‘Ndrangheta. Un viaggio-inchiesta nell’abisso di famiglie falcidiate da un distorto senso dell’onore

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Per un boss la famiglia conta più dei soldi e del potere. Perché mogli, figli, nipoti garantiscono la continuità dell’impero. La ‘ndrangheta – la mafia più potente e ramificata al mondo – fonda la sua forza sui vincoli di sangue. È molto più di un semplice fenomeno criminale: è una cultura intrisa di violenza e di morte che si tramanda di generazione in generazione. Come le madrasse dello Stato Islamico indottrinano migliaia di adolescenti per trasformarli in martiri di Allah, così le ‘ndrine allevano i bambini e li formano per un futuro da padrini. Oggi però ammaestrare la prole con le leggi non scritte del crimine ha delle conseguenze irreversibili: l’allontanamento dei minori dal nucleo familiare. È questo il nuovo fronte della lotta alle cosche. Una guerra senza esclusione di colpi, che si combatte dall’ufficio di frontiera del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria. Dal 2012 sono quasi 50 i giovani strappati dai padrini. Questo è il racconto delle loro vite: un viaggio-inchiesta (con documenti e interviste esclusive) nell’abisso di famiglie falcidiate da un distorto senso dell’onore. Storie di figli che rinnegano i padri, e di madri coraggiose che hanno scelto di abbandonare al proprio destino i mariti fedeli solo alla legge del clan.

Giovanni Tizian autore del libro “Rinnega tuo padre” mette a disposizione un capitolo del libro (a seguire) per i lettori del sito di Articolo21

Peppe ha sempre vissuto senza il padre, la madre invece l’ha prima vista finire in cella e poi ai domiciliari. La nonna paterna è stata condannata per associazione mafiosa e lo zio è sorvegliato speciale condannato in primo grado. Insomma, per Peppe allontanarsi da questo contesto è forse davvero l’unica strada percorribile. Infatti, nel provvedimento di decadenza della responsabilità genitoriale del marzo 2016, si legge: «Il contesto ambientale, personale e morale che fa da sfondo alla vita e allo sviluppo del minore appare assolutamente inadeguato alle delicate esigenze emotive e di crescita del medesimo. Nel quadro familiare e sociale così riassunto, è agevole predire che il modello educativo proposto dai familiari stretti – in cui i comportamenti sovversivi delle regole morali e civiche del vivere vengono indicati come norma di vita e linea di condotta – rischia concretamente di compromettere lo sviluppo del minore, esponendolo a condotte devianti e a un futuro di sofferenza, in cui la carcerazione appare – nella migliore delle ipotesi – come un destino ineluttabile».

E in effetti Peppe aveva già dato prova di sé e delle sue capacità di mettere in atto comportamenti criminali visto che, al momento del provvedimento, su di lui pendeva già una richiesta di rinvio a giudizio. Inquietante è il parallelo tra l’ascesa criminale del padre e il comportamento dell’adolescente. Molti anni prima, lo stesso Tribunale che ora offriva al figlio del boss l’opportunità di rifarsi una vita,

aveva giudicato il padre. Il giudice era preoccupato dal fatto che nelle condotte del giovane rampollo vi fosse la stessa incallita arroganza che aveva portato il padre a fuggire e a vivere da latitante. Solo se Peppe avesse cambiato aria avrebbe forse potuto salvarsi. «Tale soluzione appare necessaria per fornire al medesimo una seria alternativa culturale ed evitare il rischio, ineluttabile alla luce dei gravi elementi emersi, di una sua definitiva strutturazione criminale», scrissero i giudici nel provvedimento.

Peppe oggi vive al Nord, ha iniziato un percorso in una comunità e ha lasciato la piana di Gioia Tauro. Lo assistono educatori e psicologi. I primi giorni in comunità furono particolarmente difficili. Appena arrivato, si comportava come un signorotto. Ostentava la propria origine con i ragazzi che vivevano con lui. Ragionava solo in termini economici, utilitaristici, e per tutto stabiliva un prezzo. Si verificarono anche momenti di aspra tensione tra lui e gli altri ospiti. Finché un educatore gli disse: «Ma vuoi vivere come tuo padre, come un verme dentro un bunker?». Peppe lo difese immediatamente con tutto sé stesso. Ma dal giorno dopo qualcosa cambiò in lui.

