sabato 29 settembre 2018
Sfida tra Pdk e Upk nella regione autonoma curda che per prima ha scacciato i jihadisti del Daesh senza l'aiuto di Baghdad
Truppe curde dei Peshmerga al voto a Erbil  (Ansa)

Truppe curde dei Peshmerga al voto a Erbil (Ansa)

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Nelle prime ore di ieri i seggi elettorali della Regione autonoma del Kurdistan iracheno sono stati aperti ai 170.000 uomini delle forze di sicurezza. Saranno i peshmerga e le forze speciali dell’Asaysh a garantire l’ordine durante le votazioni di domani. «Ordine » è il termine che meglio spiega la presenza capillare delle uniformi sul territorio. Non solo queste rappresentano il timore di violenze e irregolarità, ma sono espressione diretta della storia politica che anima la periferia curda dello Stato iracheno. «Queste elezioni sono solo l’ennesima messinscena, nulla può cambiare se non esiste speranza» afferma Balas Hagi, giovane studentessa di scienze sociali all’università di Sulaymaniyya. Dalle guerre civili degli anni ’90 al crollo del regime di Saddam Hussein, il Kurdistan ha avuto due eserciti, due burocrazie e un confine geografico a separare l’egemonia di due partiti, il Pdk gravitante intorno alla famiglia Barzani e l’Upk, coa- lizione progressista tenuta assieme dal carisma di Jalal Talabani. Il Parlamento autonomo nato con la c-Costituzione irachena del 2005 è diventato una camera di distribuzione del potere, benedetto dai proventi del petrolio e costruito intorno ai grandi conglomerati finanziari e il monopolio della forza militare. L’unica sorpresa è arrivata nel 2009, quando Gorran, nato in opposizione alle oligarchie tradizionali, è riuscito a strappare Sulaymaniyya all’Upk, diventando il secondo partito. «Purtroppo oggi noi paghiamo la morte del nostro leader Nachirwan Mustafa. In questi anni non siamo riusciti a portare la nostra proposta fuori dai centri urbani, e i potentati impediscono l’emersione e la crescita delle forze nuove» spiega ad Avvenire una fonte interna al partito.

La guerra al Daesh ha congelato il confronto generazionale favorendo Pdk e Upk, travolti poi dal maldestro referendum sull’indipendenza del settembre 2017, spietatamente stroncato dall’esercito iracheno, che ha rioccupato i confini e i territori sottratti dai peshmerga al Daesh. Nonostante l’umiliazione, il Pdk beneficia dello slancio indipendentista. L’Upk invece, oltre a essersi ritirato senza combattere da Kirkuk, si trova profondamente diviso dopo la morte del fondatore Talabani. È a Baghdad che si gioca la partita decisiva. I buoni risultati ottenuti nelle elezioni nazionali di maggio hanno reso Pdk e Upk (25 e 18 seggi) rilevanti nella faticosa formazione del governo. Ma la prospettiva di ottenere congiuntamente dei benefici per la regione autonoma sta naufragando in queste ore intorno all’elezione del presidente della Repubblica, un curdo sunnita nella tradizione confessionalista irachena. Per la prima volta dal 2005 Pdk e Upk hanno presentato due candidati distinti, Fuad Hussein e Baram Salih, incredibilmente tornato all’Upk dopo aver fondato la Coalizione Democrazia Giustizia, ora allo sbando. Sebbene un accordo dell’ultima ora non sia impossibile, molte voci concordano nell’immaginare che la spaccatura possa riverberarsi pesantemente in Kurdistan. L’assenza di un’opposizione solida e un’astensione che s’immagina vicina al 60% perpetuerebbero il potere delle oligarchie tradizionali, soprattutto del Pdk di Massoud e Nachirwan Barzani, lasciando ancora una volta ai margini moltitudini che non hanno ancora conosciuto una primavera politica.

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