martedì 12 marzo 2019
Il Senato ricorda il leader di Forze Nuove nel centenario della nascita: dall’impegno sindacale a quello antifascista, fino alla guida della sinistra sociale Dc. Fu ministro “dei lavoratori” nel 1969
Carlo Donat-Cattin

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Lo si ricorda come un «cattolico scomodo», ma già la seconda parola, forse, è di troppo. Carlo Donat- Cattin fu un cattolico, rigoroso ed esigente, con sé stesso prima che con gli altri. Un uomo che «portò avanti i suoi convincimenti con assoluta franchezza e onestà, disposto anche alla impopolarità», disse di lui il cardinale Giovanni Saldarini nell’omelia funebre. Sì-sì, nono, per citare il Vangelo. «Quello che aveva in mente aveva sulle labbra», diceva padre Angelo Macchi, direttore di “Aggiornamenti sociali”. Il centenario della nascita di quello che fu il leader storico della “sinistra sociale” – che giovedì verrà celebrato al Senato – consente di rileggere la storia della Dc facendo uso della biografia di un uomo che ne fu protagonista molto più di quanto non dica la quota di consenso di cui fu intestatario. Il cavalier Massimiliano Cencelli nel suo celebre manuale non vide mai assurgere “Forze Nuove” a percentuali a due cifre, eppure il suo leader è sempre presente negli snodi cruciali della politica italiana. Rude di carattere, dalla madre Maria Luisa, discendente di una famiglia di conti di Finale Ligure (dove Donat-Cattin nacque il 26 giugno del 1919) ereditò la nobiltà d’animo che lo indusse a gettare il cuore oltre l’ostacolo nei momenti più difficili. Politico di professione, si direbbe oggi, ma sempre con la cifra del sindacalista e del giornalista, le sue passioni che formarono il suo impegno politico.

Dal padre di origini savoiarde – fra i fondatori del Partito popolare a Torino e deportato nei campi di prigionia tedeschi – ereditò la vocazione democristiana e antifascista, ma le radici del suo impegno sono tutte rintracciabili a Ivrea, alla Olivetti, dove lavorò prima come operaio, poi come insegnante al centro di formazione meccanici. Fu lì che entrò nel Cln come rappresentante della Dc, e nella stessa azienda prese avvio la sua militanza sindacale nonché il suo “pallino” giornalistico fondando il foglio clandestino “Per il domani”. In politica ebbe due grandi riferimenti in Aldo Moro e Arnaldo Forlani. Molto distanti per collocazione, a conferma dello spirito libero di Donat-Cattin. Leader della sinistra sociale, ma da cattolico “scomodo” anche fiero avversario del Partito comunista e dei rischi di “unanimismo” e “statalismo” che l’alleanza con il Pci comportava. Un percorso politicamente “eretico”, ma culturalmente coerente, che si rintraccia nel fitto carteggio che ebbe con Moro (pubblicato nel libro L’Italia di Donat-Cattin, Marsilio 2011). Gli esprime gratitudine dopo il primo incarico di sottosegretario alle Partecipazioni statali, nel governo Moro del 1963, unita a un certo rammarico per la poca considerazione avuta per la sua componente, visto che l’esecutivo uscente la sinistra sociale poteva contare su un ministro, nella storica figura di Giulio Pastore, e tre sottosegretari. Ma conservò sempre grande stima, per Moro.

