Cooperazione e prevenzione: così l’intelligence sfida il jihadismo

Minaccia attuale. Riunione a Roma su contrasto a radicalizzazione

MAG 7, 2019 -

Roma, 7 mag. (askanews) – Sebbene il Gruppo dello Stato Islamico (Daesh) abbia perso la sua dimensione territoriale, la minaccia jihadista rimane comunque “attuale e concreta” e la popolazione avverte “un forte senso di insicurezza”, la sensazione diffusa che il pericolo possa “mimetizzarsi e annidarsi ovunque”. E a fronte di questa circostanza, del terrorismo homegrown, dell’estremismo violento, del persistente attivismo dei gruppi terroristici transnazionali, e di processi di radicalizzazione che possono svilupparsi in maniera inosservata ed assumere accelerazioni improvvise, “la cooperazione internazionale”, la condivisione e il confronto di esperienze e prassi risultano di vitale importanza. E’ questo il quadro tratteggiato oggi dal direttore del Dis Gennaro Vecchione ed emerso durante i lavori della Conferenza Bridge, che ha visto riuniti a Roma funzionari ed esperti di intelligence in rappresentanza di circa 40 Paesi.

L’ascesa dello Stato islamico in Siria e in Iraq ha cambiato la portata e l’ambito d’azione dell’islam radicale, soprattutto in Europa. Il numero di adesioni negli anni 2013-2017 è aumentato di oltre 20 volte rispetto al periodo 2000-2013, e il Daesh (Isis) ha organizzato gravi attacchi in più parti del mondo. Il jihadismo, inoltre, continua ad esistere come movimento sociale in alcuni luoghi della terra, l’Africa, il Medio Oriente e l’Europa. Insomma, terrorismo ed estremismo violento continuano a rappresentare una grave minaccia per l’intera comunità internazionale.

E per contrastare il terrorismo internazionale di matrice jihadista, ha sottolineato Vecchione, la cooperazione internazionale acquisisce “una valenza decisiva”, nella consapevolezza che “le sfide da fronteggiare, per quanto ardue, per quanto destinate a snodarsi nel lungo periodo, possono essere trasformate in altrettante opportunità e possono essere vinte”. Condizione necessaria, hanno concordato i partecipanti alla conferenza, è però che la radicalizzazione venga “prevenuta e intercettata nella sua fase iniziale”. E’ fondamentale essere “tempestivi” e volgere lo sguardo non solo a quel che accade, ma “a quel che potrebbe accadere”. Magari sviluppando nuove misure di contrasto, almeno in Europa, e “cercando di favorire l’integrazione sociale, economica e culturale dei migranti e dei loro figli”, secondo la visione di Farhad Khosrokhavar, direttore dell’Observatoire de la Radicalisation presso la Maison des Sciences de l’Homme di Parigi.

D’altra parte è convinzione comune che non soltanto nessun Paese può illudersi di bastare a se stesso, ma nessuna intelligence può gestire “in esclusiva” la responsabilità della sicurezza. Dunque, secondo Vecchione, nel caso della prevenzione, occorre una logica di partenariato più ampia di quella che, ad esempio, sul piano istituzionale già raccorda le attività dei Servizi Segreti e delle Forze di Polizia. E l’intelligence è chiamata a concorrere al potenziamento delle abilità e delle competenze di tutti gli attori coinvolti nel contrasto al fenomeno sul territorio, guardando “alle carceri, alle scuole, ai servizi sociali territoriali e, più in generale, alla società civile”, con l’obiettivo di “cogliere precocemente i segnali di adesione al jihad, specie nei giovani, alla luce del progressivo abbassamento dell’età di avvio dei processi di radicalizzazione”.

Nelle carceri italiane, ha ricordato Augusto Zaccariello, comandante del Nucleo investigativo centrale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), ci sono oggi circa 20.000 detenuti stranieri, su una popolazione carceraria complessiva di oltre 60.000. E oltre 13.600 provengono da Paesi tradizionalmente di religione musulmana. Allo scopo di ridurre i rischi di proselitismo e di pericolosi sodalizi con altre consorterie criminali, il Dap ha messo a punto una serie di misure volte sia ad agire sull’accoglienza e l’integrazione, sia ad individuare, nel modo più precoce possibile, segnali di radicalizzazione violenta. Ma per quanti sforzi possano compiersi nella catalogazione dei comportamenti sintomatici, ha sottolineato Zaccariello, risulta evidente l’impossibilità di prevedere compiutamente tutte le ipotesi o i fattori di rischio. E quanto posto in essere dall’Amministrazione penitenziaria – ha insistito il comandante – “da solo non può essere sufficiente, perché il lavoro di prevenzione della radicalizzazione e i percorsi di depotenziamento e deradicalizzazione dei detenuti necessitano della partecipazione dinamica e proattiva di tutti gli attori, a tutti i livelli, pubblici e privati”.

A preoccupare sono poi il fenomeno relativamente nuovo – e in crescita costante – delle donne radicalizzate e il ricorso sempre più frequente al web da parte dei gruppi terroristici e dei loro simpatizzanti. Le donne radicalizzate, secondo quanto emerso durante la conferenza, rappresentano “una seria minaccia” per la sicurezza euro-mediterranea e internazionale. E se le reclute europee sono in linea di massima adolescenti idealiste, sedotte dalla visione utopistica del mondo proposta dai jihadisti, le nordafricane sono invece in prevalenza donne con bambini, al seguito del marito o di familiari, ha spiegato Fatima Sadiqi, docente dell’Università di Fez, in Marocco. Tutte, però, possono essere portate in prima linea nello sforzo per la de-radicalizzazione e diventare un fattore chiave per la prevenzione. E quelle che si pentono, diventano spesso protagoniste delle lotta la terrorismo, come militanti o attiviste politiche.

Quanto al web, invece, conferma una vera e propria transizione da un modello di reclutamento basato prioritariamente sul proselitismo e l’indottrinamento, a un altro incentrato soprattutto sulla propaganda online. Tutte le organizzazioni radicali, ha confermato il comandante del reparto antiterrorismo del Ros, Marco Rosi, hanno usato internet. magazine, video, social network e social media. Ma siti, forum e chat non sono soltanto strumento di propaganda e proselitismo, luoghi ideali per l’auto-radicalizzazione di chi, favorito dall’anonimato, si avvicina o si sente parte di un jihad globale contro l’Occidente.

L’attività di prevenzione, dunque, richiede un’attenzione particolare al controllo del territorio, alla sua capillarità, alla percezione di quanto avviene nel paese. “Non è l’anno zero”, ha precisato il direttore dell’Aisi, Mario Parente, “ma è importante che ci si confronti continuamente tutti, studiosi, forze di polizia, intelligence”, per una risposta integrata che tenga conto dell’evoluzione della minaccia e che risponda – nelle parole di Claudio Galzerano, della Direzione centrale della Polizia di Prevenzione – ai criteri di “azione sinergica, condivisione e valorizzazione della dimensione locale”.