venerdì 27 aprile 2018
Mezzo secolo fa, il 5 giugno 1968, veniva assassinato a Los Angeles il senatore democratico fratello dell’ex presidente Usa John Kennedy. Il libro “Parola di Bob” rilegge ora la sua eredità
Il senatore Robert Kennedy

Il senatore Robert Kennedy

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A mezzo secolo dall’assassinio di Bob Kennedy, In Dialogo pubblica «Parola di Bob. Le “profezie” di Robert F. Kennedy rilette e commentate dai protagonisti del nostro tempo» (pagine 184, euro 16,00), curato da Alberto Mattioli e Mauro Colombo con i contributi di Umberto Ambrosoli, Piero Bassetti, Furio Colombo, Giacomo Costa, Nando Dalla Chiesa, Paolo Foglizzo, Paolo Magri, Giusi Nicolini, Valerio Onida, Cristina Pasqualini, Savino Pezzotta, Livia Pomodoro, Venanzio Postiglione, la prefazione di Marco Tarquinio (direttore di “Avvenire”, scritto qui anticipato) e un contributo di Kerry Kennedy, figlia del politico assassinato nel 1968. Per l’uscita del libro si terrà il 7 maggio (ore 9.30), nella sede del Comune di Milano, la tavola rotonda «Le sfide dell'ordine mondiale alla luce delle “profezie” di Bob Kennedy».


Avevo dieci anni quando Robert Francis Kennedy fu ucciso. Era un 1968 di piombo e di luce, di grandi battaglie, di smisurate attese e di già mirate ferocie. E lungo il mezzo secolo che, anno dopo anno, crisi dopo crisi, delusione dopo delusione, abbiamo poi consumato desiderando tempi diversi e migliori, un interrogativo ha continuato a inseguire anche me. Che cosa avrebbe saputo generare la politica e che cosa sarebbe stato del nostro mondo e della nostra speranza se un uomo come quel carismatico senatore di New York – fratello dell’altrettanto carismatico John Fitzgerald Kennedy, 35° presidente degli Stati Uniti d’America, assassinato nell’esercizio del suo mandato – avesse condotto fino in fondo, e vinto, la corsa alla Casa Bianca? Quale altra direzione avrebbero preso cronaca e storia, in quel cruciale avvio dell’ultimo terzo del XX secolo, se proprio lui avesse conquistato la presidenza e, dunque, la leadership politica delle democrazie liberali e il principale ruolo-guida nell’intero consorzio delle nazioni?

Bob Kennedy, come tanti sanno e forse troppi ignorano nel nostro tempo superficiale e distratto, è stato e resta ben più dell’“altro Kennedy”. Leggere le pagine che seguono aiuta a ricordarlo e a capirlo. RFK, infatti, ha lasciato un segno e indicato mete persino più mobilitanti e anticipatrici e altrettanto suggestive della Nuova Frontiera di JFK. So bene che parecchi di noi, appassionati di umanità e di politica, si sono misurati con questa grande domanda sul leader annunciato, e mancato, del “mondo libero” negli anni in cui stava incubando, inavvertita, la storica sconfitta del “comunismo realizzato”. Ma, attenzione, qui non si parla del teorico di una qualche “terza via”, di quelle che sarebbero andate di moda trent’anni più tardi, ma di un interprete originale, perché acuto lettore dei “segni dei tempi”, della tradizione democratica americana che nulla ha a che vedere con il comunismo, ma non è affatto sottomessa al mercatismo. Ecco perché la domanda sul leader che avremmo voluto vedere all’opera si è ripresentata molte volte in questi decenni, mentre la risposta si venava di rimpianto. Ma si faceva anche più netta: se Bob Kennedy non fosse stato assassinato, se la “sua” visione politica – e, prima ancora, morale – avesse potuto tradursi in effettive scelte di governo, se insomma non soltanto la sua idealità politica, ma le concrete politiche che si era dimostrato in grado di concepire avessero potuto “contagiare” il mondo, avremmo probabilmente vissuto un ciclo storico in cui la battaglia per la libertà avrebbe coinciso in molti più modi e con risultati più coerenti con quella per la giustizia. E questo sarebbe stato un grande servizio alla causa della pace, che senza quei due pilastri – libertà e giustizia – è solo un’assenza di guerra. Obiettivo mai scontato, la costruzione della pace. Anche perché essa – come papa Giovanni XXIII proprio in quegli anni Sessanta aveva ricordato a tutti nella lettera enciclica Pacem in Terris –, oltre che sulla libertà e sulla giustizia, si fonda sulla verità e sull’amore. Beni scarsi e non facilmente riproducibili in politica, questi ultimi, anche se tutt’altro che inappropriati per ragionare sulla passione che ha mosso la testimonianza politica di Bob Ken- nedy e l’evoluzione delle sue posizioni e delle sue pubbliche scelte. Eppure non è un mistero che anche solo il parlare di pace può sembrare frutto di un’evocazione retorica o di una finzione propagandistica, quando c’è di mezzo l’esercizio della potenza militare ed economica, e – nel caso degli Usa – della più grande potenza militare ed economica (ma anche socio- culturale) del mondo. Il mix di realismo e di generosità, di schiettezza e di rispetto – il meglio della migliore cultura civile occidentale – che ha caratterizzato l’approccio ai problemi e l’azione pubblica di RFK, uomo di legge e statista capace di restare umanista e umanitario, aiuta tuttavia a credere che dalla “sua” America sarebbe venuto un solido contributo a questa buona causa. E che nella “sua” America molti uomini e donne di buona volontà avrebbero trovato un esempio forte e persino trascinante. Mentre facciamo i conti con le sregolatezze, le amarezze e le spregiudicatezze del tempo presente, è ben possibile pensare che, dalla Stanza Ovale, Bob Kennedy avrebbe posto alleati e avversari davanti a una solida e inevitabile pietra di paragone: una serie di buone pratiche legislative e amministrative e di presìdi tra il mondo del lavoro e della produzione reale e quello della finanza, in grado di difendere l’autentica libertà della società civile e un giusto ruolo del mercato, e di ispirare e motivare in diverse nazioni di ogni continente una classe dirigente più avveduta e consapevole di queste esigenze. In quel preciso momento storico, sarebbe stato essenziale avviare un simile processo. C’era da evitare la funesta e spesso violenta dissipazione ideologica di troppe energie giovanili e c’era da contribuire, con forza anticipatrice, a generare una corrente in grado di spingere il mondo verso una “globalizzazione dal volto umano”. Cioè una globalizzazione profondamente diversa dall’attuale, che in molti modi è stata avvelenata di irresponsabilità e di ingordigia e trasformata in campo di battaglia sulla pelle dei più poveri e dei più deboli.