Peppe ha trascorso l’infanzia, il periodo più delicato per la qualità dei valori esistenziali appresi, in un clima in cui veniva fomentato l’odio per lo Stato, identificato come il male. È cresciuto nel disprezzo verso un’istituzione che esercita un potere dispotico: rinchiude i padri in cella, toglie case e terreni, ruba aziende. I giudici hanno ritenuto che la rete familiare del ragazzo fosse interamente permeata di valori e atteggiamenti mafiosi. E, cosa ancora più grave, il ragazzo sembrava aver introiettato il sistema valoriale distorto a tal punto che, raggiunta un’età in cui poteva scegliere responsabilmente di vivere in un altro modo, esibiva invece un comportamento prepotente, come un vero piccolo boss.

Vale la pena tentare. Per Peppe potrebbe non essere ancora tutto perduto. La giovanissima età gli ha offerto una seconda possibilità e ora può, se lo vorrà con tutte le sue forze, interrompere quel percorso obbligato scelto dalla famiglia per lui. Lo potrà fare lontano da casa sua. Distante da quel paese in cui sarà sempre e comunque l’erede del mammasantissima. A volte basta poco per interrompere una corsa suicida verso il baratro. Basta fermarsi o essere obbligati a interrompere la corsa. A quel punto, coi muscoli a riposo, può darsi che si ascolti meglio il battito del cuore, i suggerimenti della coscienza, o si avverta il vuoto in cui si sta vivendo. Forse è successo questo a Peppe quando, poco dopo essere entrato nel programma, davanti alle parole dell’educatore che paragonavano la vita di latitanza di suo padre a quella dei vermi, mal digerite ma successivamente elaborate, ha deciso che sì, non era quella la vita che desiderava. Che il peso della terra sulla testa non era quello che voleva. Che tutto sommato preferiva la luce del sole. Che quella pesante responsabilità, in realtà, non l’aveva scelta, ma solo subìta: essere il figlio e il discendente di un boss, tra i più quotati in Calabria, arrestato dopo una lunghissima latitanza.

Rizziconi, il paese dove vive e prospera la famiglia di Peppe, è vicinissimo a Rosarno. Confinano, uniti dagli stessi uliveti e aranceti. Rosarno e Rizziconi condividono un luminoso e antico passato. E un presente decisamente più squallido. Nonostante nascano ogni tanto alcuni fiori del bene. Che la comunità, però, dovrebbe difendere con maggiore forza. (…)

Le elezioni comunali di settembre 2010 a Rizziconi le vince Antonio Bartuccio. Simpatizzante del centrodestra, si presenta però con una lista civica. Un uomo perbene, un professionista serio. In un’intervista al «Corriere» rivelerà, dopo le vicende che lo porteranno a vivere sotto scorta, che aveva preso la decisione di impegnarsi per una buona politica dopo l’omicidio di un adolescente che viveva in paese, Francesco Inzitari. Figlio di un politico e imprenditore intrallazzato con le ’ndrine. Lo ammazzano nel 2009 con dieci colpi di pistola, davanti alla pizzeria dove si è recato con un gruppo di amici e di amiche per festeggiare un compleanno. Il killer si è nascosto, ma non esita ad avvicinarsi e, dopo averlo colpito, lo finisce a sangue freddo con tre colpi in testa. Senza pietà alcuna per i suoi 18 anni. Omicidio rimasto fino a oggi impunito. Ancora una volta la ’ndrangheta smentisce la sua leggenda.

Quando vede morire quel ragazzino, Bartuccio capisce che non bastava più vivere da uomo onesto, che bisognava impegnarsi pubblicamente per incidere da dentro le istituzioni. Una volta eletto, appare subito chiaro che a quel sindaco non interessa la poltrona. Vuole tenere fuori dagli interessi del Comune gli artigli della famiglia Crea, forte, impenetrabile, oscura. Con interessi nei palazzi più importanti della capitale, e che a Rizziconi ha sempre deciso tutto, anche il nome del primo cittadino. Ma Antonio Bartuccio non è stato eletto con i voti dei Crea, è un uomo libero e si comporta come tale. Quando gli uomini della famiglia bussano alla porta del suo ufficio, lui non apre. Non li riceve. Non hanno nulla da dirsi. Anzi, fa di più. Sei mesi dopo l’elezione, si presenta agli agenti del commissariato di polizia di Gioia Tauro per denunciare le pressioni della ’ndrangheta sull’attività del municipio. I Crea non si arrendono e, con metodi convincenti, costringono otto consiglieri a dimettersi. Intendono far cadere la giunta. Serve però il nono, Michele Russo, un ragazzo di vent’anni. Che tentenna, tra le minacce della ’ndrina e i richiami all’etica del sindaco in carica. Allora Bartuccio tenta tramite il padre del consigliere, Domenico Russo, di convincerlo a resistere. Un tentativo arduo, documentato dai dialoghi intercettati dagli investigatori.

