Il meglio delle arti performative nel 2018. La nostra selezione

Partono, come di consueto, le nostre classifiche di fine anno con il meglio del meglio. Ecco cosa ci è piaciuto di più, se parliamo di arti performative e teatro. La nostra selezione.

ALAIN PLATEL E FABRIZIO CASSOL, REQUIEM POUR L.

Alain Platel e Fabrizio Cassol per Les Ballet C de la B, Requiem pour L. Photo Chris van der Burght

Alain Platel e Fabrizio Cassol per Les Ballet C de la B, Requiem pour L. Photo Chris van der Burght

Questo Requiem pour L. che Fabrizio Cassol e Alain Platel hanno realizzato per i Ballets C de la B è una profonda riflessione sul tempo della morte e del suo rovesciamento, attraverso la musica di più continenti, in quello della vita. È una riappropriazione culturale del requiem mozartiano, in cui il compianto per il tempo della fine si trasforma, attraverso il corpo musicale dei performer, nel tempo fermo della resistenza: quello della gioia e della felicità. Proprio mentre in video assistiamo agli ultimi istanti di vita di L. (Lucie, un’amica di Platel, ma anche elle, la donna), in una lenta slow motion per niente retorica ma invece piena di speranza perché capace di fermare il tempo cronologico.

-Chiara Pirri, Stefano Tomassini, Maria Paola Zedda.

Visto a Teatro Ariosto, festival Aperto, Reggio Emilia.

ENZO COSIMI, I LOVE MY SISTER

Enzo Cosimi, I love my sister. Gender Bender Festival, Bologna 2018. Photo credits Enzo Cosimi

Enzo Cosimi, I love my sister. Gender Bender Festival, Bologna 2018. Photo credits Enzo Cosimi

Con I love my sister il coreografo romano Enzo Cosimi riflette, insieme al performer Egon Botteghi, sull’invisibilità dei corpi transessuali e trasforma una difficile confessione in una forte rivendicazione di militanza. È una sorta di messa laica della bellezza, fortemente esposta nel privato ma fatta anche di semplici camminate o del solo restare a margine della scena, in piena presenza e in un setting in continuo movimento. Fino a che ogni barriera con il pubblico è rotta per riaffermare la libertà di essere ciò che si è.

Chiara Pirri, Stefano Tomassini, Maria Paola Zedda.

Visto a Il Cassero IGBT Center, festival Gender Bender, Bologna.

CRISTINA KRISTAL RIZZO E ORCHESTRA DELLA SVIZZERA ITALIANA, VN_SERENADE

Cristina Kristal Rizzo, VN Serenade. LuganoInScena, LAC, Lugano 2017, photo Luca Del Pia

Cristina Kristal Rizzo, VN Serenade. LuganoInScena, LAC, Lugano 2017, photo Luca Del Pia

VN_Serenade è il felice incontro tra la coreografa Cristina Kristal Rizzo e l’OSI di Lugano. Da una parte, Verlarch Nach di Schönberg, e dall’altra Serenade di Tchaikovski ma nel ricordo soprattutto della nota coreografia di George Balanchine. Due scritture, due testi, due logiche che si dispiegano secondo differenti alfabeti: ciò che fa Rizzo, su questi monumenti della tradizione coreomusicale occidentale, non è tanto una operazione di memoria, ma di rottura dei limiti dell’immaginario e dell’immaginazione stessa, affinché una differente esperienza del presente, nelle opere che il passato mette a disposizione, possa essere possibile.

Chiara Pirri, Stefano Tomassini, Maria Paola Zedda.

Visto a LAC di Lugano (CH) e al Teatro Argentina di Roma.
Debutto dicembre 2017 /circuitazione 2018.

CAROLINE GUIELA NGUYEN, SAIGON

Caroline Guiela Nguyen, Saigon. Photo © Jean Louis Fernandez

Caroline Guiela Nguyen, Saigon. Photo © Jean Louis Fernandez

Il nuovo volto del teatro francese è donna e ha origini vietnamite: Caroline Guiela Nguyen (classe 1981) con il suo Saigon affronta poeticamente il delicato tema dell’identità post-coloniale. Saigon è un luogo tra il passato e il presente, un ristorante nel 13esimo arrondissement di Parigi in cui vengono serviti bo-bun e canzoni d’amore, ricordi mescolati a un presente sospeso, una storia sospesa tra realtà e finzione che parla della Francia e del mondo di oggi. “Avevo bisogno di re-immaginare la storia e in particolare quella della guerra d’indipendenza vietnamita e del successivo esilio (…) perché nei libri di studio, o nel modo in cui la politica francese narra la Storia del Paese, questa realtà è completamente taciuta. E invece doveva esistere da qualche parte, poiché esiste nelle lacrime di mia madre che non finirà mai di piangere il suo esilio, frutto della decolonizzazione e ancora prima alla colonizzazione. Era necessario che queste lacrime appartenessero ad altri oltre che a me, che non venissero “asciugate” dal lettino di uno psicanalista, ma che fossero assorbite in un contesto pubblico e politico.”