Nell’aneddotica democristiana lui stesso raccontava un celebre episodio in cui superò la sua ritrosia verso l’altro leader della sinistra interna, Ciriaco De Mita, che guidava la corrente di Base, per portarsi entrambi di buon mattino a casa di Moro, allo scopo di indurlo al gran passo della candidatura al Quirinale. Moro aprì in vestaglia e la circostanza diede forza alla sua riluttanza con una celebre frase: «Alla presidenza della Repubblica si è candidati, non ci si candida». Al che Moro si congedò bruscamente, sull’uscio, dai due visitatori non annunciati. Donat-Cattin aveva condiviso la sua apertura ai socialisti di Nenni per dar vita al centrosinistra. E questo gli valse una sorta di “scomunica”, un divieto di prendere la parola agli incontri delle Acli e delle altre associazioni cattoliche per disposizione del Sant’Uffizio, che fu alla base di una lettera di rammarico che indirizzò a papa Roncalli rivendicando di non esser mai venuto meno «agli insegnamenti di dottrina e morale della Chiesa», e chiedendogli «umilmente di volere intervenire perché mi siano esposti i motivi della disposizione e perché possa riacquistare la necessaria serenità » di azione politica. La sua parabola politica lo vide, uomo giusto al posto giusto (fedele interprete dei «tempi nuovi che s’annunciano» di cui Moro parlò nel 1968) nel ruolo di ministro del Lavoro, o meglio “dei lavoratori” come lui amava definirsi, durante la stagione di lotte sindacali dell’Autunno caldo del 1969 che poi porterà all’approvazione dello Statuto dei lavoratori, nel maggio del 1970.

Fece della rivista “Settegiorni” il il think tank del cattolicesimo progressista, Piero Pratesi e Ruggero Orfei saranno fra i protagonisti del fronte del no nella battaglia referendaria per abrogare del divorzio, mentre Donat-Cattin, sia pur senza entusiasmo, non si sottrasse alla chiamata della segreteria Fanfani e dalla Cei. Progressista, riformista, ma dei comunisti non si fidava, non li vedeva come alleati di quella Terza via che perseguiva fra capitalismo e marxismo. Il 29 agosto 1977 Donat-Cattin scrive a Moro per dirgli della sua avversità alla linea della “solidarietà nazionale” alla quale Moro stava lavorando, mostrandosi scettico sulla «facile predicazione liberale dei comunisti italiani», e sull’ambigua esigenza «di governo e di lotta» di cui il Pci era portatore. Pur tuttavia considerò un «capolavoro », alla fine, il discorso con cui Moro, il 28 febbraio 1978, diede il via libera all’intesa. Ma le sue perplessità presero corpo di nuovo quando, scomparso il padre di quell’alleanza, il Pci riprese la sua ostilità verso la Dc.

Fu lui il materiale estensore del “preambolo Forlani”, il documento che mise insieme nel febbraio 1980 – in nome della rottura col Pci – dorotei, fanfaniani, Forze Nuove e Proposta a sostegno di Flaminio Piccoli, lasciando all’opposizione De Mita e Andreotti. La morte di Moro l’aveva segnato in profondità, e si interrogò a lungo se non si potesse fare di più per salvarlo. Ma non pensava che il dramma del terrorismo stesse per bussare anche a casa sua. Pagò caramente quel preambolo, pochi mesi dopo, quando il suo figlio più piccolo, Marco (ultimo di quattro) risultò coinvolto con gravi responsabilità dentro Prima Linea, ma sfuggì all’arresto. La durissima campagna orchestrata dal Pci di Berlinguer lo indusse a rassegnare le dimissioni da ministro del Lavoro, anche se – in realtà – non c’era stato nessun favoritismo. Estradato e condannato, il papà fece in tempo a vederlo pienamente recuperato. Ma il dramma era ancora in agguato, perché Marco Donat Cattin morirà il 19 giugno 1988, in autostrada, nei pressi di Verona Sud, vittima della sua stessa generosità travolto da un’auto mentre, sceso dalla sua vettura, stava segnalando agli automobilisti di fermarsi per evitare di venire a loro volta coinvolti in un incidente a catena appena accaduto.

Il cuore del padre non ha retto a lungo, ed è morto di crisi cardiaca dopo nemmeno tre anni, il 17 marzo 1991. Non sapremo mai che cosa avrebbe avuto da dire Carlo Donat-Cattin, nella fase della diaspora democristiana, e né possiamo intuirlo dalle scelte degli uomini a lui più vicini, entrati nei diversi fronti politici. Di certo, profeticamente, le ultime energie le usò a difesa del sistema proporzionale, «che in Italia ha portato al potere le grandi forze popolari», e per combattere il presidenzialismo «plebiscitario» e il maggioritario, sua anticamera, «che privilegia le scelte sulla persona, il successo, la ricchezza, molte volte emotive».

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