Bartuccio: «Ma tu cosa vuoi, che vinca la mafia? Se siamo i buoni dobbiamo stare con i buoni». Russo: «Ma io tengo famiglia». Bartuccio: «Tutti la teniamo, tu sei un uomo libero». Russo: «Ma io non posso metterla in pericolo». Bartuccio: «E che insegniamo ai figli nostri?». Russo: «Se devo passare male [provocare problemi, N.d.A.] alla mia famiglia, me ne fotto di tutte le cose».

Russo alla fine si dimette e il sindaco resta solo e sfiduciato dal consiglio comunale. È l’aprile 2011. Comune sciolto. Non per mafia stavolta, ma dalla mafia. Il coraggio dell’ex sindaco è stato comunque fondamentale. Grazie alle sue denunce, infatti, parte l’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria che nel 2014 ha portato a 16 arresti e al sequestro di beni per un valore complessivo di decine di milioni di euro ai danni dei Crea. «Un primo cittadino che ha interpretato a fondo il suo ruolo e non si è piegato alla prepotenza delle cosche», con queste parole ha lodato il suo esempio l’allora procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho.

Che cosa pretendeva la ’ndrina per arrivare a tanto? Varie cose, per esempio usare il terreno poi confiscato per costruirvi strutture sportive anziché alloggi popolari; oppure far restare una tal impiegata comunale in una segreteria piuttosto che in un’altra decisa dalla nuova giunta, nonostante non ne avesse i requisiti; e voleva far vincere un bando per un posto da geometra a un amico di famiglia, che però non era in possesso dei titoli adatti. «Un sovvertimento totale della democrazia e dei diritti. Non è chi effettivamente ha diritto a un posto di lavoro ad averlo, ma colui che è scelto dalla cosca, un quadro che riporta al Medioevo quando il padrone dispone di vita e di morte dei suoi sudditi», aveva aggiunto de Raho. Che su Bartuccio ha precisato: «Ha collaborato pienamente alle indagini. Lo Stato deve difenderlo, è sacrosanto assegnargli una scorta. Non gli è stato chiesto di abbandonare la sua casa perché lo Stato deve saper proteggere i suoi cittadini migliori in casa loro». Bartuccio, dal canto suo, definisce normale quello che ha fatto. È normale non scendere a compromessi. È normale agire in piena libertà. È normale, ma non scontato, purtroppo.

Alla fine del 2011, lo Stato ha voluto dare un segnale forte: la Nazionale di calcio si è allenata a Rizziconi in un campo da calcio confiscato ai clan. Un regalo per oltre mille ragazzi delle scuole elementari e medie presenti sulle tribune del campo di calcetto a tifare per i loro calciatori del cuore. Doveva essere l’inizio di un impegno contro ogni forma di sopruso e d’illegalità, in un territorio esposto alle logiche della violenza e della sopraffazione. Il messaggio di speranza lanciato dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio fu lodevole, ma senza alcuna continuità. Così, spenti i riflettori, le ’ndrine semplicemente hanno ripreso a camminare a testa alta, riverite da chi, per quieto vivere o per ammirazione del potere, non vede non sente non parla.

Che ne sarà di Peppe, intanto, allontanato da Rizziconi affinché avesse una chance di libertà? Dovrà fare i conti con la sua infanzia, con i suoi fantasmi, con i suoi dubbi.

Ora frequenta le scuole superiori. E c’è una novità molto importante: la madre, che appartiene a un’altra potente famiglia di ’ndrangheta, si è trasferita con lui. Sta arretrando anche a lei a piccoli passi. Peppe ogni tanto va a trovare il padre in carcere. Esce da questi incontri triste, pensieroso. Non è più arrogante come un tempo. «Non è detto che non accetti prima o poi l’idea che la vita può essere anche altro rispetto al dogma ’ndranghetista», racconta chi l’ha seguito in passato. Sarà il tempo a dircelo. E se così sarà, vorrà dire che le ’ndrine dovranno rassegnarsi alla perdita di un altro erede al trono.


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