– Chiara Pirri, Stefano Tomassini, Maria Paola Zedda.

Visto all’Auditorium Parco della Musica, Romaeuropa festival, Roma.

METTE INGVARSTEN, 21 PORNOGRAPHIES

Biennale Danza, Venezia 2018. Mette Ingvartsen, To come (extended versione). Photo © Jens Sethzman

Biennale Danza, Venezia 2018. Mette Ingvartsen, To come (extended versione). Photo © Jens Sethzman

21 Pornographies, di Mette Ingvarsten (classe 1980) è parte di un più ampio progetto “The Red pieces”, attraverso il quale la coreografa danese affronta le relazioni possibili tra sessualità, sfera pubblica e spazio sociale.  Il lavoro non mette in luce una pornografia iconografica e oggi digitale ma ne affronta le origini letterarie (da De Sade), il significato intimo (dal greco “pernenai” = vendere) e ancor di più il ruolo all’interno dei rapporti di potere e della sfera pubblica e politica oggi. L’obiettivo è di far evincere l’influenza del soft-porno sui meccanismi di funzionamento stessi della società in diversi ambiti, basati sui principi ciclici di: efficienza, piacere e frustrazione. Non troveremo quindi in questo spettacolo una sessualità esplicitata (come nel precedente “To come (extended)”, quest’anno alla Biennale Danza) ma una più sottile riflessione sul mondo contemporaneo che passa attraverso il corpo stesso della coreografa e la sua maestria nella scrittura coreografica ma anche attraverso la parola e la voce.

Chiara Pirri, Stefano Tomassini, Maria Paola Zedda

Visto al Centre Pompidou, Parigi.
Mette Ingvarsten è stata ospite della Biennale Danza 2018 con “To Come”.

WEN HUI, RED – A DOCUMENTARY PERFORMANCE

Romaeuropa Festival 2018. Wen Hui, RED. Photo Zhang Daming

Romaeuropa Festival 2018. Wen Hui, RED. Photo Zhang Daming

Red, della coreografa e filmaker cinese Wen Hui racconta una una storia complessa, sconosciuta, mitica, quella della rivoluzione culturale in Cina e lo fa attraverso la danza, il corpo, che si fa archivio della storia di un popolo. In Red, per quanto si adotti il procedimmento dell’inchiesta, non è l’Io a emergere ma un senso di noi, di Storia, in contro tendenza rispetto alla scena contemporanea. Lo spettacolo parte dal balletto The Red Detachment of Women, modello dell’estetica socialista, evocato attraverso immagini di repertorio e rivissuto-destrutturato da danzatrici di diverse generazioni. I corpi in scena vibrano fino alle fibre più recondite e assumono attitudini scultoree in dinamiche flessibili per costruire un linguaggio del corpo che faccia eco alla scena, alle testimonianze e alla Storia. Uno spettacolo che afferma un’urgenza, storica, politica ed estetica.

-Chiara Pirri, Stefano Tomassini, Maria Paola Zedda

Visto al Teatro Vascello, Romaeuropa festival, Roma.

ROMANCES INCIERTOS: UN AUTRE ORLANDO, FRANÇOIS CHAIGNAUD E NINO LAISNÉ

Romances inciertos, un autre Orlando. Courtesy Nino Laisné

Romances inciertos, un autre Orlando. Courtesy Nino Laisné

Travestitismo, androginia, vertigine barocca, poetica queer esondano dal nuovo lavoro di François Chaignaud e Nino Laisné Romances Inciertos: Un autre Orlando: un viaggio nell’iconografia della tradizione spagnola, dove Chaignaud trascende il virtuosismo, facendo della sua danza un atto di costante metamorfosi ed estasi irrefrenabile, scaraventata contro la composta ed elegante cornice di tappezzerie e arazzi romantici. Nei tre atti, accompagnati da un quartetto di musica barocca, Chaignaud evoca e incorpora le tre figure cardine dell’immaginario iberico caratterizzate da un’identità di genere incerta, San Giorgio, la Tarara e la Doncella Guerrera in un vortice di mutazioni coreografiche e musicali. Tra volute, iperboli, picchi parossistici, la danza erutta ed esplode oscillando tra forme tradizionali e i loro avatar accademici in un percorso nel tempo dove, come nell’Orlando della Woolf, l’unica costante è il mutamento.

Chiara Pirri, Stefano Tomassini, Maria Paola Zedda

Visto a ImPulsTanz, Vienna International Dance Festival, Vienna.

