E’ realistico ipotizzare un piano Marshall per l’Africa?

Per riuscire a stabilizzare aree conflittuali o in fase post conflittuale, dare prospettive di lavoro alle popolazioni, formare una vera borghesia e un tessuto realmente produttivo in Paesi dalle rilevanti risorse naturali sfruttate da altri con la complicità delle oligarchie locali, si dovrebbe percorrere la via di un massiccio programma di assistenza ad alta intensità di mano d’opera tenendo finalmente conto anche degli interessi dei Paesi africani da coinvolgere. Le barriere da superare restano enormi e di grande complessità.

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Lo sforzo internazionale dovrebbe essere collettivo, includendo anche Cina e Russia attori importanti nel continente africano, sancito e blindato da accordi e controlli rigorosi utilizzando tuttavia una macchina burocratica meno rigida nelle procedure, più snella e adattabile alle realtà locali, assolutamente diversa da quella operante nel presente.

L’orientamento pragmatico sarebbe quello di mirare ad un approccio coordinato e multisettoriale capace di innescare obiettivi di sviluppo realistici, quantificabili, sostenibili nel tempo, realizzabili con un impatto concreto e visibile per le popolazioni. Il fine ultimo dovrebbe essere quello di migliorare sostanzialmente le infrastrutture, collegamenti, servizi, fornire posti di lavoro ai giovani, formare realmente una borghesia produttiva capace a sua volta di proporre una nuova classe dirigente sicuramente meno debole e corruttibile.

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Non sarà facile senza una conoscenza profonda di contesti, mentalità, culture, fattori etnici, tradizioni da cui far nascere, evitando forzature improprie, nuove responsabilità e competenze.

Un ampio programma pilota potrebbe essere lanciato con priorità nell’Africa sub sahariana e in quei paesi da cui provengono il maggior numero di migranti. Inammissibile, ad esempio, che da paesi ricchi di risorse come Costa d’Avorio e soprattutto Nigeria giungano tanti migranti illegali.

L’assistenza dovrebbe prevedere l’accettazione da parte delle dirigenze locali di chiari accordi sulle riforme economiche e sociali, sui rimpatri e su stretti controlli degli esborsi dei fondi stanziati quali necessarie pre-condizioni al lancio delle attività.

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Considerate le sfide, le serie minacce terroristiche alla stessa stabilità degli Stati, non vi sono altre strade praticabili se non che un’alta percentuale degli stanziamenti giungano realmente alle fasce più deboli delle popolazioni creando un visibile, significativo impatto. Un nuovo piano Marshall adattato ai tempi e al contesto in funzione di un realistico sviluppo economico sociale e di contrasto anti terrorismo e criminalità organizzata.

Dal 2017 si attende invano un deciso cambio di passo dell’unione europea riguardo alla effettiva preparazione e lancio delle prime attività di un “Piano Marshall” africano i cui finanziamenti integrativi al Fondo europeo di sviluppo furono richiesti dalla Commissione europea agli Stati Membri e poi convogliati su vari fondi emergenziali e di sviluppo, rivelatisi alla prova dei fatti inefficaci come la presidenza della stesa Commissione.

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A parole gli Stati Membri appoggiarono pienamente le proposte di Juncker, nei fatti fatta eccezione per Germania, Italia e in misura minore Paesi Bassi e Spagna nessuno ha versato bilateralmente quanto promesso.

Men che mai la Francia la quale ha troppi interessi in Africa occidentale per pensare di sostenere, se non formalmente, a livello multilaterale azioni di sviluppo che rischierebbero di intralciare la sua influenza bilaterale sugli stessi Paesi assistiti.  Anche i programmi Onu dopo decenni di attività fra emergenze e sviluppo non sono riusciti a mutare in senso positivo le problematiche economiche, sociali e di gestione che affliggono il grande Continente.

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Gli attuali contesti africani ed europei, con la crisi delle burocrazie internazionali in particolare Onu e UE, non consentono di essere ottimisti nel breve termine, mancando le condizioni necessarie per iniziare una tale operazione da parte Comunità internazionale. Peraltro il perdurare della instabilità Libica non consentirebbe di intervenire compiutamente in Libia e nei Paesi Sub sahariani ad essa connessi per sicurezza, migrazioni illegali, lotta al terrorismo e traffici di tutti i generi.

Apparirà come un paradosso eppure ai giorni nostri la crisi del multilateralismo, per giungere ad  un migliore e più efficace assetto dello stesso multilateralismo, sembrerebbe risolversi non con demagogie utopistiche, piuttosto con il confronto fra Stati più interessati a tutelare anche interessi e priorità nazionali che a seguire acriticamente, rischiando la subalternità, logiche internazionali ormai superate dagli eventi, salvo poi accordarsi su giusti compromessi raggiunti fra soci di pari dignità.

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La competizione fra Stati alleati, il realismo imposto dalle numerose crisi economiche e regionali non hanno, purtroppo, portato al rispetto da parte di tutti degli impegni assunti in sedi istituzionali multilaterali a meno che non coincidessero con le priorità nazionali.

Si è trattato di una lezione amara per Paesi come l’Italia che dal 2012 fino alle elezioni del 2018 hanno preferito rinunciare ad una propria visione strategica perseguendo una politica di passi felpati conservativa, tesa ad evitare anche spifferi d’aria. Ne è risultata una delega ad altri (istituzioni internazionali e non solo) di decisioni spesso in contrasto con gli interessi nazionali pur di assecondare una politica da buon allievo del multilateralismo nonostante declinassero nel tempo ruolo e rilevanza internazionale spettante ad una media potenza.

