sabato 7 luglio 2018
Il fondatore di Slow Food al congresso nazionale del movimento nato nel 1986: responsabilità condivise per un cibo di qualità e accessibile a tutti
Carlo Petrini, fondatore di Slow Food

Carlo Petrini, fondatore di Slow Food

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«Ripartiamo dalla comunità». Carlo Petrini, classe 1949, ha l’entusiasmo di un giovanotto davanti allo slogan coniato da Slow Food. In concreto, il movimento della chiocciola fondato da Petrini non sarà più guidato da un presidente e un segretario, ma da un comitato esecutivo di sette membri, con responsabilità condivise e un modello orizzontale. Per il gastronomo, sociologo e scrittore da qui si vince la sfida di rendere il pianeta più sostenibile e dare cibo buono e pulito a tutti. «Abbiamo superato un modello europeo sul quale si basano associazioni, partiti, movimenti e sindacati per sposare un elemento più inclusivo. Quindi avremo comunità che operano a livello di sostenibilità ambientale e sociale. Ne abbiamo già che lavorano con disabili, con persone meno fortunate. Fatti salvi i principi distintivi della difesa della biodiversità, il lavorare su cibo buono, pulito e giusto difendendone il valore e non solo il prezzo, quando realtà comunitarie esprimono questa unità di intenti dobbiamo accoglierle e non far partire meccanismi come il tesseramento e la verticalità del governo. Dobbiamo realizzare quel che ci ha insegnato la rete di Terra Madre, quindi dare rappresentanza a realtà che stanno effettuando un cambiamento dal basso straordinario verso una realtà più sostenibile. Ma lei si immagina le nostre comunità africane o quelle degli indios Yanomani dell’Amazzonia nei nostri schemi? Invece occorre aprirci alla diversità non solo vegetale e animale, ma anche delle forme di socialità».

Quante persone coinvolge Slow Food?

Se resto all’elemento contabile in Italia siamo 40 mila, se penso ai mille orti realizzati nelle scuole italiane che coinvolgono bambini e insegnanti, genitori e nonni, siamo molti di più. In Africa abbiamo quasi 4mila orti che danno lavoro a 80 mila persone. Come facciamo a tesserarli? Sono tornato da un viaggio in Kenya, ho visto cose incredibili, si sentono Slow food, membri di Terra madre. Non possiamo escludere questa moltitudine.

Accessibilità di tutti al cibo buono, pulito e giusto. È ancora possibile?

È il nostro elemento distintivo, La lotta di buona parte del mondo con la malnutrizione e la fame grida ancora vendetta. Il nostro movimento non si occupa solo del piacere e della qualità del cibo disinteressandosi di chi non può sfamarsi. È una battaglia sancita nell’ultimo congresso a Chengdu, in Cina. Finché ci sarà un essere umano che non ha accesso al cibo noi ci batteremo.

Ma in un mercato globale dominato da poche multinazionali sembra quasi un miracolo che comunità e movimenti riescano a spingere verso la sostenibilità. Come fanno?

Guardiamo all’Italia. Oggi i presidi Slow food, forme di tutela e difesa di prodotti a rischio estinzione perché l’omologazione produttiva stava uccidendo la biodiversità, sono più rilevanti che non tante denominazioni di origine. La nostra attività ha valorizzato l’economia locale, della comunità e del territorio rispetto a un’impostazione del sistema alimentare che sta mettendo il potere nelle mani di pochi. La reazione è lavorare per un’economia locale che difenda le specificità e diventa una forma politica di intervento portatrice di un concetto diverso.

Ovvero?

Non siamo nati consumatori, ma per stare bene con le nostre famiglie, per crescere in armonia con la natura. Siamo esseri viventi, quindi abbiamo bisogno di un’economia diversa, collegata alla socialità e che esalti la diversità.

Ma spesso dietro la qualità del cibo in Italia si nasconde lo sfruttamento dei braccianti...

Su questo come sul problema dei migranti non riusciamo a sviluppare una narrazione per spiegare ai cittadini che il disastro in Africa che mette in moto i flussi non è causato solo da guerre, ingiustizie e violenza ma anche dai cambiamenti climatici. Dei quali siamo i principali responsabili, anche se il dazio lo pagano gli africani. Questo è iniquo. Se queste cose non si denunciano, se restiamo a guardare il fenomeno delle migrazioni intensive, non si capisce che è tutto legato e che i flussi sono il risultato di una politica di ladrocinio e discriminazione perpetrata su questi territori con la complicità di molti governanti africani.

Che senso ha allora la comunità?

Viviamo in un tempo dove la politica brucia i leader con velocità impressionante. È una dinamica che non lascia tracce, le comunità sono invece costruttive e potenti. Possono accettare grandi sfide perché hanno la sicurezza affettiva che + un antidoto alla politica dello scarto e della prevaricazione.

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