25/01/2022, 09.38
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Yemen, le tensioni regionali che infiammano il conflitto dimenticato

di Dario Salvi

Negli ultimi giorni gli Houthi hanno lanciato missili verso gli Emirati e l’Arabia Saudita. Riyadh ha riposto - pur negandolo ufficialmente - con un sanguinoso raid aereo che ha colpito una prigione e provocato decine di vittime. Alleanze e interessi contrapposti complicano i tentativi di tregua. Petrolio e rotte dei commerci la chiave di una guerra che ha affamato il popolo yemenita. 

Milano (AsiaNews) - I missili lanciati dagli Houthi verso gli Emirati Arabi Uniti (Eau), un nuovo obiettivo che si aggiunge agli attacchi in territorio saudita del passato, e la massiccia risposta della coalizione araba guidata da Riyadh con raid aerei sanguinosi hanno riacceso i riflettori sulla guerra in Yemen. Uno dei conflitti dimenticati della regione mediorientale, sparito a lungo dalle cronache internazionali - salvo rari appelli per denunciare una nazione, e un popolo, alla fame - ma tornato in modo prepotente alla ribalta nell’ultimo periodo. Una guerra devastante anche e soprattutto per la popolazione locale, fra le più povere al mondo, dove solo nel mese di gennaio sono morti 17 bambini a causa delle bombe, mentre non si contano più quelli deceduti per mancanza cronica di cibo o malattie. Come la malaria, che rappresenta un’emergenza persino superiore alla pandemia di Covid-19. 

Raid aerei in risposta ai missili

Nelle prime ore della mattinata di ieri i sistemi di allerta degli Emirati hanno intercettato due droni (o missili) lanciati dagli Houthi verso Abu Dhabi, in un attacco che non ha provocato vittime o danni per la pronta risposta dello scudo di difesa. Ciononostante, fra la popolazione comincia a serpeggiare una certa inquietudine dopo che a lungo il Paese era stato risparmiato da violenze o attacchi, potendosi considerare una sorta di isola felice rispetto ad altre realtà regionali, come la stessa Arabia Saudita. I ribelli sciiti hanno preso di mira anche il regno wahhabita, lanciando un missile balistico esploso nell’area industriale di Jizan, città costiera nel sud-ovest, causando il ferimento di due persone. L’attacco risale alla sera del 23 gennaio e ha preceduto di qualche ora quello nei vicini Emirati, sollevando l’immediata condanna della Lega araba. 

I missili sono una risposta al sanguinoso attacco sferrato dalla coalizione araba a guida saudita - sebbene Riyadh abbia negato un suo coinvolgimento - sulla prigione di Saada, che ha causato la morte di 86 persone e il ferimento di oltre 260, alcuni in modo grave. Fra le fonti indipendenti che confermano il raid gli operatori di Medici senza frontiere (Msf), che contestano la dichiarazione di Riyadh secondo cui sono “infondate e ingiustificate” le accuse di aver sferrato l’attacco alla prigione. Il capo-missione Msf in Yemen Ahmed Mahat riferisce che quello del 21 gennaio è solo “l’ultimo di una lunga serie di ingiustificabili attacchi [sauditi] su luoghi come scuole, ospedali, mercati, feste di matrimonio e prigioni”. Dall’inizio della guerra, ha aggiunto, “abbiamo spesso assistito ai terribili effetti dei bombardamenti indiscriminati della coalizione, e i nostri stessi ospedali sono stati attaccati”. 

Dalla Federazione alla frammentazione

La guerra in Yemen è divampata nel 2014 come scontro interno fra governativi filo-sauditi e ribelli sciiti Houthi vicini a Teheran, che per diversi mesi avevano richiesto - invano - alcuni riconoscimenti e garanzie alle autorità di Sana’a. Fra gli altri l’inserimento di 20mila elementi all’interno delle forze armate, l’assegnazione di una quota di ministeri e l’inclusione di alcuni territori contesi all’interno della regione di Azal. Quest’ultimo punto era parte di un piano più ampio di riforma della Repubblica yemenita, poi fallito, da Stato unitario a nazione federata. Un modo per risolvere le marcate divisioni economiche, religiose, storico-politiche fra le diverse aree, soprattutto nord e sud. La Federazione dello Yemen avrebbe dovuto, almeno sulla carta, appianare controversie e tensioni che hanno attraversato la nazione sin dai primi tempi dell’unificazione, nel 1990. 

Tuttavia, il processo è fallito e il conflitto si è inasprito trasformandosi da scontro interno a guerra aperta con l’intervento diretto nel marzo 2015 di Riyadh a capo di una coalizione di nazioni arabe, che ha fatto registrare in questi anni oltre 130mila vittime. Secondo l’Onu ha provocato  la “peggiore crisi umanitaria al mondo”, sulla quale il Covid-19 ha sortito effetti “devastanti”; milioni di persone sono sull’orlo della fame e i bambini - 10mila morti nel conflitto - subiranno le conseguenze per decenni. Gli sfollati interni sono oltre tre milioni, la maggior parte vive in condizioni di estrema miseria, fame ed epidemie di varia natura, non ultima quella di colera. 