È possibile, e riaccende la speranza, credere che l’impegno di RFK per quella che oggi – grazie alle parole e alla chiarezza che papa Francesco ci aiuta a trovare – chiamiamo «ecologia integrale» (integrale perché umana e ambientale) avrebbe indotto a prevenire, almeno in parte, e a governare anche la crisi da inquinamenti e da cambiamenti climatici o, se preferite, la “crisi da insostenibilità” con la quale, invece, dobbiamo misurarci in grave ritardo. Crisi che purtroppo, a causa dei giochi di potere degli attuali “numeri uno” delle principali potenze mondiali (Stati Uniti in testa), stiamo affrontando con una deludente e pericolosa oscillazione tra saggia determinazione ed esibiti scetticismi, tra razionale coraggio e cinici sabotaggi. Certo, non ci si può illudere che sarebbe stato facile, che non ci sarebbero state resistenze e non si sarebbero innescate reazioni veementi del vecchio e nuovo (dis)ordine alla proposta e alla leadership forte e innovatrice di Bob Kennedy. E lui ne era del tutto conscio, come dimostra anche la citazione da Il Principe di Niccolò Machiavelli (evocato in quell’occasione solo come «un filosofo italiano ») che il 6 giugno 1966 offrì ai giovani sudafricani dell’Università di Città del Capo: «Non c’è niente di più difficile da prendere in mano, di più pericoloso da condurre, o di più incerto successo che il prendere la guida al fine di introdurre un nuovo ordine di cose». Sapeva di essere un iniziatore, non un profeta.

Anche per questo è lecito concludere che una compiuta stagione politica kennedyana avrebbe irrobustito processi differenti e persino opposti rispetto a quelli avviati e custoditi, con dedizione degna di miglior causa, dal trasversale e transnazionale partito della deregulation e dell’indifferenza alla miseria, alle xenofobie e ai razzismi, alle diseguaglianze. Una conclusione che conduce a un’altra domanda, molto difficile da eludere. Più di qualcuno, in effetti, si è chiesto se nel cuore della vocazione politica di RFK ci fosse anche la sua fede, fede cristiana e cattolica. Io penso, da credente, che la domanda sia allo stesso tempo giusta e superflua. Domanda giusta perché la questione è seria. E, qui, viene in qualche modo sottolineata dalla rapida citazione di due Papi, colui che aprì il Concilio Vaticano II e colui che guida oggi la Chiesa, con parole che illuminano l’azione politica che Bob Kennedy aveva iniziato e prometteva di svolgere. Ma sarebbe stato naturale citare anche Paolo VI, papa della Populorum Progressio (1967) e di uno straordinario discorso alle Nazioni Unite (1965), col quale nel 1966 RFK sperimentò profonda sintonia nel corso di un’udienza sulla via del ritorno dall’angosciante Sudafrica dell’apartheid. Domanda superflua perché Robert Francis Kennedy è stato, anche in questo senso, un tipico americano, un serio laico cattolico e un politico fuori degli schemi. Naturalmente pronto, e con le parole della Bibbia, a parlare di Dio e con Dio. Attento ai testimoni del bene. Poco portato a strumentalizzare Cristo, i suoi vicari, i simboli religiosi. Un motivo in più per continuare a rimpiangerne la troppo breve parabola e per comprendere l’attrazione che il suo stile e la sua sostanza politica continuano a esercitare.

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