e la politica dentro la vita. L’ignoranza storica porta a sottovalutare le forme. Con forme politiche adeguate Lenin diresse il ribollire caotico delle prime settimane della rivoluzione russa; con le forme politiche Togliatti trasformò il partito comunista italiano, che durante il fascismo era numericamente poca cosa, nel più grande partito comunista dell’occidente; con le forme politiche il cattolicesimo democratico, nel dopoguerra, arrivò alle persone, e seppe radicare valori e pratiche sociali, tenendo viva una idea di autonomia e di libertà degli individui contro i tentativi collettivistici e le ideologie astratte; con le forme politiche Berlinguer seppe costruire un partito composito di donne, di giovani, di associazioni e movimenti diversi e plurali; con le forme politiche (seppure rapidamente sconfitte) l’Ulivo si affermò e rimane ancora oggi vivo nei nostri ricordi e il Pd nella sua fase costituente suscitò speranze e conquistò più del 33% dell’elettorato italiano.

 

La nostra ricerca non può che svolgersi dall’opposizione. Opposizione intelligente, non fanatica; umile nel comprendere che il voto operaio e popolare è andato ai 5 Stelle e alla Lega e che per recuperarlo non servono le offese, gli anatemi, il rifiuto di qualsiasi confronto. Anche se gli altri ci insultano e sono diventati avversari sempre più cattivi, noi dobbiamo ricordare che la sinistra italiana parlò persino in termini di vicinanza e di comprensione ai giovani fascisti, quelli reclutati dai repubblichini di Salò.

 

Contemporaneamente occorre avviare un congresso. Renzi si è dimesso. La questione che egli ha di fronte è precisamente questa: se catalizzare i suoi consensi per resistere da solo, pensando di rilanciare, ancora da solo, un suo ruolo nel prossimo futuro o quello di chiedere rispetto per l’impegno che ha comunque profuso, mettendosi a disposizione di una collettività che sceglierà un nuovo gruppo dirigente e un nuovo segretario.

 

Per le cose dette, comunque, sono convinto che il congresso deve essere ben preparato, avere il respiro profondo di una discussione a tutto campo, sincera e vera. Guai a precipitarci di nuovo in una contesa tra i nomi nei gazebo che riempiono di schede le urne ma svuotano e snervano ancor di più le nostre compagne e compagni, oggi così spaesati. E’ il momento che vengano avanti elaborazioni, analisi, suggestioni, coraggiosi anticipazioni. I partiti scompaiono non perché subiscono una sconfitta, ma perché via via si spengono per mancanza di idee, di un vero confronto e di una funzione storica. Siamo in bilico: scegliere ancora la strada delle divisioni sulle persone e sul potere ci consegnerebbe alla disfatta definitiva. Ricominciare insieme una rigenerazione possibile, come ha ricordato Zingaretti, può riaprire la strada del futuro. Arriveremo anche alle primarie: prima, però, occorre riprenderci, almeno un po’, la dimensione politica.