UNFORETOLD, SARAH VANHEE

Sarah Vanhee/CAMPO, Unforetold. Photo credits Alessandro Sala per Centrale Fies, 2018

Sarah Vanhee/CAMPO, Unforetold. Photo credits Alessandro Sala per Centrale Fies, 2018

Immerso nel buio, avvolto dall’impenetrabilità della luce nera, Unforetold di Sarah Vanhee è un’isola oracolare, un campo di visione costellato di richiami ancestrali, disseminato di domande, segnali, piccole profezie. Qui un popolo di figli minori, sette bambini in un’età compresa tra gli 8 e gli 11 anni che hanno collaborato attivamente alla realizzazione del lavoro, crea una nuova logica, conia una lingua sconosciuta, accende domande ancestrali. Il lavoro di Sarah Vanhee rappresenta un invito a percorrere la via sinistra della conoscenza, ad attraversare l’oscurità per aprire e rivelare paesaggi inattesi. Evidenzia una visione politica che conduce in un territorio lontano dal mondo degli statement e dell’assertività del linguaggio per risvegliarci alla voce della foresta, nell’interno della balena.

Chiara Pirri, Stefano Tomassini, Maria Paola Zedda

Visto a Drodesera, Centrale Fies, Dro.

DÉSERT, LEONARDO DELOGU

Le foto dalla performance di Leonardo Delogu, "Désert". Ph Laura Marcolini/ Martina Rosa

Le foto dalla performance di Leonardo Delogu, “Désert”. Ph Laura Marcolini/ Martina Rosa

Lavoro dalla potenza corale, esperienza immersiva tra paesaggi arcaici e industriali di una terra di confine, Désert è una performance site specific di lunga durata ai margini della rappresentazione, un viaggio tra le migrazioni antiche e contemporanee che ha connesso il capoluogo sardo  alle ambientazioni lunari di una cava inattiva. Un’umanità in transito, quella di pubblico e performer, percorre un cammino nelle variazioni di una luce crepuscolare, tra il giorno e la notte, giungendo in una zona di sospensione dove il tempo teatrale si sfalda e  dilata nel tempo del nomadismo, in uno stato di attesa e puro accadimento. Figure in silhouette all’orizzonte, fuochi, pastori, greggi, cani popolano le dune di questo deserto che risuona degli echi di antichi passaggi mentre una visione opaca avvolge e permea il lavoro conducendolo lontano dalla sovraesposizione mediatica, trasportandolo dove il confine tra chi guarda e chi è guardato si dissolve, nei territori di un’esperienza corale condivisa.

-Chiara Pirri, Stefano Tomassini, Maria Paola Zedda

Visto nell’ambito di ARS/Arte Condivisa in Sardegna e Sardegna Teatro/Cagliari Paesaggio, performance itinerante tra Teatro Massimo, Cagliari, Sarroch.

BILLY BUDD

Deborah Warner, Billy Budd. Photo Yasuko Kageyama _ Opera di Roma

Deborah Warner, Billy Budd. Photo Yasuko Kageyama _ Opera di Roma

Non abbiamo esitazione ad indicare Billy Budd di Benjamin Britten come il miglior spettacolo di teatro in musica del 2018. Coprodotto con i teatri dell’Opera di Madrid e con la Royal Opera House di Londra, regia di Deborah Warner e direzione musicale di James Conlon. E’ arrivato a Roma poco più di un mese dopo aver ricevuto l’International Opera Award (l’Oscar Internazionale della lirica) nella categoria ’nuove produzioni’. La produzione è indubbiamente superiore alle precedenti della stessa opera. In primo luogo, la regia di Deborah Warner, le scene di Michael Levine, i costumi di Chleo Obolonesky e le luci di Jean Kalman, ci portano in un ambiente atemporale (i costumi degli ufficiali rimandano alla seconda guerra mondiale) e sottolineano il carattere universale, non collegato alla guerra franco-britannica per il dominio nella Manica di fine Settecento. La guerra si avverte, ma sembra essere lontana. Nella scena unica, con praticabili a più livelli per mostrare i vari ponti della nave gli alloggi per gli ufficiali, l’azione si dipana con un taglio quasi cinematografico e con una grande recitazione da parte di tutti, specialmente del coro nelle scene di massa. A volte, nelle nebbie, i personaggi appaiono come silhuoettes o dagherottipi. Semplicemente eccellente la direzione musicale di James Conlon, che estrae dal sinfonismo di Britten i richiami alla tradizione musicale inglese, la polifonia e l’insistenza sui fiati. Ottimo il cast, che richiede ben 19 solisti maschili, un grande coro (vero e proprio protagonista dell’opera) ed un piccolo ensemble di voci bianche. Di altissimo livello il coro (vero e proprio protagonista dell’opera).

Giuseppe Pennisi

Visto al Teatro dell’Opera di Roma.

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