A quasi otto anni dall’inizio delle violenze, la situazione sul terreno resta irrisolta: gli Houthi, grazie al sostegno ricevuto sinora dall’Iran, controllano la capitale Sana’a e il settore occidentale; il governatorato meridionale di Aden, già feudo del presidente riconosciuto dalla comunità internazionale Abd Rabbo Mansour Hadi, è sotto controllo del Consiglio di transizione. Vi è poi un gruppo di lealisti-scissionisti legati agli Emirati che opera nel sud-ovest e una presenza cospicua, nel centro, di miliziani legati ad al-Qaeda (Aqap, Ansar al-Sharia nello Yemen). I tentativi intrapresi in questi anni di istaurare tregue limitate nel tempo o i passi verso un più ampio cessate il fuoco generale da parte dell’Onu e dei Paesi arabi si sono rivelati fallimentari. Non sono serviti a modificare le sorti del conflitto nemmeno le centinaia di lanci - se ne contano oltre 500 - da parte dei miliziani Houthi verso la confinante Arabia Saudita e, da qualche giorno, anche in direzione degli Eau, ennesima deriva violenta e sanguinosa della guerra.

La diplomazia internazionale

Sullo sfondo del conflitto si consumano le grandi divisioni e i giochi di alleanze e contrapposizioni che animano la regione, inaspriti all’indomani del cambio dell’amministrazione Usa con l’ascesa alla Casa Bianca del democratico Joe Biden vittorioso sul presidente uscente Donald Trump. Il quale, durante il suo mandato, aveva sponsorizzato un avvicinamento fra Israele e una parte delle nazioni del Golfo, fra cui gli Emirati stessi e il Bahrein, all’interno dei cosiddetti “Accordi di Abramo”. Un successo, almeno parziale, per la diplomazia repubblicana e la famiglia Trump (in prima fila nei negoziati il genero Jared Kushner), ma che non è riuscita ad abbracciare anche l’Arabia Saudita, che ha sempre mantenuto un atteggiamento di prudente attesa per non agitare troppo le acque nell’islam sunnita. 

Gli Houthi, dichiarati movimento terrorista da Trump, sono stati “riabilitati” da Biden che li ha esentati dalle sanzioni che impediscono movimenti bancari e relazioni con le ong umanitarie. Nel febbraio 2021 i ribelli hanno approfittato di una breve tregua per sferrare un attacco all’esercito regolare a Marib, area strategica per il controllo dei più grandi giacimenti di petrolio ed è qui che si gioca gran parte dell’ultimo atto di questo conflitto. Oltre al greggio, lo Yemen vanta una posizione strategica fra l’Oceano indiano e il mar Rosso attraverso lo Stretto delle lacrime (Baab al Mandab) e chi controlla quest’area - assieme al golfo di Aden - ha di fatto in mano un corridoio essenziale per il commercio internazionale.

Altro attore in gioco l’Iran, che sta affrontando in questi mesi una doppia, cruciale partita per il proprio futuro economico, politico e strategico nello scacchiere mediorientale: a Vienna sono ripresi da qualche tempo i colloqui sul nucleare, dopo il ritiro deciso dall’amministrazione Trump dall’accordo raggiunto nel 2015 (il Jcpoa) da Barack Obama e che l’attuale presidenza cerca di rilanciare, fra alti e bassi. Nei giorni scorsi una fonte europea ha espresso cauto ottimismo per una possibile soluzione positiva, ma le incognite restano e non è possibile fare previsioni per le molte variabili in gioco. 

All’atomica degli ayatollah si uniscono contrasti fra alleati - sulla carta - per la supremazia economica. Il riferimento, in questo caso, è al rapporto fra Riyadh e Abu Dhabi, uniti nella guerra contro gli Houthi in Yemen ma distanti, se non proprio divisi, in molti altri dossier: dalla lotta per accaparrarsi industrie e multinazionali nella regione, alle rispettive mosse sullo scacchiere diplomatico con Abu Dhabi che tesse la tela con Israele e il regno wahhabita che apre agli ayatollah dopo la rottura nelle relazioni conseguenza dell’assalto dell’ambasciata saudita a Teheran nel 2016, provocata dalla precedente esecuzione di un leader sciita da parte dei sauditi. Variabili complesse e di difficile lettura, che abbracciano interessi economici, commerciali, diplomatici e istituzionali spesso intrecciati fra loro senza dimenticare la grande questione legata alla supremazia nell’islam fra musulmani sunniti e sciiti. La sola certezza è che queste tensioni, questi conflitti si consumano sulla pelle di un popolo, quello yemenita, sempre più schiavo della fame e della disperazione. 

 

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