 

Quale ruolo per l’Italia?

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Il cambiamento di atteggiamento politico a livello internazionale del nuovo Governo italiano si è quindi reso necessario per il contesto internazionale, per le crisi regionali, non solo riferibili alle migrazioni incontrollate, in Mediterraneo e Africa sub sahariana, per le attitudini aggressive di Paesi alleati, per le precedenti esperienze infruttuose di diligenza assoluta verso le istituzioni internazionali, infine per riacquisire una rilevanza persa e il ruolo a noi spettante, in particolare nel cosiddetto Mediterraneo allargato.

L’Italia si è dovuta e si dovrà adattare anche con piglio alle azioni di disturbo, se non ostili, altrui mostrando la propria identità, tutelando priorità e interessi nazionali in modo chiaro e non più ambiguo. Si dirà così han sempre fatto i nostri partner eppure per il nostro Paese un’attitudine semplicemente più aggressiva pur nel rispetto di accordi e alleanze non è mai stata cosa scontata, al contrario.

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Si intravede finalmente una strategia verso l’Africa sub sahariana lasciata colpevolmente decadere dai tempi dei governi Craxi la cui visione e azione incisiva permisero al nostro Paese di acquisire rilevanza e amicizie nei Paesi saheliani, considerati allora per la prima volta prioritari, perfino di rivaleggiare con la Francia in alcuni casi.

Ora si tratta di ricostruire concretamente e stabilmente relazioni e quei rapporti privilegiati in Paesi in cui abbiamo lasciato tracce positive, siamo stati ben considerati forse anche per la volontà di diversificare la capillare influenza francese.  Un ruolo alla nostra portata, soprattutto dovrà essere apprezzata la nostra credibilità dai Paesi africani coinvolti consentendo agli stessi di ritenerci partner importante, solido e ascoltato per lo sviluppo economico sociale e gestionale del Paese come fu fatto in tempi passati con gli USA, la Cina e recentemente la Turchia.

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Di sicuro occorrerà ottimizzare risorse finanziarie bilaterali, tenuto conto delle ristrettezze di bilancio, con azioni mirate, visibili, incisive nell’area sub sahariana. Una fase preparatoria al lancio del Piano Marshall africano dove sarà lungimirante farsi trovare già pronti in loco con le nostre relazioni consolidate e una nostra visibilità già acquisita. A tal fine ad integrazione di iniziative in campo agricolo, idraulico, sanità, piccole e medie imprese, sicurezza, dove l’Italia ha lasciato ricordi positivi, diverrebbe prioritario promuovere concretamente il lavoro svolto e le caratteristiche più conosciute e apprezzate del nostro Paese.

A tutt’oggi manca una comunicazione italiana efficace, costante e soprattutto presente localmente indirizzata verso i Paesi africani Sub sahariani.

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Creare un centro di comunicazione regionale, stampa, media, cultura, promozione (inclusa la sicurezza) in un Paese da cui si possono facilmente raggiungere altri Paesi limitrofi garantendo presenze nell’area potrebbe divenire, a costi non esorbitanti, un prezioso elemento di accompagnamento, di supporto e di innovazione dell’azione italiana sia in ambito bilaterale che multilaterale.

Fungerebbe da supporto anche per un eventuale visibile Inviato speciale italiano per il Sahel figura di riferimento regionale e dei ministeri italiani maggiormente coinvolti nelle attività dell’area.  L’iniziativa avrebbe anche il compito di costruire solidi rapporti con stampa e media locali, essenziali questi ultimi per una solida promozione italiana fra le popolazioni e i governi.

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Da esperienze dirette nel settore già vissute con organismi internazionali nel Sahel posso affermare che i risultati benefici che se ne possono ricavare, se ben diretti e gestiti, possono persino superare le aspettative.

Infine l’azione preparatoria italiana non potrò fare a meno delle reali competenze e delle esperienze qualificate per approntare una qualsiasi squadra da mettere in campo, siano squadre del pubblico che del privato, integrate da personale della sicurezza non prescindibili considerati tempi e luoghi. Di pari passo non si potrà continuare ad operare senza un sostanziale incremento quantitativo e qualitativo di funzionari italiani negli organismi internazionali operanti nella zone di interesse e nei quartieri generali degli stessi organismi beneficiari di cospicui contributi italiani quasi mai tradotti in posizioni di rilevanza decisionale nei quartier generali e spesso anche sul terreno.

Foto: Missione italiana in Niger (Difesa.it)

Maoppa: The Conversation.org

 

E' uno dei maggiori esperti italiani di operazioni internazionali di stabilizzazione, peacebuilding, cooperazione e comunicazione nelle aree di crisi. Dagli anni 80 ha ricoperto incarichi di responsabilità crescenti per l’Onu, la UE e il Ministero degli Esteri in Africa (13 anni), Medio Oriente e Balcani. Specialista di negoziati complessi, è stato Sindaco Onu in Kosovo della città mista di Kosovo Polje dal 1999 al 2001, ha guidato, primo non americano, il PRT di Nassiriyah in Iraq nel 2006 ed è stato Portavoce e Capo della comunicazione della missione europea di assistenza antiterrorismo EUCAP Sahel Niger fino al 2016. Destinatario di un’alta onorificenza presidenziale Senegalese, per l’editore Fermento ha scritto "Alla periferia del Mondo". Scrive su riviste specializzate ed è un apprezzato commentatore per radio e tv.

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